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AT THE
UNIVERSITY OF
TORONTO PRESS
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ARCHIVIO STORICO LOMBARDO
Whivio storico
LOMBARDO
GIORNALE
DELLA
SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
SERIE QUARTA
VOLUME III — ANNO XXXII
438717
l'3- te 43
MILANO
SEDE
DELLA SOCIETÀ
Castello Sforzesco
LIBRERIA
FRATELLI BOCCA
Corso Vitt. Em., 21
1905
La proprietà letteraria è riservata agli Autori dei singoli scritti
PS
657
Al
Ouuo 2 2.
Milano - Tip. L. F. Cogliati - Corso P Romana, 17
LA PARTE INEDITA
del più antico codice statutario bresciano (*)
Sommario. § I. Introduzione. — § II. Ricerche precedenti intorno agli statuti
bresciani. — § III. Descrizione dei due codici statutari del XIII secolo. —
§ IV. Ordine delle disposizioni nel codice statutario completo. — § V. La parte
inedita e sua importanza. (Attività legislativa della società dei mille e delle
associazioni popolari. Le fazioni bresciane. Norme varie di diritto pubblico
ed amministrativo. Statuti contro i ribelli di Valcamonica. Gli statuti della
gabella. Le consuetudini. L'ordinamentum ingrossatorum ed il sa-
cramentum extimatorum. Gli statuta clausorum). — § VI. Ca-
pitoli pubblicati in altre opere e collazione della parte inedita con lo statuto
del 1313.
§ I. Da molti anni campo ricchissimo di ricerche oltremodo
interessanti sono gli statuti dei nostri comuni medievali, fonti
preziose per la storia del diritto italiano. Fra i più antichi ben
pochi sono quelli che rimasero finora^ dimenticati nei polverosi
archivi, poiché quasi tutte le città sentirono alto il dovere di trarre
(*) Sento l'obbligo di ringraziare vivamente l'avv. Livio Tovini di Brescia
che volle, con grande cortesia, non potendo recarmi tanto spesso in quella città,
aiutarmi nel presente lavoro. Infatti la parte inedita del più antico codice sta-
tutario bresciano venne da lui esattamente copiata e sarebbe pronta per la stampa,
se qualche Istituto ritenesse opportuna tale pubblicazione. Così pure la collazione
della parte inedita con lo statuto del 1313 (a p. 39), lavoro lungo e paziente,
venne del tutto compilata dall'avv. Tovini. — Devo altresì ringraziare il prof. Gar-
belli della Queriniana di Brescia per la squisita gentilezza con la quale volle
aiutarmi nelle presenti ricerche.
M. Roberti.
Ó M. ROBERTI E L. TOVINI
dall'oblìo que' venerandi monumenti della sapienza e della pratica
esperienza dei nostri maggiori (i).
Però in quella, vera febbre di ricerca che, specialmente or fa
un ventennio, si accese fra gli studiosi della storia medievale
italiana, non tutte le edizioni degli statuti vennero condotte con
l'accuratezza, eh' è doverosa sempre, ma tanto più nella pubblica-
zione di opere di così grande mole. Talvolta (ciò però ad onor
del vero accadde ben di rado) l'edizione riuscì mancante sia dal
lato paleografico, sia per difetto di note storiche o giuridiche ;
oppure, cosa ancor più grave, venne quasi scelta a caso, senza
una opportuna critica dei vari manoscritti esistenti, e pubblicata
una copia di un codice statutario, reputato il più antico, ed invece
scorretto, o monco, od incompleto; così che l'opera, la quale era
stata con tanta fatica condotta a termine, finiva per portare sia
pur sempre un utile contributo, ma tuttavia ben limitato alla co-
noscenza di quella speciale legislazione statutaria.
Questo avvenne appunto, per una disgraziata vicenda di cose,
riguardo all'edizione degli statuti bresciani, pubblicati nel 1876
nel volume XVI dei Monumenta historiae patriae, sopra un esem-
plare tutt'altro che completo ; così che oggi sarebbe invero degna
opera scientifica il poter integrare tale pubblicazione, presentando
ai cultori delle storiche discipline ed in particolare agli studiosi di
storia del diritto, l' intero testo del codice statutario bresciano del
XIII secolo.
Ci si permetta intanto con questa breve dissertazione, dopo
di aver accennato ai vari scrittori che si occuparono dell'argomento,
di porre tra di loro a confronto i due codici che si conservano
nella biblioteca Queriniana di Brescia, facendo così notare al cor-
tese lettore l'importanza della parte inedita del più antico codice
statutario bresciano. Troppo spesso critici stranieri e nazionali
esprimono quasi il loro disgusto riguardo alle edizioni dei nostri
monumenti, che non riescono talvolta invero degni della scienza
italiana, e se ciò suona come un monito per il futuro, deve pure
(i) Fra gli statuti ancor inediti e che meriterebbero davvero di essere pub-
blicati, ricorderemo gli statuti antichi di Treviso, che si conservano nelle due bi-
blioteche comunale e capitolare ; gli statuti di Ferrara, la cui edizione rimase
sfortunatamente interrotta, e il codice carrarese della biblioteca civica di Padova,
che contiene numerosi capitoli inediti della fine del sec. XIII.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 7
spingerci ad un lavoro di revisione, vero atto di carità patria, per
correggere gli errori nei quali, forse per semplice inavvertenza,
sono caduti coloro che ci hanno preceduto.
§ II. Il primo che fece conoscere gli statuti di Brescia fu l'Odo-
rici, scrivendo la storia di quella città. Al testo egli volle unire la
maggior parte dei documenti citati, ed ancor inediti ; ma essendo
quasi impossibile inserire nell'opera tutti gli statuti bresciani, ne
pubblicò qualche breve tratto, riassumendo, per sommi capi, il
contenuto del codice, detto erroneamente del 1277. Il dotto scrit-
tore, nelle brevi parole d' introduzione, non accennò ai vari codici ;
ma notò soltanto che i capitoli di quel codice che aveva esaminato,
e dal quale aveva tratto alcuni frammenti, contenevano leggi diver-
sissime, agglomerate alla rinfusa, senza ordine di data, da diverse
commissioni elette a rivedere e riformare quelle già in vigore ; e
che per tali successivi rimaneggiamenti ne era uscito un caos di
consuetudini, di leggi, di statuti, di promissioni scritte in epoche
varie e di vario argomento (i). Alcuni anni più tardi egli si ac-
cinse a completare il disegno, da tanto tempo ideato, di una edizione
degli statuti del sec. XIII e di quelli del 1313; ma, per un caso stra-
nissimo, e di cui non si deve certo all' Odorici attribuire la colpa,
l'edizione ebbe a riuscire monca ed incompleta.
11 Rosa, nome ancor questo ben noto ai cultori dei nostri studi,
se attese nei suoi lavori di storia bresciana e nell'altra sua opera
Feudi e Comuni a tessere un completo racconto delle vicende del
comune di Brescia, valendosi abbastanza largamente delle fonti
statutarie, non sottopose mai ad una critica minuta i codici bre-
sciani più antichi, ad altri lasciando tale lavoro (2). Egli avrebbe
allora facilmente evitato al Lodrini e al Da Ponte l'errore nel quale
caddero, quando essi si prestarono « a pazienti e minutissimi ri-
« scontri sui codici dell'Archivio cittadino, lenta ed ardua im-
« presa » (3) ; forse troppo ardua, perchè essi, pure accorgendosi
che r Odorici compieva la sua pubblicazione sopra un codice in-
completo del XIII secolo, e conoscendo l'altro esemplare sincrono
(i) Odorici, Storie bresciane^ Brescia, Gilberti, 1854, voi. VII, p. 104 sgg.
(2) Rosa, Statuti di Brescia nel medio evo, in Arch. star, itaì., to. X, par. II,
P. 54 sgg.
(3) M. H. P., cit., prefazione dell'Odorici a p. [1584] 42.
8 M. ROBERTI E L. TOVINI
del tutto completo, non ne fecero caso, ritenendo forse quello molto
più antico di questo.
Ricorderemo ancora, così alla sfuggita, John Milton Gitterman
per avere pubblicato, in un breve lavoretto, la vita di Ezzelino da
Romano, con documenti tratti dallo statuto completo del XIII se-
colo (i). Notizia più larga merita invece l'opera di Andrea Valen-
tini. Questo diligentissimo raccoglitore delle notizie storiche cit-
tadine, in un lavoro specialmente critico, dopo di aver accennato
alle vicende delle leggi municipali bresciane, rilevò l'errore nel
quale era incorso involontariamente 1' Odorici, pubblicando gli sta-
tuti che formano oggetto di questa breve dissertazione. Il Valen-
tini, dopo un lungo esordio, descrive brevemente i due codici più
antichi che si conservano nella biblioteca civica Queriniana di Bre-
scia, segnati nn. 3 e 4, ambedue contenenti gli statuti del XIII se-
colo; affermando che il secondo è completo, mentre è incompleto
l'altro che servì per l'edizione dei Monumenta. Riassume quindi,
dopo aver accennato al codice n. 5 del 1313, edito pure dall'Odo-
rici, i codici ancor inediti del 1355 (n. 6) di Bernabò Visconti ; quello
del 1355 (n. 7) di Gian Galeazzo Visconti; nonché il codice statu-
tario del 1429, del quale si giovò il Ferando per pubblicare gli Statuta
civitatis Brixiae del 1473, oggi rarissimi. Oltre poi che arricchire il
suo lavoro di documenti inediti, come lo statuto contro i ribelli di
Valcamonica (cod. n. 4, e. 129 v.) del 1288, la pace « Inter intrin-
u secos et extrinsecos brixienses » del 1317 (cod. n. 6, e. 115),
l'estimo del comune di Brescia del 1385, collazionò altresì con op-
portuni confronti molti capitoli dei vari codici, chiudendo questa
operetta con una ricca bibliografia di tutti gli statuti dei paratici
bresciani.
Per ultimo il Lattes, il quale nei suoi primi lavori non rilevò
l'equivoco nel quale era caduto 1' Odorici (3), nel suo completo e
diligente studio intorno al diritto consuetudinario delle città lom«
(i) Eielin voti Romano, Stuttgart, 1890. La trascrizione del documento pub-
blicato venne compiuta dal Valentini.
(2) Valentini, Gli statuti di Brescia dai secoli XII al XV ili., in Nuovo Ar-
chivio veneto, XV, 1898, p. 370; XVI, p. 188.
(3) A. Lattes, Il diritto comm. nella legisl. statutaria, Milano, U. Hoepli,.
1884, p. 9 ; Intorno al diritto consuet. delle città lomh., in Rend. R. Ist. Lomb.,
serie II, voi. XXVII, 1895.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 9
barde, pubblicando le Consuetudini di Brescia (le quali si trovavano
ancor in gran parte inedite nel manoscritto completo del sec. XIII,
mentre mancavano del tutto nell'altro codice della stessa epoca)
notò come il codice n. 4 fosse per una parte rilevante ancor ine-
dito e come V Odorici avesse fatto uso per la stampa degli statuti
bresciani di una copia posteriore, piena di errori e di lacune. De-
scrisse altresì, per quanto brevemente, il codice ; ammettendo che
fosse stato compilato nel 1298; ma, eccetto tale fuggevole accenno,
non si occupò della parte inedita, uscendo tutto ciò dal suo interes-
sante argomento (i).
§ III. Gli statuti bresciani del sec. XIII sono, come abbiamo
accennato, contenuti in due codici, l'uno completo, con gravi lacune
invece il secondo. L'esemplare incompleto (segn. n. 3), benissimo
descritto dal Valentini, è un volume di 105 carte pergamenacee e
13 cartacee ; misura cm. 30 :x 32, è legato in pergamena, e porta
il titolo u Statuta civitatis Brixie ». 11 carattere è gotico, minu-
scolo ; r inchiostro è ancor nero, le iniziali sono in rosso ed in
azzurro ; manca però il titolo dei libri e dei singoli capitoli. An-
darono perdute di questo codice molte carte; in parecchie qualche
tratto venne raschiato in modo da lasciare delle parole appena la
traccia. Esso, sebbene ritenuto il più antico codice statutario bre-
sciano (2), non è che una copia del codice n. 4, del quale venne
tralasciata tutta la parte scritta in rosso, come chiaramente dimo-
stra il confronto dell' indice del secondo libro, che più innanzi pub-
blichiamo. Ben poco riuscirebbe certo a capire da questo manoscritto
chi volesse ricercare soltanto in esso la storia delle varie reda-
zioni statutarie bresciane. Più rilevante invece riuscirà la descri-
zione del codice completo.
È questo un volume in fogUo, legato come il precedente, in
pergamena ; composto di 188 carte, capaci ognuna di circa 36-38
linee : misura cm. 41 x 29 ; gli statuti sono scritti in un nitido ca-
rattere elegante, gotico minuscolo, proprio della fine del XIII secolo.
Come osservò già 1' Odorici, l'ordine numerico degli statuti e
delle pagine fu segnato più tardi ; infatti l' inchiostro adoperato in
(i) A. Lattes, // diritto consueta delle città lomh., Milano, U. Hoepli, 1898.
(2) Valentini, Gli statuti cit., p. 31: « questo è creduto il più antico co-
« dice degli statuti che ora esista ».
IO M. ROBERTI E L. TOVINI
tale posteriore lavoro ha una tinta che ha perduto assai della sua
primitiva vivacità. Ben a ragione si può presumere che il mede-
simo scrittore che fece tale numerazione (o almeno uno scrittore
della stessa età) abbia aggiunto in calce ad alcuni capitoli le di-
sposizioni più recenti che si leggono trascritte alla lettera nel co-
dice del 1313 (i); disegnando altresì nel margine di molte pagine
delle figurine (dadi, forche, vesti, croci, ecc.) le quali dovevano
offrire al lettore una materiale spiegazione della legge cui esse si
riferivano.
Il codice sul dorso porta scritto: « Statuto dal 1292 al 1298 »,
ed in carattere moderno: « Anno 1277 ». Questa seconda data
parve certa a molti studiosi, che vennero evidentemente tratti in
errore dal seguente proemio, pubblicato sia dall' Odorici, che dal
Valentini, in modo non però del tutto esatto, e che si legge, scritto
in rosso, a e. io del codice stesso :
« Hec statuta comunis brixie de latibulo confussionis exposita
« claritati. Seiuncta siquidem (correz. post, in inch. nero e caratt.
« cors. qua) erant olim statutorum membra que pertinere nosce-
n bantur ad idem et sparsum (corr. sparsim) locata per varias libri
« partes unde (corr. itaqué) grosine (corr. sine) tediosa concaucio-
« nis (?) indagine veritatis integritas non potuit (corr. poterai) repe-
« riri. Contrarietatis (corr. contrarietas) etiam et aet (?) (cane, post.)
« diversitas in quibusdam que (cane, post.) legencium mentes ad-
« versis (corr. diversis) dubitationibus impugnabat. Insuper quod
« (corr. que) obscuritati porrigebat (corr. porrigebant) augmentum,
« iuncta simul erant utilia cum superfluis et approbata Consilio cum
« cassatis. Et sic predictis occassionibus qui querebant in statuto
« aliquid, velut per nemus termitate (sic) carens ancipites vagabun-
« tur (corr. vagabantur). Sed resecatis que superfluitas viciabat, eli-
« minatis (corr. claritatis) que consilium robore denudavit, contri
« rietatis oppugnatione sublata, singulisque pertinentibus ad ean-
« dem materiam sub titulis competentibus laudabiliter agregatis,
a certe dispositionis ordine, quo via facilitatis adquirenda tribuitur,
« prout linquet inspicientibus, statuta ipsa dispositione, sunt debite
(i) Così ad esempio il tratto a e. 16 del cod. n. 4, dalle parole : « et quod qui-
« libet potestas » alle parole : « ipso facto et ipso iure », aggiunto nel margine,
è riprodotto alla lettera nel codice del 1 3 1 3 .
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. II
u ordinata (agg. post, per infrascriptos dominos statutarios ad hoc
u electos servatis solepniter opportunis. Nomina quorum sunt hec)
« anno domini Millesimo CC.LXXVII (corr. CCLXXXXVIII) in-
« die. quinta (corr. ind. XI) (i).
A questo proemio, come ben si vede, non troppo corretto,
fanno seguito alcuni versi, pubblicati pure dal Valentini, rimati a
due a due, con quella costruzione un po' strana e pur così cara
ai notai del dugento e del trecento che volevano dare prova, con
qualche vezzo letterario, della loro cultura :
Hec modo preclarent licet olim condita starent
Nube sub obscura peperai quam spersio dura.
De quibus exceptum fuit omne quod stat ineptum.
Versibus et prosa constructio fit preciosa.
Tunc epygrama placet cum sub utroque jacet.
Laus igitur (2) Christo versu referatur in iste.
Quo lux formatur gratia ubicuique datur.
Laus igitur Christo de cuius munere sisto.
Vi ha quindi riportato il titolo di venti capitoli, nell'ordine
che segue ; i quali trattano le cose le più disparate ; poi questo
elenco termina, ed incomincia il primo libro degli statuti col giura-
mento del podestà, nello stesso ordine del codice n. 3, già pubbli-
cato nei Monumenta. Ecco il brano d' indice, che sembra non avere
a prima vista molta relazione col contesto delle pagine succes-
sive (3) :
De sacramento et offitio et salano et satisfactione potestatis. (f.ij
agg. post.).
De registro et statutis et denunciationibus prò exhonorando.
De consilìariis et consiliis.
De spiis et ambaxatis et euntibus prò comuni.
De debito comunis solvendo.
De securando palatio et custodia broletti et carceris comunis.
De augmentanda civitate et inmunitatibus prò hoc concessis.
(i) Le indizioni corrispondono esattamente alle due date. Si confronti tale
proemio con quello del codice del 1315 nell'edizione dei Monumenta, 3. p. 1585.
(2) Il Valentini e 1' Odorici lessero « gloria », ma il segno paleografico
corrisponde precisamente ad « igitur ».
(3) Cosi ritenne anche il Valentini, op. cit., p. 34, il quale scrive: ce Segue
« un brano d'indice del primo libro tolto forse da qualche altro codice statutale,
« senza esatta relazione col contesto delle pagine successive ».
12 M. ROBERTI E L. TOVINI
De prelatis et pastoribus ecclesiarum.
De elimosinis et concessionibus amore dei fatiendis.
De toloneis et pedagiis et de ferris (?) fatiendis.
De strada mantuana asseguranda et ut negotiatiores securi vadant.
De mutuis et dathiis seu fodris.
De aptandis castris riperie oley.
De prohybitis in locis brixiane.
De afranciiitanda terra mosii.
De providendo ad statum castrorum et mercati novi.
De mercatis et mensuris.
De biava et victualibus et rebus nascentibus in nostro districtu ser-
vandis.
De emendando breve comunis.
De innovando regimine civitatis.
Ora sì il Valentin! che l' Odorici, avendo notato in fine del
proemio la data 1277, attribuirono la trascrizione dell' intero co-
dice all'autore medesimo del proemio ; anzi il Valentini sembra
quasi affermare, ciò che non era certamente nella sua intenzione,
che il codice stesso è del 1277, nel quale anno « si provvedeva
« che in un sol volume gli statuti fossero raccolti ed ordinati w.
« Per mala sorte, presegue il Valentini, la saggia deliberazione non
u conseguì lo scopo prefisso; è bensì vero che gli ordinatori an-
« nunziano di aver tolto dal latibulo confusionis le sparse membra
u delle vecchie deliberazioni, ma invece il loro lavoro presenta
« un caos di consuetudini, di leggi, di giuramenti, di convenzioni
« registrate senza alcun ordine sistematico, né cronologico » (i).
L'equivoco, originato forse dalle inesatte espressioni che usarono
i due dotti- scrittori, è chiarissimo, perchè questo codice contiene
moltissimi statuti emanati dopo il 1277. Secondo poi il Rosa « il
« notaro non fu che un semplice istrumento nei mani dei reggitori
« di quel tempo ; ad essi la colpa di avere intercalati nel volume
« ordinamenti per data ed argomenti disparatissimi » (2).
Dall'esame accurato del codice risulta invece che già esi-
steva da tempo una raccolta delle disposizioni statutarie bresciane,
probabilmente della fine del sec. XII (3) , o del principio del
(1) Valentini^ Gli statuti cit., p. 35.
(2) G. Rosa, Stor. bresc, p. $0.
(3) Ad essa forse si riferisce il doc. XIV del Lib. Potheris {M. H. P., XIX,
e. 46), nel quale si stabilisce che il testo dell'accordo avvenuto nel 1 199 fra Bre-
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. I3
sec. XIII, e che a questa prima raccolta erano state aggiunte
moltissime leggi nel frattempo emanate, così che « qui querebant
« in statuto aliquid, velut per nemus vagabantur » (i). Il notaio
che scrisse il proemio unì allora in una seconda raccolta gli
statuti emanati fino al 1277, dando forse loro una nuova disposi-
zione più sistematica (2). Della prima collezione non ci rimase che
il solo ricordo; ma di questa seconda abbiamo il proemio e l'ac-
cenno alla divisione in sei libri : a e. 28 (incipit liber secundus),
a e. 52 r. (liber quintus ; forse era scritto liber quartus), a e. 55 v.
(liber quintus) e a e. 183 (incipit liber sextus) del codice n. 4. Ri-
masero pure intercalati nel codice n. 4 dei brani d' indice : del
primo libro, che è quello più sopra riportato : del libro secondo e
del libro quinto, che qui pubblichiamo essendo ancora inediti :
a e. 28) Incipit liber secundus.
De sacramento et offitio iudicum potestatis et de offitio eius-
dem potestatis usque ad distinem (distinctionem ?) oflficio-
rum iudicum.
De cataris et alis sectis ab ecclesia reprobatis.
De maleficiis homicidiis et feritis.
De penis et bannis et libris bannitorum perpetualium et prò
malificio fatiendis et servandis.
De coniurationibus non fatiendis.
De incendiis et dampnis furtive factis.
De variis iniuriis et interdictis.
sciani e Bergamaschi « in statutis civitatis ponatur ut semper ibi permaneat
« immutabile », a meno che non si voglia ammettere una prima redazione fatta
nel sec. XII.
(i) È appunto a questa prima raccolta che si riferisce lo statuto del 1245
(col. 100 nell'ediz, dei Mon.) nel quale si prescrive al podestà l'obbligo di con-
servare gli statuti in tre esemplari, da tenersi uno presso del podestà stesso, uno
presso i giudici, il terzo presso un notaio « qui teneat et conservet ipsum librum
« statutorum ». Un documento del Liber Potheris {Moti. hist. patr.^ cit., e. 575,
n. 1^2. A. 1249-50) parla di questo corpus seti volumen statutorum, diviso al-
meno in tre libri. La divisione in libri fu introdotta quindi fino dalla metà del
sec. XIII.
(2) L'esistenza in quella età di una copia di questa prima redazione di sta-
tuti ci viene confermata da un documento del 1270. Infatti nei patti di concordia
fra Brescia e Carlo d'Angiò, stabiliti appunto in quell'anno, si legge : « ubi pena
« imponitur pecuniaria debeat procedere secundum statuta et ordinamenta et
« consuetudìnes civitatis Brixie ». (Liber Potheris in op. cit., e. 957).
I
14 M. ROBERTI E L. TOVINI
*
De inquisitionibus inde fatiendis.
De condemnationibus faciendis Consilio octo condempnatorum
et offitio illorum condempnatorum.
De condempnationibus quas potestas potest facere per se.
De ministralibus et eorum officio.
Queste rubriche sono scritte alternativamente in rosso ed in
nero, e vennero quindi solo in parte (quelle scritte in nero) ripor-
tate nel codice n. 3, e da questo nei Monumenta (col. 123). Ed
ecco infine le rubriche del libro quinto, scritte in rosso, e quindi
nel codice n. 3, del tutto tralasciate :
(a e. 55 V.) Liber quintus.
De electione officialium et eorum salariis.
De electione potestariarum terrarum brixiane.
De prohibitione potestariarum terrarum brixiane et locorum.
De cessatione (?) elegendi.
De cessatione et prohibitione officialium comunis.
De sacramento sequimenti.
De sacramentis et officio officialium comunis.
Confrontando poi i titoli contenuti in questi brani d' indice coi
capitoli di ciascun libro, si trova che essi coincidono con una certa
esattezza e che hanno più relazione di quello che si creda col
contesto delle pagine successive. Ci si presenta cioè, benché alte-
rata dalle numerosissime interpolazioni, la tela dell'antico codice
statutario bresciano del 1277.
Dal 1277 al 1293 circa, in questa seconda raccolta vennero
fatte molte, correzioni, che il Valentini enumera per sommi capi
nel lavoro sopra ricordato (i). Nel 1293, poiché le ultime aggiunte
sono appunto di tale anno (ce. 144 e 183), venne fatta la redazione
che ora ci rimane ; ricopiando, con vari errori (2), poiché il notaio
non seppe o non riuscì a decifrare bene lo scritto, il codice ora
perduto del 1277, con tutte le aggiunte e le modificazioni fatte nel
frattempo, senza darvi un ordine né cronologico, né giuridico (3).
(i) Valentini, op. cit, p. 36.
(2) Parecchie indizioni come a e. 99 (A. 1280, ind. VII) sono errate. Il
1280 corrisponde all' ind. VI.
(3) In molti luoghi di questo codice è ricordato che sotto la podestaria di
Rolandino di Canossa (1292-95) furono riordinati gli statuti, esaminati dagli
anziani e da sei sapienti per quartiere.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. I5
E forse si reputò inutile fissare una data alla nuova collezione,
tanto erano spessi nel trecento i mutamenti di istituzioni, di ma-
gistrature, di leggi, specialmente quando si faceva, come allora
dicevasi, popolo nuovo (i).
Nel 1298, come bene scrissero il Valentini ed il Lattes, gli sta-
tuti riordinati nel 1293 furono sottoposti a nuova revisione, ed i
correttori, presi in esame i due manoscritti del 1277 e del 1293 (2),
ne prepararono una quarta trascrizione che non giunse fino a noi
e che forse non fu mai compiuta. L'ipotesi è abbastanza logica,
osservando che la data 1277 scritta nel proemio venne cancellata
e sostituita dall'altra 1298, scritta in inchiostro nero ed in carattere
corsivo ; che nel primo paragrafo dello statuto, dove è scritto :
« iuro ego vicarius », questa parola è cancellata ed è sostituita
[all'altra « potestas » (3) ; che in moltissimi fogli si osservano cor-
rezioni nella stessa scrittura corsiva e cancellature interlineari, an-
notazioni di « vacat » e interi capitoli abrogati, aggiunte datate,
osservazioni marginali; e che infine la stessa mano aggiunse la
numerazione dei capitoli e la divisione in libri ripetuta in cima di
ogni foglio. L'ipotesi è tanto più logica, come pure osservarono
il Valentini ed il Lattes, poiché nel 1298, eletto a capo della
città il vescovo Maggi, fu giurata la pace tra guelfi e ghibellini, e
(i) duesta copia, del 1293, venne fatta senza alcun criterio giuridico, ma
in modo veramente materiale da uno scrivano o da un notaio qualunque. Oltre
che inserire negli statuti le correzioni marginali fatte in varie occasioni dagli
statutari, furono ricopiati altresì i verbali delle sedute nelle quali vennero vo-
tate le correzioni stesse. Cosi le correzioni che si leggono a e. 120 v. sgg. del
cod. n. 4, si vedono già inserite negli statuti a e. 17 v. ; anzi gli statutari eletti
nel 1298, con una nota marginale, segnarono evidentemente tale ripetizione.
(2) Che i correttori del 13 13 abbiano preso in esame anche il ms. del 1277,
crediamo poter desumere sia da una nota marginale che si legge nel cod. n. 4
a e. 121 V. e che dice, a proposito del cap. CXXI : « hic videtur vacare unum
« statutum qui est in libro veteri » ; sia dall'avere i correttori riportate nello
statuto del 13 13 varie disposizioni che mancano nel cod. n. 4 e che sono ante-
riori al 1277. (Mon. hist'patr., stat. del 13 13, lib. Il, § LVI, A. 1254; III, xil,
A. 1252).
(3) Non solo nel primo paragrafo, ma in tutto il codice la parola « potestas »
è sostituita dall'altra « vicarius ». Cfr. ad es. a e. 1 37 cap. XV ; a e. 174 cap. CXL, ecc. ;
variazioni riportate naturalmente nella redazione del 1 3 1 3 . Cfr. ad es. il cap. XV
a e. 137 cit. col cap. CXCIII del lib. Ili in ediz. dei Mon. stat. del 131 3.
l6 M. ROBERTI E L. TOVINI
in quel solenne giuramento trovasi l'ordine della riforma degli
statuti (i).
Dall'attento esame di questo codice, che si deve riguardare
come il più antico codice statutario bresciano, abbiamo quindi no-
tizia di ben quattro diverse redazioni fatte nel sec. XIII, cioè
quella senza data precisa, ma certo del principio di quel secolo,
quella del 1277 (ambedue perdute), quella del 1293, di cui esistono
due esemplari e quella del 1298.
§ IV. Descritti così i codici statutari bresciani del sec. XIII,
crediamo opportuno, senza voler ripetere quanto dissero il Rosa
ed il Valentini, seguire l'ordine delle disposizioni e vedere le date
dei principali gruppi di statuti contenuti nel codice completo, per
mostrare le gravi differenze di questo, col codice n. 3, pubblicato
nei Monumenta, e per conoscere altresì quali capitoli rimangano
ancor inediti.
Le lacune del codice n. 3 si devono in parte riferire allo scrit-
tore, il quale, come abbiamo sopra accennato, tralasciò nella copia
ch'egli fece quanto nel codice n. 4 era scritto in inchiostro rosso,
oltre tutte le aggiunte marginali; in parte invece dip^dono dalla
mancanza di fogli e di interi quaderni asportati, e da cancellature
ed abrasioni che rendono impossibile la lettura dello scritto. Dalle
prime che andremo più sotto annotando, noi possiamo trarre spesso
la data delle disposizioni, e talvolta il nome degli statutari e varie
altre interessanti notizie ; le seconde, che diligentemente pure segne-
remo, ci mostrano capitoli e interi gruppi di statuti ancor inediti.
Il codice venne diviso nei 1298 in otto libri ; ma tale divisione
priva di ogni criterio giuridico, non si dovrebbe certo nella pub-
blicazione seguire (2). Esso si apre con una nota di spese, fatta
(i) Valentin!, op. cit., p. 37; Lattes, // dir. cons., p. io.
(2) I codici statutari precedenti si dividevano in quaderni, carte e primo o
secondo lato della carta. Infatti, durante tutto il sec. XIII le citazioni (dovendo
ad es. correggere uno statuto) si facevano così : " Statuto posito in primo latere
« lercie carte, secundi quaderni quod incipit, etc. » (cfr. cod. n. 4, e. 121, lac.
in Mon., col. 248). Divisione, come ben si vede, molto primitiva e che doveva
ingenerare, nelle nuove redazioni statutarie, grande confusione e che s'abbandonò
nella nuova redazione del 1313. Cfr. cod. n. 4 a e. 121 (cap. LIUI) con il co-
dice del 13 13 in ediz. dei Mon. lib. II, § XXI.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. I7
sembra, nel 1309, e dal tempo resa quasi indecifrabile; segue una
u reformatio consilii centum » del 1292 e l'interessante statuto contro
i « malesardi « che manca nel codice n. 4 e che fu aggiunto più
tardi nel nostro codice per ordine del comune. A e. io si leggono
il proemio, i versi e l'indice, che abbiamo sopra riportato; l'indice
doveva essere nella redazione del 1277 quello del primo libro. Se-
guono quindi, fino a e. 28 v. gli statuti, secondo l'ordine preciso
<iel codice n. 3; soltanto in quest'ultimo mancano tutti i titoli delle
rubriche e dei capitoli, i quali però nulla ci offrono d'interessante.
In questo primo libro abbiamo riscontrato le seguenti princi-
pali lacune :
Cod. n. 3, lac. in col. 106 dell'ediz. dei Mon., 14 capitoli (cod. n. 4
dal LXXI al LXXXIV a e. 17).
„ „ 107 parte di un capit. (cap. LXXXVIII a e. 19).
„ „ 109 un capitolo (cap. XCIII a e. 20).
„ no „ „ ( „ XCV a e. 20).
A e. 28 fcfr. Mon.j e. 123) incomincia nella redazione del 1298,
seguendo quella del 1277, il secondo libro, coli' indice che abbiamo
sopra integralmente riportato. Gli statuti, che seguono da e. 28 v.
a e. 38 V., si possono a ragione affermare redatti in gran parte nel
1277, poiché leggiamo a e. 38 v. la seguente aggiunta inetiita scritta
in rosso : « Hec sunt statuta ultra predictas corectiones statutorum
« et suprascripta capitula de novo condita per corectores ad hoc
« electos de voluntate consilii generalis M.CC.LXXVII » ; le quali
parole gettano luce intorno alla redazione nuova avvenuta appunto
in quell'anno. È curiosa poi la seguente aggiunta inedita al cap. XV
(e. 32 r. ; cfr. Mon., col. 128: « Item quod orbi ») : « et gayuffi w,
e in margine : « et intelligantur gayuffi omnes de quibus quatuor
« boni homines et bone fame — fuerint concordes ».
A e. 40 {Mon., lac, col. 123) è riportata la seguente intesta-
-zione: « Statuta comunis Brixie que cancellata erant et de novo
u sunt confirmata et sunt XVII ». Si leggono quindi alcuni capi-
toli, molto importanti e del tutto inediti, del 1252 e del 1285; ma
non ci venne fatto trovare cenno alcuno di separazione che possa
-distinguere i diciasette capitoli accennati nell'intestazione da quelli
che seguono. Questo fatto avvalora l'opinione, espressa più sopra,
^he il notaio abbia raccolto nel 1277 gli statuti fino a quel tempo
emanati, ma che il comune fino al 1293 continuasse ad innestare
Arch. Slor. Lomb., Anno XXXII, Fase. V. 2
l8 M. ROBERTI E L. TOVINI
qua e là, senza aggiungere un legame qualunque con le leggi già
esistenti, le varie deliberazioni che si prendevano di anno in anno.
Come infatti si vede, l'ordine cronologico difetta assai in questo
codice, che riuscirebbe, se le date fossero certe per ogni gruppo
di leggi, tanto più prezioso per gli studi storici bresciani.
Così, senza accenno a data alcuna, leggiamo a e. 52 r. la se-
guente intestazione scritta in rosso ed ancora inedita (lac. in Mon.,
a col. 148, segnata da punteggiatura) : « De officio sacramento il-
« lorum duorum iudicum potestatis, qui debent preesse placitis et
« de iudiciis et modo rationum et de statutis pertinentibus ad eun-
u dem et de consuetlidinibus ». Questo titolo molto importante passò
inavvertito da tutti gli storici sopra ricordati, fuorché dal Lattes (i);
e diciamo importante, perchè dalle ultime parole sembrerebbe do-
vessero seguire le antiche consuetudini bresciane. Ora fino al n. CC,
i capitoli regolano Tufficio dei giudici e la procedura giudiziale ;
seguono quindi altri sette statuti (cfr. ediz. Mon., col. 152) dei quali
quattro, sia per la data, sia per l'argomento, non possono certo dirsi
di origine consuetudinaria, e tre soltanto (il 202 del 12 16, il 203
del 1225 e il 204) potrebbero riguardarsi come reliquie di un
gruppo di consuetudini (2). Forse gli statutari del 1293 raccolsero
a parte le consuetudini, che formano infatti il settimo libro del
codice stesso (3).
Con queste disposizioni termina il secondo libro, nel quale ab-
biamo riscontrate rispetto all'edizione dei Monumenta le seguenti
lacune :
Ediz. dei Mon., col. 133. Lac. di 51 capitoli (cod. n. 4 a e. 35 dal
XLIV al XCV).
„ 135 un capitolo (a e. 44 v. n. CVI).
„ 136 „ „ (a e. 44 n. CVIII).
„ 136 „ „ frammentario nello stampato (a e. 44
n. CVIIII).
„ 136 quattro capitoli frammentari nello stamp. (a e. 45
nn. CXI-CXIIII).
(i) Lattes, op. cit., p. io (25).
(2) Però il Lattes non riportò in appendice nessuno di questi capitoli.
(3) Si noti che il documento del 1270 ricordato più sopra dice : " Statuta et or-
" dinamenta et consuetudines „, mentre la parte che si riferisce alle consuetudini
bresciane è in questo stesso codice intitolata: " De usanciis „.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. I9
Segue quindi, secondo la redazione del 1298, a e. 55 v. il terzo
libro {liber quintus secondo quella del 1277), il quale incomincia
col breve indice inedito, che abbiamo sopra riportato. Le aggiunte
e le interpolazioni fatte dopo la redazione del 1277 qui si vedono
benissimo, poiché mentre a e. 70 lo statuto determina le funzioni
dell'ultimo ufficiale del comune, cioè del precone, dopo cominciano
senz'altro le leggi sui tavernieri. E le additiones o correctiones si
mostrano qua e là numerose, con date diverse, frammezzate ai ca-
pitoli riferentisi agli uffici delle varie magistrature. A e. 77 vi ha
una grande iniziale che dimostrerebbe il principio di un nuovo
libro o di una nuova rubrica, ma invece non si trova nel testo nessun
omogeneo gruppo di statuti (cfr. in edizione dei Mon., col. 187 ; « In
a primis w etc).
Continuando l'esame di questo codice, e' incontriamo in un no-
tevole gruppo di capitoli, da e. 83 a e. 92, dell'anno 1279 ; « hec
M sunt statuta partis ecclesie » leggiamo nel titolo, che manca nel-
l'edizione dei Mon. (col. 197) ; e si accompagnano a tali disposi-
zioni alcuni statuti dello stesso anno dove numerose sono le cor-
rezioni e i capitoli interpolati; i quali dopo la collazione del 1277
aumentarono certamente questa parte di più che il doppio. Infatti,
da e. 93 alla 97, vennero aggiunti gli atti della pace detta di Mon-
tecchiaro fatta tra Mantova, Brescia e Verona nel 1279 (i).
A e. 99 in inchiostro nero e con la lettera iniziale minuscola
(mentre quasi tutti i titoli sono in rosso ed hanno l'iniziale abba-
stanza finamente lavorata) cominciano gli statuti del 1280 (edizione
dei Mon., col. 225) che, bene raggruppati, vanno fino a e. 106; v' ha
quindi un altro gruppo di capitoli preceduti da una intestazione
*1 identica alla precedente, sotto la data 1281 ; tutti forse della me-
desima epoca, eccetto uno, inseritovi più tardi, del 1285. La solita
intestazione generale è ripetuta a e. 108 v., 109 e 109 v. con le tre
diverse date 1278, 1280 e 1282.
L'edizione dei Monumenta è, riguardo a questo terzo libro, ab-
bastanza completa; abbiamo però trovato, oltre tutti i titoli delle
rubriche e dei capitoli, le seguenti lacune :
Ediz. dei Man., col. 144 V indice del libro (cod. n. 4 a e. 55).
„ 166 otto capitoli (a e. 63 nn. XXXVIIII-XLVI).
(i) Vedasi riguardo a questa pace il Valentini, op. cit., p. 11.
20 M. ROBERTI E L. TOVINI
Ediz. dei Mon.^ col. i68 un capitolo (a e. 65 n. LIl).
„ 169 „ „ (a e. 66 n. LUI).
„ 176 undici capitoli (a e. 70 n. LXXVIII-LXXXVIII).
„ 190 un capitolo (a e. 79 n. CLXXI).
„ 191 „ „ (a e. 80 n. CLXXVI).
„ 193 „ „ (a e. 81 n. CLXXXII).
„ 235 cinque capitoli (a e. 105 nn. CCCXIV-
CCCXVIII).
Il libro IV, che, secondo V intenzione degli statutari, doveva
contenere le riforme del 1282, va da e. 112 a e. 135. Difatti a e. 112
si legge il seguente proemio, scritto in rosso, e che manca nel-
l'edizione dei Monumenta : « In Christi nomine amen. Ista sunt or-
« dinamenta seu statuta facta per nobilem militem dominum loran-
« dinum de Canossa honorabilem potestatem comunis Brixie exa-
« minata et probata per dominum capitaneum dominos ancianos et
« sex sapientes prò quolibet quarterio servata solemnitate statuto-
« rum et post modum emologata firma et aprobata per consilium ge-
« neralem comunis Brixie. Currentibus annis domini Millesimo. CC.
« LXXXIJ. Indictione X mense madii die XV ». Questi statuti però
occupano soltanto dodici facciate, poiché a e. 114 cominciano altri
statuti con date diverse. Qui appariscono le gravissime lacune del-
l'edizione dei Monumenta, nella quale mancano, nella col. 248 là
dove sta scritto: « mezza pagina in bianco » i capitoli da e. 114
a e. 144 del codice n. 4!
Dalla e. 119 alla 132 gli statuti si susseguono in ordine cro-
nologico; i primi (ce. 118-119) sono del 1283, redatti « per correc-
« tores et statutarios ad hoc electos voluntate consilii generalis »,
essendo ancora podestà Rolandino di Canossa; vi ha quindi una
« reformatio » di Garsedone de' Lovisini del 1284 (3- e. 119 r.) ;
uno statuto del 1285, preceduto dalla solita intestazione (a e. 120 v.),
ed un altro breve statuto del 1286 (a e. 122 v.). Segue un « con-
« silium » del 1287 (a e. 123 v.) ed altre disposizioni delio stesso
anno precedute dalla solita intestazione coi nomi degli statutari.
A e. 129 si leggono |importanti statuti contro i fuorusciti di
Valcamonica del 1288, che sarebbero ancora inediti, se il beneme-
rito Valentini non ne avesse curata nel Nuovo Archivio Veneto la
pubblicazione (i). Seguono quindi altri statuti del 1290 (fra i quali
(i) Cfr. op. cit., p. II ; ibid., XV, par. II, p. 370.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 21
uno a e. 132 V., molto rilevante, che vieta le « vindicte sanguinis »,
ed infine un'ordinanza senza data.
Le lacune in questo libro sono le seguenti :
Ediz. dei Mon., col. 246 T intestazione (cod. n. 4 a e. 112).
„ 248 cento quarantuno capitoli (a ce. 114-136
capp. VIIII-CL).
Il libro V comincia a e. 136 e finisce a e. 140 ; e contiene gli
statuti della gabella, corretti nel 1283. Sono ventitré capitoli molto
importanti, alcuni recano il titolo, altri ne mancano; in un gruppo
completo raggiungono la e. 140, dopo la quale vi sono quattro
carte in bianco, le quali aspettavano forse altre disposizioni nuove,
o che dovevano annullare o correggere le precedenti.
Questo libro manca nell'edizione dei Monumenta, ed è intera-
mente inedito.
Il libro VI occupa le ce. 144-158, e sono 115 paragrafi conte-
nenti in parte una nuova riforma agli statuti fatta da un consiglio
generale l'anno 1293 come si apprende infatti dalla seguente in-
testazione (la cui lettera iniziale è disegnata con larghi fregi) che
manca nell'edizione dei Monumenta: « Hec sunt statuta et ordina-
« menta comunis Brixie et rationum comunis Brixie emendata et
M correcta per corectores et statutarios ad hoc electos secundum
" reformacionem consilii generalis comunis Brixie M.CCLXXXXIII.
« Indictione sexta. Nomina quorum dictorum statutariorum sunt hec »,
Segue quindi un breve spazio in bianco, destinato evidentemente
a contenere i nomi degli statutari; ed il capitolo primo che si può
vedere in col. 248 dei Mon.: « Item consules terrarum etc. »».
Si noti come le correzioni e le aggiunte, man mano che ci av-
viciniamo alla fine del codice, siano sempre più recenti, ciò che
dimostra che esse vennero unite senza alcun ordine alla redazione
perduta del 1277. ^i ^^^^ ancora come, secondo forse il concetto degli
statutari del 1298, il libro VI doveva raccogliere le correzioni del
1293, nientre invece vi furono poi aggiunti altri statuti, come ora ve-
dremo, di diversa data e che trattano argomenti disparati ; ciò che
dimostra come gli statutari non fossero guidati da un criterio giu-
ridico o cronologico, ma da un concetto del tutto materiale.
Le aggiunte e le correzioni fatte nel 1293 vanno da e. 144 a
<^' 155 V. ; e corrispondono nell'edizione dei Mon. dalla coK 248 alla
22 M. ROBERTI E L. TOVINI
col. 268. Segue quindi nel codice completo una « reformatio »
riguardo agli atti di alienazione stipulati durante la signoria di
Ezzelino da Romano (i), con la seguente intestazione, scritta in
rosso e che manca nell'edizione dei Mon.: « Hec est quedam re-
« formatio facta in Consilio generali comunis Brixie Rubrica (?)
« de vendicionibus factis de bonis amicorum eciam (?) sub extima-
« toribus tempore Eccelini de Romano usque ad tempus cassandis
« et restituendis descripta secundum formam statuti contra ea lo-
« quentis precedenti carta huius quaterni »; che è appunto il capi-
tolo XCVIII del foglio precedente; accenno che depone a favore della
autenticità del codice stesso, che doveva essere certamente il co-
dice ufficiale del comune, in confronto del codice n. 3. Segue
quindi da e. 158 in poi lo statuto « de monetis » del 1257.
Tutto questo libro si può vedere nell'edizione dei Mon. da
col. 248 (« Item consules, etc. ») a col. 272 ; salvo i titoli dei ca-
pitoli, e una lacuna di quattro capitoli a col. 272 corr. a e. 158 del
codice n. 4 (nn. CXII-CXV).
Dalla metà del sec. XIII veniamo alla fine del sec. XII colle
Consuetudini bresciane « a longo tempore obtente w, che il Lat-
tes ebbe per il primo a pubblicare in una completa ed accurata
edizione nel suo prelodato studio intorno al diritto consuetudinario
delle città lombarde. Esse occupano buona parte del libro VII,
composto di 168 paragrafi, compresi dal foglio 159 al foglio 180;
e dal contesto si può a ragione argomentare eh' esse finiscano col
capitolo XLVII ; seguono altri capitoli di vario argomento del 1252,
del 1277 e del 1295; ed infine questa prima parte del libro VII
sembra terminare (a e. 172) con la formula: « Lecta et publicata
« fuerunt suprascripta statuta, etc. », che non si comprende a che
cosa si riferisca precisamente.
Il disordine cronologico, in questa parte, è aumentato altresì
da uno statuto (n. LXXV a e. 65) (2), il quale porta in nitida scrit-
tura, nella seconda parte, la data : « Millesimo. XX. VIIIJ ». Se
questa data fosse vera, il comune di Brescia potrebbe certo van-
tare il più antico capitolo statutario che esista. Essa però do-
veva suscitare forti dubbi nei cultori del diritto e della storia;
(i) Per la storia di queste riforme cfr. Valentini, op. cit., p. 9.
(2) Venne pubblicato dal Valentini, op. cit., p. 8, in nota.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 23
poiché se le ultime ricerche hanno affermato che ben lontane si
devono ricercare le fonti delle origini dei nostri comuni, bisogna
tuttavia sempre accettare con diffidenza le notizie di leggi promul-
gate dai comuni stessi almeno sino alla fine del XII secolo.
L'Odorici, il Wustenfeld, il Rosa ed il Valentini avvertirono
tale anacronismo, e cercarono di ritornare la data alla sua vera
lezione. Il primo, che da principio col Rosa (i) aveva ritenuto
essere questo il più antico statuto bresciano (2), più tardi ammise,
sembra per consiglio del Wustenfeld, che si trattava di un errore
dell'amanuense, « cui restarono forse nella penna i due CC corri-
n spondenti a due secoli dimenticati ». Invece il Valentini lasciò
la cosa sub iudice ; e poiché questo statuto medesimo é ripetuto
nella redazione del 1313 alla lettera, colla diff"erenza che invece di
« salvo quod in MXXVIIIJ » sta scritto « salvo quod in MCCXXVIIIJ »
non seppe a quale fra i due amanuensi addossare l'errore (3).
Certo non si può ammettere la data 1029, sia perché la frase
i< feudum antiquum vel paternum » trasporta • il lettore in pieno se-
colo XII; sia perché l'essere stato trascritto nel codice del 1313
con la data 1229 dimostra che gli statutari avevano notato questo
anacronismo. Ma neppure quest'ultima data ci sembra giusta, come
vorrebbe 1' Odorici. Infatti nello stesso capitolo vediamo che esso
è richiamato da uno statuto del 1227, come risulta chiaramente
dalle parole: « in millesimo CCXXVII de feudis statutum et or-
ii dinatum est etc. — salvo quod in millesimo XXVIIIJ, etc. ».
Ci sembra quindi fuor di dubbio che l'amanuense del codice
del 1313 errò nell'assegnare a quel capitolo la data del 1229; come
non si può accettare che esso sia stato redatto nel 1029. Invece
a noi pare più probabile, volendo pure ammettere un errore del-
l'amanuense, che questi abbia ommesso un solo C e che lo statuto
sia quindi del 1129 (4). A questa data non si oppone la frase
(i) Rosa, Stai, di Brescia cit., p. 61. Egli afferma, basandosi appunto sopra
questo statuto, che Brescia fino da quel tempo, e prima ancora della costituzione
dei feudi di Corrado II del 1037, aveva già assunto il diritto di surrogarsi agli
imperatori in alcune leggi feudali.
(2) Odorici, Stor. bresc, VII p. 194 e Cod. dipi., V, p. 48.
(3) Valentini, op. cit., p. 9, A p, 17 mostra seguire l'opinione del Rosa,
ritenendo autentica la data del cod. n. 4.
(4) Si noti che la serie dei consoli bresciani, storicamente documentata, prin-
cipia nel 112 1.
24 M. ROBERTI E L. TOVINI
u feudum antiquum et paternum » anzi ne riceve conferma ; ri-
correndo non solo la medesima frase, ma buona parte del concetto-
di tutto il capitolo in parola nelle Consuetudines feudorum (II, 45-46),.
certamente anteriori a quell'anno
Chiusa questa breve digressione , seguitando ad esaminare
questo libro quasi interamente inedito incontriamo alcune provvi-
sioni (a e. 175) proposte al consiglio generale, dopo un accordo tra
il vescovo ed il comune, in materia di decime (i). A e. 178 vi ha
una « reformatio tempore potestarie domini Grasendini de Love-
u sinis w del 1284. Più sotto si leggono altri statuti del 1393 ed
una serie di « ordinamenta » (a e. 199), dei quali uno solo porta,
la data del 1278.
Eccetto alcuni capitoli di diritto consuetudinario che si leggono^
nell'edizione dei Mon. (coli. 272-74) tutto questo libro, di ben cento-
sessant'otto capitoli, è inedito.
A questo punto nel codice mancano tre fogli, che erano pro-
babilmente bianchi, come quelli in fine del libro V e che furono
tagUati per servire ad altro scopo ; ma la numerazione delle pa-
gine salta dal 180 al 182, tralasciando non sappiamo il perchè una
sola unità. Da e. 182 fino alla 303 il codice contiene il libro Vili
con 125 paragrafi, risguardanti le correzioni e le riforme fatte agli
« Statuta clausorum » nel 1293, secondo una deliberazione del
consiglio generale, come infatti si legge nella intestazione, scritta,.
come il solito, in rosso, e con la lettera iniziale finamente lavorata :
« Hec sunt statuta clausorum statutorum et ordinamentorum corecta
M et emendata per statutarios emendatores electos secundum refor-
" mationem consilii generalis comunis Brixie. Die D. Mil-
« lesimo ce. nognagessimo (sic) tercio. Indictione sexta. Nomina
M quorum statutorum et emendatorum sunt hec »>. Segue quindi
uno spazio in bianco che doveva certo contenere i nomi degli sta-
tutari ; quindi comincia il nuovo libro '"con un « item », ciò che
dimostra (se pure ve n'ha ancora bisogno) il disordine che esiste,
come in tutto il codice, anche in quest' ultimo libro, nel quale
(a e. 183) troviamo, come abbiamo più sopra accennato, un resto
della divisione del precedente codice statutario del 1277.
(i) LMm portanza di questo accordo venne dimostrata benissimo dal Lattes^
Dir. cons., p. 525.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 25
Questo intero libro manca nell'edizione dei Mon., come pure
mancano i due documenti, inseriti nel codice n. 4 per ordine del
comune, l'uno del 1295, riguardo la custodia delle SS. Croci ; ed
il secondo del 1297, ^^ proibisce alle peccatrici di abitare in certo
luogo della città.
Il disordine, sia cronologico sia giuridico, delle disposizioni
contenute in questo codice n. 4 (che è il più completo e il più
antico codice statutario bresciano) dimostra chiaramente quanto
abbiamo detto più sopra riguardo all'autore e alla data di questa
raccolta. Ma ci dimostra altresì un'altra cosa : che cioè il comune
di Brescia, durante il sec. XIII, non affidò, come usarono molti altri
comuni, ad una speciale commissione di giuristi e di persone com-
petenti l'incarico di rivedere e riordinare tutti gli statuti, come
fece nel 13 13, così da riuscire ad avere un codice, non certo per-
fetto, ma che almeno ha una parvenza, per così dire, di ordine giu-
ridico. Il comune si limitò a raccolte parziali, forse fino dal ti8o, le
quali però andarono perdute o distrutte, quando una nuova redazione
rendeva inutili le precedenti. Ed al nostro codice servì appunto di
base l'ultima di tali raccolte, quella cioè del 1277, nella quale ven-
nero interpolati qua e là, od aggiunti in fine, statuti vari per tempo
e per argomento, e correzioni e addizioni diverse.
§ V. L' Odorici pubblicando nei Monumenta gli statuti bresciani
scriveva nella prefazione : « Or eccovi gli statuti del secolo XIII.
« Né qui soltanto vi si danno per filo e per segno nella loro in-
« tegrità; ma vi si aggiungono gli affatto inediti e di somma im-
« portanza del 1313, gli uni e gli altri corredati di nuove testimo-
« nianze ». E più sotto: « Ritornando agli statuti del secolo XIII
« due vetusti codici ne vanta l'Archivio soprascritto. L'uno con
« la data certa del 1277 (i), l'altro pur di quel secolo racchiudente,
« poco su, poco giù, le eguali deliberazioni con rettifiche e richiami
« di alcune del sec. XII. Noi verremo significando nelle appen-
« dici le più caratteristiche diversità d'ambo i volumi » (2),
L'Odorici quindi conosceva i due esemplari della Queriniana,
segnati n. 3 e n. 4, che abbiamo sopra descritti ; il secondo coni-
(i) Abbiamo già veduto come V Odorici errasse affermando vera tale data.
(2) M. H. P., XVI, col [1584] 98.
26 M. ROBERTI E L. TOVINI
pleto, incompleto il primo, cioè mancante di tutti quei capitoli, cui
abbiamo già accennato. Anzi molti anni prima, nelle sue Storie
bresciane riferendo per sommi capi il contenuto dell'esemplare com-
pleto, se ne augurava prossima la pubblicazione (i). L'errore quindi
si deve, a nostro avviso, attribuire soltanto al Lodrini e al Da Ponte,
i quali pubblicarono il codice n. 3 per incarico avutone dall' Odo-
rici, ritenendo quest'ultimo, sebbene incompleto, il più antico codice
bresciano (2).
Né l'errore è di poco momento, poiché son ben venticinque le
lacune dell'esemplare incompleto, che l'Odorici (od altri, usando il
suo nome) trascrisse e pubblicò nei Monumenta. Queste venticinque
lacune formano un complesso di circa 664 capitoli inediti, quasi
la metà degli statuti bresciani del sec. XIII. Per mostrare quanto
sarebbe utile la pubblicazione di questa parte ancor inedita, bre-
vemente vogliamo qui accennare ai gruppi maggiori di statuti inediti
e alla loro importanza, sia per la storia del comune bresciano, sia
delle diverse istituzioni giuridiche ch'ebbero a fiorire in quell'epoca.
Anzitutto è notevole il gruppo davvero organico del 1282, che
contiene il bando contro i « malesardi » il quale ci mostra, con l'aiuto
di altri statuti pure inediti, l'attività legislativa delle due maggiori
associazioni cittadine e la procedura usata dal comune per pubbli-
care le nuove leggi o correggere le antiche. Come tutti i comuni
italiani anche quello di Brescia sorge e vive fra lo strepito delle
armi cittadine, dei partiti sempre fra loro in discordia. Fino dagli
ultimi anni del sec. XII popolani e patrizi si erano stretti m due
società, i nobili in quella dei militi, i popolani, capitanati però da
qualche nobile, le cui blandizie profuse adescavano i tumultuanti,
in quella di S. Faustino e Giovita ; ciascuna avendo consoli propri
di fronte ai consoli del comune, e così bene organizzate da poter
(i) Odorici, Stor. bresc, VI, pp. 201, 208, 217, 224, 234, ecc.; VII, p. 104
sgg. ; VIII, p. 9 sgg. Il più curioso, come notava il Lattes, si è che 1' Odorici
trasse dal codice completo i testi citati nella prefazione dei M. H. P., (pref. [1584]
PP- 29, 39, 40) ; testi che venivano poi stampati traendoli dal secondo ms. in-
completo, ed ai quali le citazioni dell' Odorici non corrispondono. Cosi gli sta-
tuti sulle acque ivi citati mancano nel ms, incompleto, mentre si leggono nel
codice originale. Cfr. Odorici, op, cit., VIII, p. 49.
(2) Non si comprenderebbero altrimenti le note in Mon. coli. [1584], 139,
142, tee.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 27
contrarre paci ed alleanze, muovere guerra e scendere in campo
a favore o contro città intere (i). Sconfitte, annientate quasi, queste
fazioni risorgevano più vive, più feroci di prima.
L' Odorici, dopo avere ricordata la vittoria di Rudiano, par-
lando degli ordinamenti cittadini, nota il sorgere di queste due so-
cietà, dei militi (2) e della concordia, detta quest'ultima anche di
S. Faustino (3), aventi rettori e podestà propri, fratellanze batta-
gliere e talvolta anche mercenarie, alternativamente amiche e ne-
miche del comune. Ma nessuno ebbe ad accennare espressamente
all'azione legislativa esercitata da queste due società, ch'erano vere
fonti di diritto, fonti minori accanto alla fonte maggiore, l'arengo.
Neil' inedito del nostro codice vi sono molti accenni preziosi in-
torno a tale opera legislativa delle due società; e poiché le de-
liberazioni talvolta venivano inserite nel volume degli statuti, unen-
dovi i verbaU della radunanza, questi verbali mostrano con evi-
denza sia la funzione dell'arengo e dei consigli minori, sia quella
delle due associazioni, che tenevano divisa la città intera.
In via generale l' iniziativa degli statuti apparteneva diretta
mente al podestà, al capitano del popolo, al consigHo minore o ai
singoli consiglieri. Le proposte (« provisiones et consilium »>) do
vevano essere esaminate ed approvate dal capitano del popolo,
dagli anziani e dai sapienti scelti da ciascun quartiere. Vidimate
le firme nei modi di rito, le deliberazioni venivano presentate al
(i) Odorici, Stor. bresc, V, p. 246 sgg. ; pp. 260, 276, ecc. Nessun ac-
cenno vi ha riguardo a tale argomento negli altri due lavori dell'Odorici stesso:
Dello spirito di associazione in alcune città lombarde (Arch. stor. Hai., Nuova serie,
to. XI) e La battaglia di Rudiano (ibid., to. III).
(2) Odorici, Stor. bresc, VI, doc. 214, p. 109 (A. 1200). L'organizzazione
del partito nobiliare ia queste " Societates militum „, che esistevano già sulla
fine del sec. XII in molte città, a Pisa, a Pistoia, a Parma, a Treviso, non venne
mai studiata completamente. Eccetto il Gaudenzi, che per la società delle armi
di Bologna pubblicò una monografia nel Bull. deWIstit. stor. ital, n. 8, 1889, e i
lavori del Salvemini e del Tabarrini, gli scrittori di storia locale accennano ad
esse molto brevemente.
(3) Ai santi Faustino e Giovita (s. Afra) era dedicato nel sec. XUI un tempio
in Brescia (Odorici, op. cit., V, p. 507). Il popolo (" pedites „ di fronte ai
« milites »), chiamava anche a Lucca ed in molte altri luoghi la propria società
« della concordia „ (cfr. Tomasi, Stor. di Lucca, in Arch. stor. itah, X, p. 60 sgg. ;
XIV, p. 28).
28 M. ROBERTI E L. TOVINI
consiglio generale, il quale però non discuteva le proposte, ma de-
legava a ciò alcune persone (« emendatores » o « statutarii ») scelte
nei vari quartieri in tutti i ceti della cittadinanza. Fra gli statuti
inediti ve ne sono alcuni che regolano il modo di votare nel con-
siglio generale (i), e nel codice stesso si trovano pagine bellissime
ove sono descritta alcune sedute e riassunte le arringhe consigliari
e le finali deliberazioni. Queste notizie completano quella parte
tanto frammentaria (così organica invece in altri statuti) che si ri-
ferisce a tale argomento. Così, ad esempio, vediamo che gli ora-
tori avevano una grande libertà di parola, per quanto ogni licenza
fosse frenata con norme molto severe.
Le deliberazioni, destinate ad avere vigore di legge, dovevano
essere lette, dopo la votazione, alla presenza dei giudici e dei notai
e di alcuni cittadini che fungevano da testimoni ; i quali tutti si
sottoscrivevano nell'atto insieme allo « scriba » ed al « dictator »
Esse si distinguevano con nomi diversi : « ordinamenta » e « prò
u visiones » si dicevano le deliberazioni d' indole amministrativa
ed interna, e venivano per solito pubblicate in nome del podestà,
dal rettore o vicario, e dal capitano del popolo. Gli statuti pro-
priamente detti, le u reformationes », le « additiones » e le « cor-
u rectiones » si pubblicavano in nome dei « correctores » o « sta-
« tutarii », i quali rappresentavano l' intero comune. Queste deli-
berazioni, molto più importanti delle prime, erano scritte in qua-
derni distinti, che di quando in quando s' inserivano nelle raccolte
ufficiali degli statuti del comune. Secondo queste ultime dovevano
i pubblici . ufficiali amministrare la giustizia e dovevano, assumendo
il loro ufficio, giurare di osservarle, come appare evidente da molte
frasi contenute nella parte inedita del nostro codice.
Ma accanto a questa fonte maggiore di diritto, v'erano altre
due fonti minori; cioè, come abbiamo più sopra accennato, la so-
cietà dei militi e quella del popolo, le quali dettavano leggi, se-
condo che nelle lotte interne l'una o l'altra riusciva vincitrice.
Il documento, in gran parte inedito del 1282, e il verbale di
un'altra seduta, pure inedito, del 1280 (2), completa le fuggevoli
(i) Cod. n. 4, e. 65, capp. LII e LUI (lac. in Mon., coli. 168-169), ecc.
(2) Ibid., e. 119 sgg., capp. XLVII e LXXVI (lac. in col. 248 :dell'edi-
zione dei Moti.).
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 2^
notizie date dall' Odorici, dimostrando l'alto prestigio che aveva la
società dei mille (nuova espressione della « societas militum ») nel
governo del comune ; mentre altri statuti illustrano l' invadenza,
anche nel campo legislativo, del partito popolare, fortificato certa-
mente fin dall'origine dalla società di S. Faustino, contro la quale
così spesso si rivolgevano le ire degli avversari (i). Invero la
u reformatio » contro i malesardi del 1282, non giustamente forse
interpretata dal Valentini, mostra come da molto tempo esisteva
potente in Brescia la società dei mille. Era dessa composta di
mille persone, che eleggevano un consiglio di cento membri (« con-
« silium centum »), a capo del quale stava l'abbate giudice, circon-
dato da un determinato numero di anziani. Questo consiglio aveva
il diritto di proporre nuove leggi al podestà ed a tale scopo esso
eleggeva per ogni quartiere della città due sapienti o « iurisperiti »,
ai quali l'abbate alla presenza di tutti i consoci, radunati nel pa-
lazzo del comune, affidava l' incarico di preparare il progetto di
legge, il quale veniva poi esaminato dal consiglio dei cento e dopo
di essere stato approvato, era presentato al podestà per la sua
esecuzione. E non già soltanto, come sembrerebbe apparire dal do-
cumento del 1282, in materia di bandi avevano vigore le disposi-
zioni della società dei mille (si confronti la società dei crociati a
Parma), ma altresì in moltissimi altri casi le deliberazioni di questa
società, debitamente approvate, avevano forza di legge.
Da alcune disposizioni inedite dello statuto completo vediamo
ancora come la società dei mille fosse talvolta invitata (« rogata »)
dal podestà e dal capitano del popolo a studiare e votare speciali
provvedimenti legislativi. Così nel 1282 il podestà, gli anziani del
comune ed il capitano del popolo invocano dalla società dei mille
una decisione, che valga ad ottenere dal massaro della gabella del
sale e del ferro una somma di denaro necessaria per un'opera di
pubblica utilità (2). La società dei mille, aderendo all'invito, emette il
(i) Cod. n. 4, e. 35, cap. LXXXXIIIJ (lac. in col. 133 dei Mon.): Il
podestà giura di sciogliere tutte le " conspirationes „, le " coniurationes, sacra-
" menta, conventicule „, e tutte le " promissiones per manum et fidem vel alio
^' modo factas occasione societatis illius qui dicebatur esse Faustini et Jovite „.
(2) Documento inedito del 1292 in principio del cod. n. 4, cap. XVI : " cum
^' per dom. potestatem capitaneum et antianos partis et populi rogati sint antiani
*' mille et eorum consiliarii — super inveniendo modum et viam accipicndi CL.
" libr. imp. de gabella salis vel ferri, etc. „.
30 M. ROBERTI E L. TOVINI
proprio parere ; e viene deciso di dare ad esso pieno valore « et non
« obstante aliquibus statutis comunis vel populi vel consilii centum
« [societatis mille] ». Ed era perfino divenuto quasi obbligatorio l'uso
di non pubblicare gli statuti nuovi approvati dal podestà, dagli an-
ziani del comune e dal capitano del popolo, senza che altresì la
società dei mille avesse dato parere favorevole (i). I suoi statuti
speciali si inserivano nel codice statutario del comune (2), e un
esemplare di questo doveva essere consegnato all'abbate della so-
cietà stessa. Con ciò si spiega la disposizione che obbliga il vi-
cario o podestà di Brescia ed il capitano del popolo ad eseguire
sempre quanto sia loro ordinato dagli anziani della u societas
u mille peditum » (3).
Accennammo più sopra alla società dei crociati di Parma, sorta
colà per consiglio dell'Angioino nel 1265. Ci sembra non doversi
trascurare la somiglianza che corre fra di essa e la società dei
mille di Brescia. Ambedue appariscono costituite nella medesima
forma, cogli stessi vincoli, i medesimi doveri; questa era retta da
un capitano e dai primiceri, quella di Brescia dall'abbate e dagli
anziani. Ambedue esercitano la stessa influenza nel governo del
comune; a Brescia, come a Parma, le loro decisioni son leggi per
la città intera. I crociati si radunavano, come i membri della so-
cietà dei mille, nel palazzo comunale ed avevano il diritto di esa-
minare le proposte presentate al consiglio prima che avessero forza
di legge. Se nella parte inedita del codice n. 4 abbiamo veduto gruppi
interi di deliberazioni « ordinate et facte per sapientes ad hoc elec-
« tos secundum reformationem consilii centum societatis mille ",
anche a Parma « quidquid capitaneus, anciani, primiceri omnes in
« concordia, cum voluntate credencie populi et societatis dixerint
(i) Cod. n. 4 a e. 37, cap. LXIX (lac. a col. 133 nell' ediz. dei Moti.):
" vicarius et rector et capitaneus populi — teneantur et debeant — demandare
" quidquid antiani partis et societatis mille peditum sibi dixerunt de voluntate
" consilii generalis, etc. „ (A. 1277).
(2) Si leggono infatti nel cod. n. 4, parecchi interi verbali di sedute della
società dei mille e le disposizioni votate.
(5) Per conoscere veramente l'importanza della società dei mille, che non
ci sembra sia stata presa in grande considerazione dagli storici bresciani, baste-
rebbero i tre gruppi di statuti che si leggono a e. 114 del ms. n. 4 (lac. a col. 248
nell'ediz. dei Mon.) del 1280, cap. XLVII sgg. ; ibid., cap. LXXVI sgg. e cap. CV
sgg. (A. T287).
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 3I
u seu denunciaverint potestati seu rectori Parme, ipse rector seu
u potestas teneatur audire diligenter et executioni mandare »> (i).
Cosicché tanto a Brescia, come a Parma le due società sono, sulla
fine del secolo XIII, se non l'unica, certo una delle maggiori fonti
del diritto statutario.
Ma di fronte alla società dei mille anche a Brescia si armarono
le fazioni popolari, ed organizzate strettamente costituirono un forte
partito, a capo del quale stava, suU' esempio della « societas mi-
« litum w, un capo chiamato abbate o capitano del popolo, che era
assistito da un ristretto consiglio di anziani e da un consiglio più
largo di cento persone. Anche questa associazione di elementi po-
polari, aveva l'iniziativa delle leggi, ed aveva pure diritto di tenere
presso di sé una copia degli statuti municipali. Era simile a quella
Unione delle Arti che, sulla fine del sec. XIII, era diventata a
Padova ormai padrona del comune (2). Nelle raccolte statutarie bre-
sciane più antiche si possono quindi facilmente distinguere gli sta-
tuti del comune da quelli del popolo e della società dei mille; più
numerosi questi o quelli, secondo che l'un partito o l'altro era, nelle
continue lotte, riuscito vittorioso. Che se verso il 1280 (come si vede
dalla decisione inedita del codice n. 4) la società dei mille spiega
una grande attività legislativa e mostra una grande potenza ; invece
nel 1303 gli statuti e le deliberazioni del partito del popolo pre-
valgono sopra gli stessi statuti del comune (3).
Queste due società continuarono a lungo, come in tutti i co-
muni italiani a contrastarsi il potere, finché più tardi, deposte forse
le armi, unirono le loro energie per il bene della patria comune.
Il documento del 1282 insieme con altri statuti inediti del co-
dice n. 4 ci offre, come abbiamo veduto, messe larga di notizie
riguardo alla storia delle associazioni bresciane; ma lo stesso do-
cumento, confrontato con altri statuti pure inediti, completa in molte
parti la storia delle lotte fra le varie fazioni, alle quali con la non co-
(i) M. H. P. ad prov. partn. et plac. pert., voi. II, p. 32 ; cfr. N. Ta-
MASSIA, La cronaca di Salimbene, in Riv. di stor. e fil. del dir., voi. II, fase. II,
P- 55 sgg.
(2) Cfr. i documenti pubblicati nel lavoro intorno alle corporazioni artigiane
di Padova (in Mem. del R. Istit. Feti., 1902), p. 69.
(3) Odorici, Stor hresc, voi. VIII, doc, p. 209 (A. 1305).
32 M. ROBERTI E L. TOVINI
mune sua erudizione accennava l'Odorici nella prefazione dei Monu-
menta, ricordando però molti statuti del codice n. 4, che rimasero
invece inediti (i). Come a Padova si chiamavano « maleablati »,(2),
così a Brescia si chiamavano « malesardi » i banditi dal comune
per ragioni politiche ; ma non crediamo però che si volesse con
tale nome indicare un vero e proprio partito politico, men che
meno poi una famiglia; ma cacciati alcuni cittadini, venivano essi
chiamati malesardi dai vincitori ; i quali, vinti più tardi, diventa-
vano uscendo dalle patrie mura, alla lor volta malesardi e banditi.
E le medesime armi si adoperavano dai fratelli contro i fratelli ;
poiché il bando importava, almeno fino alla metà del sec. XIII,
come ci avvertono alcuni statuti inediti (3), la distruzione delle case
e dei poderi. Ed i « nefarii homines w contro i quali vediamo in
alcuni statuti fulminate le pene più severe, pochi anni appresso
inserivano accanto agli statuti, scritti contro di loro, altri ordina-
menti « ad purgandam civitatem et districtum Brixie iniquis et
u dampnosis et malitiosis hominibus », minacciando le stesse pene
a coloro che si macchiavano dei delitti più gravi e agli avversari
cacciati dalla patria per ragioni politiche (4).
Importante pure è il gruppo di statuti intorno alle fiere, del
1253-54, redatti cioè in quel periodo nel quale con la morte di
Federico di Svevia, il comune, libero, ormai, accrebbe con molte
leggi, segno di rinnovata alacrità, il codice statutario (5). Molti
capitoli di diritto pubblico ed amministrativo si leggono pure a
<^c. 63, 70 e 105 del codice completo. Essi riguardano l' ufficio
del massaro del comune, dei consoli di giustizia, dei consoli che
giudicavano le cause in sede di appello, il salario e gli obblighi
(i) M. H. P., XVI, par. II, col. 1584 [35, 40 e 41] ; Stor. hresc, Vili, p. 59.
(2) Gloria, Siat. di Padova, n. io, 418 e 419, 461, 640. Sembra però che
non sia del tutto rispondente alla verità la spiegazione che il Gloria dà alla pa-
rola " maleablati », ibid., p. io ; che troviamo invece in vari documenti vene-
ziani con diverso significato.
(3) Cod. n. 4, e. 35, cap. L (lac. a 133 dei Moti.) " de domibus non
*' destruendis „. (A. 1254).
(4) Ibid., cap. LII sgg. È una serie quasi organica di statuti emanati nel
1254, nel 1277 e nel 1285 coatro i malesardi ed i banditi, e non solo laici, ma
anche ecclesiastici (cap. LXXXX, lac. a e. 133 dei Mon.).
(5) Cod. n. 4, cap. LXXII sgg., ce. 17 e 19 (lac. a coli. 106 e 107
dei Mon.y
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICX) CODICE, ECC. 33
del podestà, dei preconi che dovevano ad alta voce promulgare
le leggi in certi luoghi della città (i).
La riforma agli statuti ordinata sotto la podestaria di Rolàn-
dino di Canossa nel 1282, e quelle degli anni sùcccessivi, alla cui
importanza accennò pure il Valentini, mancano interamente nella
edizione dei Monumenta (col. 248). Sono statuti molto interessanti
che riguardano la sicurezza della città dai nemici interni ed esterni,
per cui vengono istituite apposite guardie notturne e custodi a
piedi e a cavallo. Parecchi paragrafi minacciano gravi pene ai
ladri ed ai malfattori e ricordano l'obbligo che avevano i villani e i
cittadini di rincorrerli ed arrestarli, ne mancavano le multe per
i pigri e i premi per coloro che coraggiosamente avessero affron-
tato i banditi. La campana serale, secondo queste riforme, doveva
segnare veramente la fine della vita dentro le mura, proibiti i cla-
mori, le taverne chiuse ; e tutti coloro che si indugiavano per le vie,
od uscivano di casa, dovevano portare un lume acceso. Altri capi-
toli riguardano argomenti diversi : il dazio del vino, il lavoro degli
orefici secondo le norme chieste a Venezia, varie opere pubbliche,
fra le quali il restauro della strada di Leno, devastata e rotta,
che doveva venire rifatta a spese di parecchi comuni. Varie sono
le riforme di diritto penale; meritano speciale ricordo quelle che
proibivano certi supplizi, come quella terribile di accecare i rei;
quelle che limitavano l'abuso della tortura e molte altre riguardo
alle carceri ed ai carcerati. In quell'epoca le mura venivano mer-
late, ed erano scelti due legali per quartiere i quali dovevano vigi-
lare le mura del castello, le cui chiavi solevano affidarsi a persone
sicure. Nella chiesa di S. Stefano di Castello non essendovi « a me-
« moria hominum w un sacerdote, si istituiva una curazia, conve-
nientemente dotandola, e ad onor del santo si proibiva alle peccatrici
di abitare nelle stradette che conducevano al castello, ordine che
dovette avere effetto ben limitato, se lo vediamo ripetuto più tardi
nel 1297 (2).
Degli statuti contro i ribelli di Valcamonica parlarono 1' Odorici
ed il Valentini, alle cui opere rimandiamo il lettore (3). Qui ci basti
(i) Lac. a coli. 163, 176 e 235 dei Moti.
(2) Cod. n. 4 a ce. 1 14-129.
(3) Valentini, op. cit,, p. 11 ; Odorici, Stor. Iresc.^ VI, p. 234 sgg.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXIT, Fase. V. 3
43 M. ROBERTI E L. TOVINI
accennare come questo importante documento, dimenticato dalla
maggior parte degli scrittori che si occuparono di quel terribile
episodio, sarebbe ancor inedito, se il Valentini non lo avesse pub-
blicato in appendice alla monografia intorno agli statuti bresciani.
Ancor inedite invece sono le correzioni, di argomento vario, del
1290, fra le quali è molto notevole uno statuto « super homini-
« bus et universitatibus novis habitantibus in terris brixianis », che
riguarda cioè certe « universitates hominorum novorum — , que
« nove universitates nolunt respondere creditoribus antiquis ipsa-
« rum terrarum. Et gaudent et possident possessiones antiquas et
u novas ipsarum terrarum ». Dovevano essere ben numerose queste
« universitates », o consorzi di contadini, i quali prendevano in af-
fitto dei terreni, se uno speciale statuto dovette occuparsi di loro,
ma non si comprende bene la domanda dei creditori, che le « uni-
u versitates nove » avessero da assumere i debiti dei precedenti
coltivatori.
Come abbiamo in altro paragrafo accennato, è interamente
inedito il libro V, che contiene gli statuti della gabella, riformati
nel 1293. È una serie di ventitré capitoli, dove sono esposti i vari
diritti del comune sovra beni concessi a titolo di feudo, di loca-
zione o di temporaneo uso, per i quali si obbliga il giudice del
podestà « qui erit deputatus prò tempore ad exationem averis co-
u munis » a tenere uno speciale elenco. Alcuni capitoli riguardano
le tasse cui erano sottoposti i beni lasciati in eredità a chiese ed
a monasteri, le imposte che colpivano i cittadini, il modo di esi-
gerle, le persone destinate a tale ufficio, i loro diritti e i loro do-
veri. Né mancano alcune disposizioni contro i banditi, i beni dei
quali (capitolo XIII) servivano a pagare i soldati del comune. Di una
qualche importanza sono pure alcuni statuti inediti, in fine del
libro VI, intorno alle monete fuori di corso e che il « campsor »
doveva « tayare incontinenti » (i). Il capitolo CXIV proibisce tutte
le vecchie monete che fino allora liberamente correvano in Brescia,
« nisi ambroxianos, placentinos, veronenses et papienses de XII
« mexanis et alias monetas per comune Brixie concessas ad ex-
« pendendum et quod debeant currere per civitatem et districtum
« Brix. videlicet brixianenses novi grossi et parvi, veniciani grossi et
(i) Cod. n. 4 a e. 158 (capp. CXII-CXV) corr. a lac. in col. 272 dell'edi-
zione dei Mon.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 35
« parvi, veronenses grossi et parvi, mantuani grossi et parvi et
« trentini grossi ad ligam veronensium facti »>.
Delle u Consuetudini bresciane », colle quali si apre il libro VII,
scrisse e largamente il Lattes : accennare ad esse non sarebbe
che ripetere quanto fu scritto. Nello stesso libro che contiene le
consuetudini, si legge 1' « Ordinamentum ingrossatorum w: una lunga
serie di statuti di epoche varie, ma riuniti con un certo ordine.
Vengono in essi fissate le norme « quod anguli dirigantur seu dri-
u centur », concedendo agli ingrossatori il diritto di espropriare
forzatamente fino ad un iugero di terreno, dietro compenso di altro
terreno o di equivalente somma di denaro. I terreni venivano con-
cessi dopo la stima fatta da appositi « extimatores », dei quali si
legge pure inedito nel codice il « sacramentum » (i).
Un altro gruppo omogeneo di statuti fa seguito ai precedenti,
col titolo generale : « Statuta pertinencia ad officium extimatoris
« super facienda cessione honorum ». Sono molto interessanti non
tanto forse per l'argomento, quanto perchè essi rappresentano la
parte più antica del codice, portando tutti, salvo le aggiunte e le
correzioni posteriori che raddoppiarono quasi il numero degli sta-
tuti primitivi, la data 1195 (2).
Più innanzi, nello stesso libro, chiuso in mezzo fra il calmiere
per il pane e le leggi intorno ai fornaciai, v' ha un notevole sta-
tuto, pure inedito, che riguarda il collegio dei giudici bresciani (3).
A capo di questo stavano due anziani che duravano in carica un
anno, nella matricola dovevano essere scritti i nomi di tutti i
membri, né poteva essere accolto nel collegio chi non avesse stu-
diato « per quinquennium ad minus in studio generali legum et
'« postea aprobatus fuerit per collegium » ; norme, come si vede,
simili a quelle che vigevano in molte altre città, dove da tempi
antichissimi fiorirono i collegi dei giudici.
Notevole altresì è la serie organica delle disposizioni riguar-
danti le decime. Gli statuti che si leggono nel nostro codice (4)
(i) Cod. n. 4, e. 163 sgg. (capp. LIII-LXIX).
(2) Ibid., e. 164 (capp. LXX-LXXXII).
(3) Ibid., e. 169 (cap. CXVIII).
(4) Ibid., ce. 175-177 (cap. CXLVII diviso in 16 paragrafi) tralasciate anche
dall' Odorici nel suo Cod. dtp. {Stor. hresc, VII, p. 139).
36 . M. ROBERTI E L. TOVINI
non sono altro che modificazioni apportate all'antico diritto consue-
tudinario; alle decime infatti si riferiscono parecchie « usancie », con-
tenute nelle Consuetudini bresciane (i). Questa materia era oggetto
di continua controversia fra il vescovo ed il comune, sia riguardo
alla competenza dei giudici laici nelle liti, sia riguardo alla forma
ed al contenuto delle consuetudini stesse. Già uno statuto del 1277
obbligava i cittadini laici a non ricorrere ad altri giudici fuorché
a quelli del comune ; « quod nulla persona secularis audeat vel
u presumat modo aliquo conqueri de aliqua persona seculari oc-
« cassione alicuius decime vel iure decimatoris, nisi sub officialibus
u comunis Brix. sub pena et hanno X. lib. quociens quis contra-
ii fecerit w (2). Nel 1281 veniva finalmente formulato un accordo
speciale fra il comune ed il vescovo ; o meglio, come ben nota il
Lattes, da quello veniva imposto a quest'ultimo, avendo infatti il
vescovo dichiarato di voler fare « totum id quod placeret comuni
« brix. ». Parecchi furono i capitoli redatti dai « sapientes iuris »
per togliere ogni attrito « inter ipsum d. episcopum et clerum
u suum et comune Brix. occasione dicti negotii decimarum » ;
capitoli conservatici in questo codice insieme al processo ver-
bale dell' adunanza, in cui la convenzione venne presentata al
consiglio generale. Anzitutto venivano abrogate le mutazioni fatte
negli oneri a carico dei laici, a meno che questi non fossero
assenzienti, fin dal 1250, poiché (come giustamente, ci sembra,
spiega il Lattes) le usanze precedenti a tale anno, sebbene cattive,
erano protette dalla prescrizione trentennale. Venne altresì fissata
la procedura da seguire nelle liti ; esclusi i testimoni ecclesiastici
che fossero parte in causa, senza l'assenso del convenuto, come
pure invalide erano le deposizioni fatte dai coloni intorno a de-
cime gravanti i fondi da essi lavorati. Unico tribunale competente
fu dichiarato il tribunale del comune, né alle sentenze emanate
si poteva opporre l'appello; soltanto era ammessa da parte del
gravato una « supplicatio », entro dieci giorni « a die illati gra-
u vaminis » ai medesimi giudici, perchè avessero a prendere in
esame di nuovo la questione. Queste furono le sole disposizioni
ufficiali intorno alle decime inserite negli statuti bresciani del se-
(i) Lattes, Dir. cons., in append., p. 423, capp. XXXV e XXXVI.
(2) Cod. n. 4, e. 173 (cap. CXXXI) ined.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 37
colo XIII (i), le quali rendevano nulle tutte le « reformationes
u facte contra libertatem ecclesie » e le scomuniche lanciate contro
i consiglieri e l'interdetto, che sembra fosse stato fulminato contro
la ribelle città. E poiché esse rappresentavano certamente il risul-
tato favorevole al comune di una lotta lunga ed aspra, le pene
per i contravventori dovevano essere ben severe ; infatti chi, se-
guendo altre norme avesse con ciò dimostrato di parteggiare
per la chiesa, doveva essere privato della protezione del comune
« tam in persona quam in rebus ». Il nostro codice ci ha conser-
vato altresì il verbale della seduta con la discussione che seguì
dopo la lettura dei nuovi statuti ; notevoli sono le multe proposte
ed approvate contro i giudici (avvocati) che avessero scritto « con-
u silium aliquod contra predictam provisionem », contro i notai che
avessero redatto qualche istrumento, e contro i ministrali che aves-
sero fatta « aliquam ambaxatam contra ipsam provisionem ».
Il libro Vili comprende, come abbiamo sopra accennato, gli
« statuta clausorum » riformati nel 1293 dal consiglio generale e
che mancano completamente nell'edizione dei Monumenta, Ad essi
già accennarono l' Odorici , eh' ebbe a pubblicarli quasi intera-
mente nel suo Codice diplomatico (2}, ed il Valentini ; ne invero
crediamo meritino un lungo discorso. Sono i soliti provvedimenti,
che si leggono in fine di tutti i codici statutari delle nostre città,
sulle opere pubbliche, sulle fonti e sui fiumi e sugli obblighi che
gravavano le vicinie riguardo alle fonti stesse. Parecchi capitoli
riguardano il romano acquedotto di Valgobbia e Monpiano , i
cui avanzi vennero recentemente scoperti ; la conservazione degli
acquedotti di S. Salvatore, del Foro, della Torre d' Ercole e di
altri; alcuni di epoche diverse riguardano i mulini, i ponti e le strade,
mostrandoci la cura che aveva il comune bresciano per tenere in
buono stato le grandi vie di comunicazione con grande vantaggio
per i commerci e le industrie. Altre leggi riguardano gli spaldi
cittadini da Mombello a Portanuova ed altri lavori di pubblica uti-
(i) Andarono perdute le riforme fatte " super decimarum et occasione de-
" cimarum tempore Leonardi de Amatis olim vicarius Brixie „ (A. 1279), ri-
cordate nel nostro codice a e. 177, § XVI.
(2) Odorici, Stor. bresc, Vili, p. 49; M. H. P., prefaz., col. 1584 (39);
VALEhfTiNi, op. cit., p. 51.
38 M. ROBERTI E L. TOVINI
lità, per i quali s' utilizzavano i ruderi delle abbattute case dei
malesardi.
Inedite per ultimo sono le riforme, decretate già nel 1285 e
ripetute nel 1297, intorno alle donne di mala fama, riforme alle
quali ebbe già ad accennare T Odorici (i). Nelle stradette del ca-
stello esse continuavano a tenere pubblico ridotto con grave scan-
dalo, malgrado i severi provvedimenti del 1285. Infatti nel 1297
il prevosto di S. Pietro in Oliveto e i preti di S. Stefano e di
S. Martino presentavano al consiglio una petizione, perchè dalla
via Porta a S. Stefano e per tutto il colle della fortezza e presso
le chiesette attigue venissero cacciate le peccatrici ; e, pigliate le
renitenti e flagellate dinanzi al popolo, fossero espulse fuor delle
mura e del distretto dopo tre giorni dall'eseguita flagellazione. Il
consiglio accettava la proposta e la estendeva anzi a tutte le pec-
catrici della città, inserendola tal quale nel volume degli statuti.
Con questo documento termina la parte ancor inedita degli
statuti bresciani del sec. XIII ; e siamo certi che anche al lettore
non sembrerà fatica del tutto sprecata la sua pubblicazione, inte-
grando in tal modo l'opera, tanto laboriosa ed encomiabile, del-
l' Odorici.
§ VI. Per completare questo breve studio critico intorno ai co-
dici statutari bresciani del sec. XIII, e per rendere meno gravi
agli studiosi le lacune che abbiamo riscontrato nell'edizione dei
Monumenta, crediamo opportuno notare in questo ultimo paragrafo
quei capitoli, che, sebbene manchino nel codice n. 3, vennero in
tutto od in "parte pubbUcati in altre opere; |e quei capitoli com
presi nella nuova redazione del 1313, che si possono trovare
in questo codice , edito pure dall' Odorici nello stesso volume
dei Monumenta, Questo secondo lavoro sarebbe stato però ben
facile se gli statutari del 1313 avessero mantenuto l'ordine an-
tico degli statuti; ma poiché, com' ebbe a notare l'Odorici, v'era
« in quelle pagine un complesso di ordini, di promissiones, di con-
o suetudini, di provvedimenti per lo più raccolti sotto forma del
« solito giuramento del podestà, accumulati alla rinfusa », così gli
statutari, volendo porre un po' di ordine nella raccolta, dovettero
inserire alcuni capitoli in un luogo, altri in altro, dove essi stimarono
(i) Odorici, Stor. hresc, VI, p. 225.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 39
più opportuno. Il lavoro divenne quindi molto più grave, poiché ogni
capitolo inedito si dovette confrontare con le simili disposizioni in
ciascuna delle quattro parti nelle quali è diviso il codice del 1313.
Questa seconda parte del lavoro ci fu però proficua di utili
ammaestramenti. Anzitutto abbiamo facilmente notato che gli sta-
tutari del 13 13 lasciarono da parte un grande numero di disposi-
zioni che avevano ormai col tempo perduta ogni pratica importanza,
e che sopra 489 capitoli inediti (a tanti assommano le lacune del
codice n. 3, fatta eccezione del libro Vili) soltanto 175 furono com-
presi, e con varianti diverse, nella redazione del 1313; mentre 314
capitoli venivano ritenuti ormai privi di valore. Abbiamo altresì
potuto accertare Tepoca precisa nella quale vennero emanati molti
capitoli, ed infine abbiamo potuto avvertire le aggiunte e le inter-
polazioni varie fatte in alcuni capitoli del sec. XIII.
M. Roberti e L. Tovini.
APPENDICE
I. Capitoli già pubblicati in altre opere.
Statuto dei Malesardi (cod. n. 4 in princ.) in parte pubblicato dal-
TOdorici, Stor. bresc.^ VIII, p. 59.
Lac. a col. 106 dei Mon. in parte pubbl. dall'OooRici, ibid., VII, p. no.
„ „ 133 „ „ alcuni capitoli saltuariamente, ibid,, VII,
pp. 124-126 e Vili, p. 12.
„ „ 248 „ „ a piccoli brani e in parte, ibid., Vili, p. 35.
„ „ 248 „ „ (statuti di Valcamonica) Valentin!, Stai, di
Bresc.f Nuovo Arch. Ven,, XVI, p. 99.
„ „ 274 „ „ (De usanciis) Lattes, op. cit., (48 paragrafi).
„ „ 274 „ „ (dal cap. Lll al CLIV) saltuariamente in
Stor. bresc, VII, pp. 133-39.
„ „ 274 „ „ {Statuta clausorunty lib. Vili) quasi intera-
mente pubbl. ibid., Vili, pp. 47-58.
Statuto delle Croci in fine del cod. n. 4 pubbl. dal Valentini, Storie
delle SS. Croci di Brescia , in append.
Statuto delle peccatrici in fine del cod. n. 4 riassunto in Odorici^
op. cit, Vili, p. 58.
II. Collazione dei capitoli inediti del cod. n. 4 col cod. del 1313.
Lac. a col. 106 in ediz. dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 a e. 17. Lib. I, cap. LXXI è riprodotto
nel cod. del 1313 . . Lib. I, § LXI.
40 , M. ROBERTI E L. TOVINI *
Cod. n. 4 a e. 17. Lib. I, cap. LXXVIII .... Lib. I, § LXIV.
cap. LXXVIIII (con una
breve aggiunta) . . „ § LXV.
cap. LXXX „ § LXVI.
cap. LXXXIII . . . . „ § LXII.
cap. LXXXUII . . . . Lib. II, § CCXXXIII.
Lac. a col. loy in ediz. dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 a e. 19. Lib. I, cap. LXXXVIII è ripro-
dotto nel cod. del 1313 Lib. II, § CCXXXVII.
„ cap. LXXXXIII . . . „ §§ CCXLII e
CCLIV-V.
. . „ cap. LXXXXV ... „ § CCLVIII.
Lac. a col. ijj in ediz. dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 a e. 35. Lib. II, cap. XLV è riprodotto
nelcod. del 1313 . . Lib. Il, § XLVIII.
„ cap. XLVIII (con due
brevi aggiunte). . . Lib. I, § CI.
„ cap. XLVIIII (invece
delle parole: " et om-
« « niaeorumbonafient
. " guasta „ si legge:
" deveniat in comu*
ni „ (I). . . . . . „ § CXXIX.
. cap. L . „ § CLII.
„ cap. LI Lib. II, § LXII.
„ cap. LII con aggiunte
le parole : " de ban-
no... libris,, e le altre:
; " Et quod nulla per-
" sona condenna-
« tionis „ (2) . . . „ § LV.
„ cap. LV con aggiunte
le parole: ^* de ban-
/* nitis.... librarum „
e le altre: " additum .
.V " est... seu condem-
' « nationis „ . ... „ : § LVI.
(i) È notevole questa modificazione che sostituisce la confisca alla distru-
zione dei beni dei banditi.
(2) Quest' aggiunta riassume molti capitoli del codice del scc. XIII, che yen^
nero quindi nella nuòva redazione lasciati da parte.
4
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC. 4I
Cod. n. 4 a c. 35. Lib. Il, cap. LVIII Lib.ll, § LVIII.
cap. LVIIII „ § UX.
cap. LXI „ § LXXII.
„ cap. LXIIII invece di
" partis ecclesia „ si
legge: * sancte ma-
" tris ecclesie et com.
" Brix. „ „ § LXXIII.
„ cap. LXXI con le parole:
" applicandos partis...
* de predictis „ . . „ § LUI.
cap. LXXVIIII . . . „ § LXXIV.
cap. LXXXI . . • . . „ § LXXV.
„' cap. LXXXXV ... „ § LXV.
Lac, a col. ij6 in ediz, dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 a e. 45. Lib. II, cap. CXI è riprodotto
nel cod. del 1513 . . Lib. II, § LXXIX.
cap. CXII ..... „ § LXXX.
cap. CXIV ...... „ § LXXXII.
Lac. a coL 166 in ediz. dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 4 e. 63. Lib. III, cap. XL è riprodotto nel
cod. del 1313 ... Lib. II, § CC.
cap. XLII „ § ceni.
cap.,XLIIII „ § CCIV.
„ cap. XLV. ..... „ §CCV.
cap. XLVI „ § CCVI.
Lac. a col. jy6 in ediz. dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 a e. 70. Lib. III, cap. LXXVIII è ripro-
dotto nel cod. del 1 3 1 5 Lib. II, § CCXII.
cap. LXXXIII . . . . „ III, § IV.
cap. LXXXIV .... „ § IV.
Lac. a coi. 190 in ediz. dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 a e. 79, Lib. III^ cap. CLXXI è ripro-
dotto nel cod. del 13 13 Lib. I, § XCII.
Lac. a col. ipj in ediz. dei " Monumenta „.
Cod. n. 4 a e. 81, Lib. III, cap. CLXXXII è ripro-
dotto nel cod. del 1313 Lib. IV, § XXXV.
42
M. ROBERTI E L, TOVINI
Lac, a col. 248 in edìz, dei " Monumenta „.
però
Cod. n. 4 a e. 114, Lib. IV, cap. X è riprodotto
nel cod. del 13 13
„ cap. XI con aggiunte
le parole : " et om
" nia... quandocum
" que „ .
„ cap. XIII . .
cap. XIV . .
„ cap. XVI (non
interamente)
cap. XVII.
cap. XXI .
cap. XXII.
cap. XXIII
cap. XXIV
cap. XXV
cap. XXVI
cap. XXVIII
cap. XXXIX
„ cap. LX . .
„ cap. XLI . .
„ cap. XLIL .
cap. XLVI .
„ cap. XLVIII. In
il concetto è r
dotto in . .
„ cap.LIIIIconagg
le parole : " Item te^
" nor... esset facta „ ;
eie parole : " et si
" militer... ad ter
" mentis ,
„ cap. LX .
„ cap. LXI .
cap. LXXII
cap. LXXIII
cap. LXXXVI. Lo
statuto " de remo
" vendo, etc. „, ivi
richiamato è ripro
dotto in . .
cap. LXXXVIII
cap. LXXXIX .
cap. LXXXXI con ag
parte
prò
unte
Lib. II, § XXXIV.
„ § XXII.
„ § LX.
„ § LXI.
„ § LXIII.
„ § LXIV.
Lib. I, § XLIV.
„ § XLVI.
„ § XLVn.
„ § XLVIIL
„ § XLIX.
» §L.
Lib. II, § CXI.
§ CLXVIIII.
Lib. I, § CLXXVin.
§ CLXXIX.
Lib. II, § CLXXXVIl.
Lib. I, § CLV.
Lib. II, § CCIV.
Lib.
§ XXI.
§ XCVI.
I, § CLI.
§ XCIX.
§c.
Lib. II, § XXXVIII.
Lib. I, § CHI.
« § cv.
ECC. 43
giunte le parole:
" et teneatur pote-
" stas statutum
" non habeat lo-
« cum „ (i) . . . Lib. I, § CUI.
Lib. IV, cap. LXXXXV . . . Lib. II, § XCV (2).
cap. LXXXXVII . . Lib. I, § CLXXXI.
„ cap. C molto affine
nel concetto al . . „ § CLIX.
cap. CHI , § CIX.
cap. CVIII , § ex.
cap. CXXXVIII con
aggiunte le parole ;
" et quod aliquis....
" et facere legale
« ferrum „ . . . Lib. II, § CXXXVIIL
„ cap. CXLVIII con ag-
giunte le parole:
" Et quod comunia...
" poterint vel inve-
"niri,, „ § LXX.
Lib. V, cap. IV „ § CXCVL
cap. VI. ..... „ § CXCVII.
„ cap. VIII ..... Lib. IV, § XVI.
„ cap. IX „ § XVIL
cap. XI ..... Lib. Il, § CXCIL
„ cap. XV con aggiunte
le parole " et quod...
« loquente „...., § CXCIIL
„ cap. XVIII ...... § C.
Lib. VII, cap. XLVIIII (i) è
molto affine a! . . Lib. IV, § LXIX.
cap. LI Lib. Ili, § IV.
cap. LII . . . . . „ § VL
cap. LUI „ § VIL
,, cap. LIV „ § Via.
„ cap. LV . . . . . „ § IX.
„ cap. LVI . . . . . „ § X.
cap. LVII . . . . „ § XI.
(i) Questa aggiunta dimostra come il comune bresciano volesse togliere intera-
mente l'uso di rovinare le case dei ribelli e dei banditi « ad decorem civitatis »,
come dice lo statuto inedito del codice del sec. XIII, " cum dicatur quod ci-
" vitates facte sunt ad similitudinem paradisi „.
(2) La multa esagerata di cento soldi venne però ridotta a venti.
44
M. ROBERTI E L. TOVINI
Lib. VII
, cap. LVIII ....
Lib.III,§ XII.
»
cap. LXV solo in par-
te riprodptto. . .
»
§ XIII.
j,
cap. LXVI ....
w
§XIV.
) '»
cap. LXX è molto af-
1] ^r\
fine ......
w
, § CCLXXV
M
cap. LXXl ....
»
§ XVI.
,,
cap. LXXIV . . .
I)
§ xvir.
W
cap. LXXV ....
w
§ XVIII.
»
cap. LXXVI ....
M
§ XIX.
»
cap. LXXVII . . .
n
§xx.
»
cap. LXXIX ....
n
§ XXI.
n
cap. LXXXII con ag-
giunte le parole:
" additam est, etc „.
»
§ XXII.
»
cap. LXXXIII con ag-
. giunte le parole:
" vel consulibus iu-
« stitiae „ ...
w
§ XXIII.
w
cap. LXXXIV con ag.
giunte le par ol^e:
" et nisi... ine'dit X „
»
§ XXIV.
»
cap. LXXXV salvo
qualche variante .
n
§xxv.
»
cap. LXXXVII . .
»
§ XXVI.
M
cap. LXXXVIII (2) .
»
§ XXVII.
W
cap. LXXXXIII salvo
qualche variante .
)ì
XXVIII.
>;
. cap. LXXXXIV . .
yy
§ XXIX.
>?
cap. LXXXXVI con
aggiunte le parole:
'/ ;
" exquo.... venden-
,111.'^
tium sit „ . ...
1f
§ XXX.
»
cap. LXXXXVn . .
»
§ XXXI.
w
cap. XC Vini con qual-
che variante. . .
»
§ XXXU.
»
cap. C con varianti .
lì
§ XXXIII.
Jf
cap. CI con piccole
varianti ....
ì)
§ XXXIV.
n
cap. CIV . . . . .
ì)
§ XXXV.
(i) Solo venne aggiunto il diritto di appello per le sentenze pronunciate
dagli stimatori, mentre nel codice del sec. XIII esse avevano forza di cosa
giudicata.
(2) Ved. nota precedente.
LA PARTE INEDITA DEL PIÙ ANTICO CODICE, ECC*
45
Lib. VII, cap. CVII . . . . ,
rap. CVIII «ultra XH
" sol. „ è cambiato
in « ultra XVII
« sold. „ e « ultra
«VIIIsold.„in«ul.
Lib. II, § CXVIII.
« tra IX sold. „ (i).
1}
§ CXIX.
cap. CVIIII ....
jf
§ CXX.
cap. ex
»
§ CXXL
cap. CXI
M
§ CXXII.
cap. CXII . . . .
>t
§ CXXIII.
cap. CXIII ....
»
§ CXXV.
cap. CXIV ....
»
§ CXXIV.
cap. CXV ....
»
§ cxxvn.
cap. CXVl . . . .
»
§ CXXVI.
cap. CXVIII ... .
Lib.
Ili, § CCIL
cap. CXVIIII . . .
Lib.
I, § CXVIII.
cap. CXXII con ag-
giunte le parole:
" additum est, etc. „,
e salvo qualche va-
riante
Lib.
Ili, § LIX.
cap. CXXIV molto af-
fine nel concetto al
»
§ XLV.
cap. CXXV ....
Lib. II, § CXXIX.
cap. CXXVII . . .
Lib.
UT, § XLVI.
cap. CXXVllI . . .
w
§ xeni.
cap. CXXVIIII (2) .
»
§ CLXXVIL
cap. CXXX ....
»
§ CXVI.
cap. CXXXI è nel
concetto molto af-
fine al
»
§ CLIX.
cap. CXXXII . . .
n
§ XCIV.
cap, CXXXIII molto
afl&ne al ... .
w
§ XXXIX.
cap. CXXXIV venne
aggiunto il lungo
tratto dopo : " Item
" statuunt „ . . .
w
§ CLXXV.
(i) Queste variazioni dei salari sono un fatto non speciale della città di
Brescia, ma comune a molte altre città italiane, e dipendono oltre che dal mag-
gior valore del denaro, anche dalle mutate condizioni dei lavoratori.
(2) Non sappiamo perchè sia stata cambiata la data del 1276, nell'altra 1273.
Forse fu un errore dell'amanuense.
■
46
M. ROBERTI E L, TOVINI - LA PARTE INEDITA, ECC.
ib, VII
, cap. CXXXV è molto
affine nel concetto
al
Lib.
III, § CLXXXV,
»
cap. CXXXVIII molto
affine al ... .
>;
§LL
»
cap. CXXXIX con ag-
giunte le parole:
" addunt correcto-
" res.... M.CC.LII „.
i>
§ XLIX.
»
cap. CXXXX . . .
»
§ XLV.
»
cap. CXLII . . - .
»
§ XXIV.
»
cap. CXLV . . . .
if
§ CLXXVIII.
»
cap. CXLVIII è affine
al
Lib.
I, § XXII.
w
cap. CL . . . . .
Lib. III, § XCVL
w
cap. CLI è affine nel
concetto al . . .
»
§ cLxvin.
w
cap. CUI
n
§ xcvn.
»
cap. CLIII . . . .
}}
§ XCVIIL
w
cap. CLIV . . , .
»
§ XCIX.
M
cap. CLV . . , .
)t
§c.
.n
cap. CLVI . . . .
w
§CL
»
cap. CLVII . . . .
i;
§ CLXXL
)j
cap. CLIX . . . .
w
§ CLXXI.
w
cap. CLX con qualche
variante . . . .
»
§ cLxxn.
»
cap. CLXIl . . . .
n
§ Lin.
w
cap. CLXIV. . . .
w
§ XXXIX.
w
cap. CLXV . . . .
Lib.
I, § evi.
»
cap. CLXVIl . . .
Lib.
Ili, § cu.
w
cap. CLX VIII è mol-
to affine nel con-
cetto al . . . .
)>
§ XXXIII.
Note e documenti santambrosiani ^*^
SECONDA SERIE.
La « SUPERSTANTIA » DELLA BASILICA.
RIAMATA anche ,iLjàfeoX.,.&Qte||g », la « superstantia »
rappresentò in origine una delegazione del comune, per
raccogliere ed amministrare i fondi destinati alla rifab-
brica della basilica. Di qui la preponderanza dell'ele-
mento laicale mantenutasi per più secoli nell'ufficio del « superstes »
o u superstans » (i) di questa, come di altre basiliche milanesi ; la
ricostruzione delle quali coincide, al pari della rifabbrica di S. Am-
brogio, col risveglio delle energie delle varie classi del laicato citta-
dino, uscito più gagliardo dalle lotte fra l'impero ed il papato, fra
l'alto clero concubinario e simoniaco ed il clero minore e la « pata-
« ria », conscio della propria forza, che lo portava a dirigere le sue
feconde iniziative in ogni campo della pubblica attività, cominciando
col soddisfare ai bisogni del culto e col provvedere ad una più deco-
(•) Cfr. la prima serie in quest'Archivio, XXXI, 1904, fase. IV, pp. 302-359.
(i) Con questa stessa denominazione erano indicati nell'antica porta Ro-
mana, sotto le sculture rappresentanti il ritorno dei milanesi in città, Guglielmo
Borro e Prevede Marcellino, « huius operis superstites », insieme ai nomi dei
consoli della repubblica,, sotto il cui reggimento era stata iniziata la ricostruzione
della porta il primo marzo 1171, e dell'architetto e scultore Girardo da Casti-
gnianega. La denominazione ricompare sino dai primi atti della fabbrica del
duomo, per indicare le persone incaricate di sorvegliare l'esecuzione dei lavori.
48 GEROLAMO DISCARO
rosa venerazione dei corpi dei santi, nella cui protezione la città
riponeva ogni speranza di grandezza e di prosperità (i).
Creata per la direzione amministrativa della rifabbrica, la so-
prastanzia ricevette ben presto legati e doni di terre e di censi; i
cui redditi, dopo compiuti i lavori in corso, si dovevano erogare
nelle spese di manutenzione ordinaria dell'edificio. Divenne così una
Istituzione permanente, che, essendo venuta a cessare, colla diffe-
renziazione compiutasi poco a poco nelle attribuzioni delle magi-
strature cittadine e dell'autorità ecclesiastica, l' influenza diretta del
comune nelle cose della basilica, finì per cadere sotto la giurisdi-
zione dell'arcivescovo; il quale nella sua veste di « dominus » del
tempio, rivendicò il diritto di porvi il « superstans » e di con-
trollarne la gestione.
È notevole rispetto alla contemporaneità della rifabbrica della
chiesa di S. Ambrogio colla ricostruzione di altri templi milanesi,
per mezzo di altrettanti uffici chiamati « labores w, il testamento del
febbraio 11 12 di Gisla, vedova di Amizone Ghiringhello, la quale
lasciò alcune terre alle chiese di S. Maria «j emale w, S. Nazaro al
corpo e S. Stefano alla ruota, assegnando ai « labores « delle tre
phiese « donec » (ciascuna di esse) « restaurata fuerit w, una parte
dei redditi, che « post completum ipsum laborem », dovevano an-
dare a favore delle rispettive canoniche (2). Altri documenti avver-
tono che nella stessa epoca si lavorava intorno alla grande basilica
di S. Eustorgio; il cui « labor » viene beneficato in un testamento
del 1121, come un ente distinto dalla canonica addetta all'officiatura
della chiesa (3). Più tardi, nel 1147, si ha notizia del « labor » della
(i) Il medesimo fenomeno si verificò intorno allo stesso periodo di tempo
a Pavia, Verona, Parma, Modena, ecc.
(2) Codice diplom. Della Croce, ms. Ambros. D. IV, Sup. V, e. 74. Chia-
mavasi « labor sancte Marie Maioris » o « Jemalis », la casa ove era la sede
della soprastanzia della metropolitana, presso al palazzo dell'arcivescovo, vicino
all'antico broletto del comune. Si hanno più sentenze consolari e arbitrali della
seconda metà del sec. XII pronunciate a in labore S. Marie jemalis ». Della sopra-
stanzia di S. Stefano « in brollio », detto anche « ad rotam », abbiamo trovato una
sola notizia indiretta in un atto del 1336 (Cod. Della Croce, XXIII, sub a. 1336).
(3) Ibid., V, e. 147, 1121, aprile i. Ambrogio (« qui dicor Saginus ») fu
Lanzone, dispone alcuni suoi beni a ad partem laboris ecclesie S. Eustorgii », e
vuole che alla morte della moglie anche altri beni « deveniant in iure supra-
« scripti laboris S. Eustorgii ad retinendum ipsum laborem ».
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 49
basilica di S. Simpliciano (i). Mentre a S. Ambrogio, S. Tecla,
S. Lorenzo, S. Eustorgio e a S. Maria j emale le soprastanzie con-
tinuarono ad essere affidate quasi sempre ai laici nei secoli XIII e
XIV (2), già nel 1153 troviamo « superstans « della chiesa diS. Gior-
gio al palazzo un diacono della stessa chiesa. Era sorta questione
fra il soprastante e il preposto della canonica per la pretesa del
primo di disporre, a suo arbitrio, del cimitero, nel quale aveva co-
struita una casa vicino alla « domus superstantie ». La causa fu
■decisa dall'arcivescovo Oberto, il quale dichiarò che « ut canones
(i) BoNOMi, Tah. Clarev., ms. Braidense^ A. E. XV, 20, doc, n. 75; 1142
gennaio 27. Alberico Ferrario del borgo di porta comasina, per il caso che a in
<( hoc itinere Yerusalem in quo modo iturus sum mortuus fuero », lascia fra
molti legati pii cinque soldi all'ospitale, cinque al monastero e cinque « labori »
■di S. Simpliciano.
(2) Della soprastanzia di S, Maria jemale si ha un atto del 1209 con cui
« Abiaticus, qui dicitur Pasquahs superstes laboris mediolanensis ecclesie beate
« Marie » concesse in affitto perpetuo una « braira ipsius laboris » ad una com-
pagnia di partecipanti (R. Archivio di Stato, Arch. dipi., pergam., fascio n. 144).
Nel 1220 troviamo Oprando fu Lanfranco da Besana « superstite laboris S. Marie
« raaioris » (Sassi, Series archiepisc, TI, 650). Argomentiamo che nel 1337 la
soprastanzia della metropolitana fosse stata unita al capitolo maggiore, da un atto
di quell'anno, col quale l'arciprete e il capitolo rinnovarono ad alcuni parteci-
panti l'investitura di alcune porzioni della braida suddetta, senza più fare men-
-zione della soprastanzia (i.\rch. di Stato, Se^. storica, comune di Milano, Fabbrica
del Duomo). A S. Eustorgio, sebbene, come si vedrà più innanzi, l'ammini-
strazione della soprastanzia fosse stata fino dal 11 56 affidata alla canonica della
basilica, i soprastanti laici continuarono ad alternarsi coi chierici per tutto il se-
colo XIII. Nel 12 51 era soprastante frate Anselmo Corbo (Cod. Della Croce,
XVII, sub a. 125 1), e nel 1294 « dominus Gasparrus Sella civis Mediolani
« porte ticin. » (Arch. dipi., perg. S. Ambrogio, fascio n. 116). '■ — Dell'antica so-
prastanzia di S. Lorenzo maggiore abbiamo un atto del 1209, di locazione con-
cessa da Riboldo e Guido « qui dicuntur Prestinarii, superstantes laboris S. Lau-
« rentii », di un fondo posto fuori di porta Ticinese, « ubi dicitur in Valle Orioni
« prope ecclesiam S. Eustorgii » (Ibid., Se:(^. storica, arcivescovi, busta IV). L'atto
porta la sottoscrizione dell'arcivescovo Uberto da Pirovano, che conferma la di-
pendenza diretta dall'arcivescovo di quella soprastanzia, sebbene retta da laici.
Nel 1255 era soprastante frate Guglielmo da Ferrabò, contro il quale la canonica
mosse querela per ottenerne la rimozione dall'ufficio a causa della sua cattiva
amministrazione. Si diceva fra altro che « remoto plumbo de tecto diete Ecclesie
•« et ibi contra antiquum statura ecclesie et decorem, positis cuppis », avesse
gravemente pregiudicata la basilica (ibid., perg. S. Lorenzo, fascio n. 144). Nel
1290 l'ufficio era tenuto da un Visconti, « d. Petrus Vicecomes superstans diete
<(. ecclesie » (ibid., perg. S. Ambrogio, fascio n. 115).
Arch. Star. Lomb., Anno XXXII, Fase. V. 4
50
GEROLAMO BISCARO
« dictant » spettava soltanto al preposto assegnare le sepolture, e che
il cimitero doveva rimanere libero « usque ad pedes » (i). Tre anni
dopo lo stesso arcivescovo Oberto concedeva il dominio della « su-
u perstantia » della basilica di S. Eustorgio al preposto di quella ca-
nonica (2).
Questi precedenti spiegano perchè intorno alla stessa epoca i
canonici di S. Ambrogio abbiano cominciato a portare i loro cupidi
sguardi sulla « domus laboris » della basilica, cercando di attirarla
nella propria orbita, per finire, come riuscirono molto tempo di poi,
a farsene padroni; con grande dispetto, è vero, dei monaci, ma
con nessun vantaggio per la manutenzione e per il decoro della
chiesa.
Abbiamo accennato altrove alla lite del 1143 ^^^ ^ monaci e i
canonici intorno ai diritti di parrocchialità sulle case ch'erano sorte
da poco tempo nei pressi della basilica, e alla sentenza consolare
che riconobbe tale diritto ai canonici per gli edifici compresi fra
la linea mediana della chiesa verso occidente e la sede della ca-
nonica, a settentrione. La « domus laboris » si trovava appunto a
settentrione della chiesa, poco lungi dalla canonica. Qualche pre-
tesa i canonici dovevano avere avanzato sulla soprastanzia nel T162.
Nel febbraio di quell'anno Gariziano Pecora « superstans ecclesie
« Sancti Ambrosii »> e Pietro « conversus illius superstantis >» addiven-
nero coi canonici ad una transazione in una lite relativa ad un annuo
censo, legato « labori ecclesie » ; rinunciando ad ogni maggiore di-
ritto si accontentarono di ricevere tre annualità del canone (3). L'atto
prova inoltre che ormai l'ufficio del soprastante, sebbene tenuto da
laici, si considerava di carattere ecclesiastico; tanto che erano am
messe le « conversiones w a favore del « labor ecclesie », ossia l'of-
ferta che faceva taluno della propria persona e dei suoi beni a
vantaggio dell' opera, la quale, per mezzo del soprastante, si ob-
(i) Sassi, op. cit., II, 544. L'orig. è in Arch. dipi., Se:(ione arcivescovi, bu-
sta IL La data della consacrazione della chiesa di S. Giorgio in palazzo (26
agosto II 27), ricordata nelle antiche notae sancti Georgii Mediolanensis (Pertz,
M. G. H., Scr. Vili, 386), dovrebbe segnare il compimento della rifabbrica della
basilica, avvenuto intorno alla stessa epoca della ricostruzione di S. Ambrogio,
S. Simpliciano, S. Eustorgio, S. Maria j emale, S. Nazzaro e S. Stefano.
(2) Cod. Della Croce, VII-VIII, sub a. 1156.
(3) Ibid, IX, e. 7.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 5I
bligava di fornirgli gli alimenti per tutta la vita; come si praticava
nelle conversioni ai monasteri, alle chiese e agli ospitali (i).
Quanto si è detto, in via d' induzione, a proposito della sen-
tenza dei consoli, trova conferma per il tempo posteriore nel de-
creto dell'arbitro Milone, del 1174, che assegnò ai canonici la « do-
" mus laboris quo ad iura parochie » (2). Di questa « domus »
fanno ^menzione i testimoni del processo del 1200-1201, e quelli di
un'altra causa svoltasi avanti i consoli di giustizia nel 1207 ^^^ i ca-
nonici di S. Ambrogio e i vicini delle chiese di S. Pietro « al dorso »
e di S. Naborre, intorno alla proprietà di un pezzo di terra in conti-
nuazione della sede della canonica, oltre la linea segnata dal mezzo
della fronte di S. Naborre sino alla « columpna lapidea dricta », la
colonna romana isolata all'angolo nord-ovest del portico della basi-
lica (3), attraverso la chiesa di S. Maria Greca (4). Un testimonio
in questa seconda causa depose che, dopo il ritorno dei milanesi in
(i) Nel 1200 la « domus laboris » aveva oltre ai conversi, una conversa
(Cod. Della Croce, XII, ce, 121-131: Esame del teste Stefano da Vigonzone).
(2) PuRiCELLi, Moti. Bas. Amhr., n. 147.
(3) Sarebbe questa la prima notizia che si ha nelle 'carte milanesi della
colonna isolata presso il portico della basilica. Si è creduto da taluno di ravvisare
un accenno alla colonna nelle parole che si leggono in un documento del 776 :
« iuxta columpna que dicitur orphana » {Cod. Lang. in M. H. P., e. 106). Ma
la frase: a que infra hac civitate Mediolani », che precede quelle parole, dimo-
stra che la cosidetta colonna « orphana » sorgeva nell' interno della città, mentre
è risaputo che la basilica di S. Ambrogio fu compresa entro la cinta cittadina
non prima del 1162. È pure nota la parte che, secondo il Fiamma, era assegnata
alla (( collumpna marmorea recta » nella cerimonia dell'incoronazione dell'im-
peratore in S. Ambrogio {Chronic. mams in cod. Ambr. A. 275 inf, e. 154),
e si conosce da un istromento del 1507 riferito dal Puricelli, Dissert. Na^ar.,
pp. 630-52, che ancora al suo tempo era costume del pretore di Milano il giorno
che assumeva la carica, di recarsi presso la colonna, forse per abbracciarla, come
si dice facesse l' imperatore a in signo quod in ipso erit iustitia recta ». Crediamo
che la pratica dell'abbracciamento della colonna sì collegasse colla consuetudine
della offerta di un fiorino che il podestà faceva ogno anno sull'altare di S. Am-
brogio ; della quale consuetudine sì ha notizia in una lista delle oblazioni alla
chiesa negli anni 1284 e 1285 {Arch. dipi., perg. S. Ambrogio, fascio n. 107).
(4) Cod. Della Croce, XIIl, e. 156. Il teste Pagano « de bambace », in-
terrogato c( ubi incipìebat predicta via quando intrabat locum de quo queritur »,
rispose: « ad pizum solarli quod est per medium ecclesie S. Naboris incipìebat
« et ibat iuxta murum illius canonice usque ad ulmos qui erant ibi ubi est co-
« lumpna lapidea dricta que est per medium sancte Marie Grece ».
52 GEROLAMO BISCARO
patria, era stata costruita una casa nello spazio in questione, ove
stettero Lanfranco Bugnone, Zamperlo e Lorenzo. 11 primo dei tre
era « superstes » della chiesa di S Ambrogio, « et ibat querendo
« bonum et auditorium prò levare ecclesiam Sancte Marie Gre-
u ghe " (i). Per chiarire la portata di questa notizia come di altre
riferite dai testimoni intorno agli edifici eretti sopra quell'area dopo
il rimpatrio degli esuli, il causidico dei canonici inserì fra le linee
la seguente nota: « quando intravimus civitatem, omnia erant de-
u structa et quia canonici sancti Ambrosi! erant catholici, simul
« cun aliis exulaverunt ; sed cum intraverint et domos et sepes
i( et ortos statim restauraverunt » (2). D'onde si rileva che la
« domus laboris » ove abitava il soprastante, e la vicina chiesuola
di S. Maria Greca, come tutti gli altri edifizi esistenti a setten-
trione della basilica, erano stati diroccati nel 1162, quando Milano
fu distrutta.
Dopo il ritorno dei cittadini il nuovo soprastante, Lanfranco
Bugnone, ricostruì la « domus », e fece una colletta per riedificare
la chiesuola. « Querere bonum et adiutorium »; ecco il mezzo ordi-
nario, cui si ricorreva nel sec. XII, come sempre di poi ed an-
che in oggi, per raccogliere i fondi occorrenti alla costruzione degli
edifizi di culto. Il patrimonio delle soprastanzie bastava appena per
le spese di manutenzione ordinaria. Se occorrevano somme consi-
derevoli per rifabbriche, totali o parziali, in difetto di qualche lascito
particolare, non c'era altra risorsa che la questua o colletta, libera
od obbligatoria secondo le circostanze, limitata fra i vicini od estesa
a tutta la città, secondo che si trattava di chiese vicinali o parro-
chiali (3) ovvero delle principali basiliche.
(i) Cod. Della Croce, Esame del teste Nazzaro « panis et nucis » (sic).
(2) Ibid. Esame del teste Alberto « Bellinzonus ».
(3) Mentre agli interessi patrimoniali delle chiese basilicali provvedeva il
clero officiante coli' intervento o con licenza dell'arcivescovo, oppure il sopra-
stante, secondo che si trattava di beni destinati per il servizic^ del culto o di
beni assegnati per la rifabbrica o la manutenzione dell'edificio, invece nelle chiese
parrocchiali minori tutto si amministrava dal clero locale col concorso dell'as-
semblea dei vicini o parrocchiani. Veggansi ad esempio: i."" un atto del 1204,
di vendita di terre in Melzo spettanti alla chiesa di S. Eufemia di Milano, sti-
pulato da prete Vitale, « officiale » della chiesa, col concorso di otto « vicini
a ipsius ecclesìe qui fuerunt electi in antea communi Consilio vicinorum ipsius
« ecclesie » {Arch. dipi., sezione, arcivescovi, busta IV); 2.° un altro atto del 121 5
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 53
Rimane adunque stabilita la data della rifabbrica della piccola
chiesa di S. Maria Greca, ora sotto l'invocazione di S. Sigismondo,
intorno al 1167, a cura del soprastante della basilica, Lanfranco
Bugnone. Il sacello presenta ancora, non ostante la trasformazione
della volta compiuta nel sec. XV, tracce della costruzione del
sec. XII nell'arco dell'abside, che offre qualche affinità costrut-
tiva cogli archi delle grandi volte a crociera della basilica (i).
Nel 1200 si litigava fra i due cleri intorno a taluni servigi che
i monaci reclamavano dai canonici per l'officiatura della chiesa ;
pretendevano fra l'altro che in alcune solennità i canonici avessero
ad ornare la chiesa, gli altari ed il pulpito con palili e cortine. E
poiché la questione non era che un episodio dell'antico litigio sulla
preminenza che il monastero vantava in confronto della canonica,
nelle posizioni formulate per l'esame dei testimoni l'abbate dedusse
che i canonici non avevano mai avuto sedili, leggìo e lampade nel
coro, né mai avevano fatto uso del pulpito (2). I canonici, dal loro
canto, obbiettarono, che incombeva al soprastante provvedere al
restauro della chiesa e del pulpito, e che la nomina del soprastante
spettava all'arcivescovo (3) ; per concludere che coro e pulpito
di costituzione di livello sopra terre in Panilo di proprietà della chiesa dei
SS. Babila e Romano nel borgo di porta Orientale, stipulato da due preti
« officiali » col consenso di otto vicini, « tunc consulibus illius burgi et illius
« ecclesie » (ibid. perg. S. Maria Beltrade, fascio n. 153); 3.° un compromesso
del 31 marzo 1239 fra il prete « beneficiario » di S. Maria Podone col consenso
di otto vicini della parrocchia, e il monastero di S. Maria di Lampugnano (ibid.,
Se^. storica, arciv., busta IV).
(i) In fine di un codice della canonica di S. Ambrogio leggevasi la se-
guente nota: « MCCL. die mercurii septimo exeunte mense madii, ad onorem
« Domini nostri ecc. dominus frater Leo de ordine minorum archiepiscopus
« M. consecravit altare sancte Marie grece, quod altare celle est vel fuit in ca-
« nonica S. Ambrosi! » (Cod. Della Croce, XVII),
(2) Arch. dipi, perg. S. Amhr., fascio n. 107 : « Ponit d. abbas - item
« quod canonici non habent in choro S, Ambrosii sedilia, nec lectorile, nec ci-
« cindilia, nec catenelias cicinderiorum ; immo omnia predicta sunt infrascripti
« monasterii, et in destructione chori abbas sicut sua fecit portare in ecclesia
« S. Satiri; — Item quod canonici non consueverunt sedere in stadiis mona-
« chorum, seu in choro S. A. immo iuxta altare ab annis L supra ».
(3) Cod. Della Croce, XII, e. 17. « Ponunt sindicì canonicorum quod su-
« perstes reficit ecclesiam B. A. et pulpitum ; — quod superstes ipsi ecclesie po-
« nitur ibi per d. archiepiscopum ».
54 GEROLAMO DISCARO
appartenevano all'arcivescovo, il quale ne aveva affidato solo ad
essi l'uso e la custodia. I patroni delle parti, che assistevano
agli esami, si sbizzarrirono a muovere ai testimoni un' infinità di
domande sopra argomenti che presentavano coll'oggetto della lite
una relazione affatto occasionale ed indiretta. E così che si fece
raccontare da un teste dei canonici, che l'anno prima (1199), a na-
tale, il soprastante Ottone « de Arena » aveva offerto « un pomo
« citrino » (forse un limone) al preposto eh' era andato a portare
l'acqua e l' incenso alla « domus laboris sancti Ambrosii, « ubi
u sunt quedam monumenta » (i). Un secondo testimonio narrò
che i canonici avevano una volta fatto demolire 1' « hedificium
« ligneum », costrutto nel pulpito per ordine dell'abbate, giustifi-
cando il procedere dei canonici col dire che i restauri del pulpito
non erano di competenza dell'abbate, ma del soprastante. Invitato
a dare spiegazione intorno a questo suo apprezzamento, rispose
che aveva visto il soprastante fare accomodare il pulpito dopo
ch'era stato atterrato, e sopra il pulpito stesso, così accomodato,
far disporre un coperto di tegole (2). Un terzo testimonio, chie-
rico della canonica, si confessò autore, insieme ad altro familiare
dei canonici, della distruzione del « labor ligneus » del pulpito, che
il soprastante si era affrettato la stessa notte a rimettere a posto (3).
Un teste del monastero chiarì che i monaci avevano fatto accon-
ciare il pulpito per mezzo del soprastante e col consenso dell'ar-
civescovo, e che 1 canonici di notte tempo lo avevano demo-
lito; il soprastante la stessa notte, per evitare conflitti fra i due
cleri, lo aveva di nuovo accomodato (4). Un secondo testimo-
(i) Cod. Della Croce, XI I, e. 121 sg. Veggasi anche nello stesso cod. Della
Croce, XIII, e. 34 sg.
(2) Ibid., XII, ce. 165-174. Esame di Guiffredo, canonico e cimiliarca di
S. A. ; a per nuntios canonicorum diruptum fuit hedificium ligneum quod abbas
« et monaci facere fieri presumpserunt in ipso pulpito, quia ad abbatem vel mo-
« nacos non pertinet reficere pulpitum vel ecclesiam, sed ad superstitem ecclesie,
« qui ibi ponitur per d. archiepiscopum. Interr. quo modo scit. R. quia vidi su-
« perstitem qui modo est, facere reficere ipsum pulpitum quando diruptum fuit
« et supra pulpitum facere cohoperire de cuppis ».
(3) Ibid., XII, ce. 225-232. Esame di Pietro Taverna, chierico di S. A.:
« quia monaci presumpserunt facere laborem ligneum in pulpito, ego et Jacobus
« de labore et quidam servitores canonicorum ipsum destruximus, et antequam
a dies venerit, superstes, cuius officium erat, ipsum reficere fecit ».
(4) Ibid., XII, ce. 68-78. Esame di Martino, monaco di S. A.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 55
nio (i) aggiunse che il soprastante aveva in quell'occasione accon-
ciato il pulpito nella forma che presentava ancora al momento del
suo esame (22 dicembre 1200). I monaci Martino e Guido precisarono
le funzioni del soprastante, dicendo che non era tenuto a provve-
dere per gli stalli del coro, ma soltanto per i banchi della chiesa
e per le porte, e a far ricoprire il tetto (2). Quasi tutti confer-
marono che la sua nomina spettava all'arcivescovo, e ch'egli soleva
provvedere ai ristauri coi redditi della « superstantia » ; ove questi
non bastavano, al di più suppliva l'arcivescovo. Così avevano fatto
nell'ultimo ristauro per la parziale caduta della basilica gli arcive-
scovi Oberto (da Terzago) e Filippo (da Lampugnano) (3).
Dal complesso di queste deposizioni e delle altre che per bre-
vità omettiamo di riassumere, si raccoglie che sulla fine del se-
colo XII le funzioni del soprastante continuavano ad essere quali
erano state in origine ; attendere alla ricostruzione e alla manu-
tenzione ordinaria e straordinaria dell'edificio, comprese le porte
e quant'altro è dato considerare immobile per natura, perchè sta-
bilmente incorporato al suolo; ad esempio il pulpito, il ciborio e
l'altare. Ne erano esclusi in generale i mobili; ma si faceva ecce-
zione per i banchi nella chiesa destinati ai fedeli. Agli stalli del
coro, ai leggìi, alle lampade, all'olio, alla cera, ecc., provvedeva il
clero addetto all'officiatura del tempio. Cessata da lunghi anni
r ingerenza del comune nella nomina del soprastante e nella sua
gestione, la « superstantia » era divenuta una dipendenza dell'ar-
civescovo, il quale continuava a destinarvi dei laici in omaggio ad
una tradizione quasi secolare.
Alquanto confusa è la storia delle peripezie del pulpito. Par-
rebbe che l'edificio ligneo fatto costrurre dai monaci, demolito a
(i) Cod. Della Croce, XII, ce. 94-102. Esame di Giovanni da S. Siro, converso
di S. A. : « ego prò nionacis ipsum pulpitum aptavi, postea ipsuni destruxerunt ca-
« nonici ecc. guod pulpitum ut modo est, superstes aptare fecit ».
(2) Ibid., XII, ce. 68-78 e 78-89.
(3) Ibid., XII, ce. 68-78. Esame del monaco Martino: « ego credo quod
« sit ibi superstes per d. archiepiscopum et quod reficit ecclesiam sicut potest, et
« si non potest d. archiepiscopus reficit eandem ecclesiam. Et vidi quod archi-
« episcopus Obertus ipsam ecclesiam fecit aptare et quod d. Philipus fecit opus
« inceptum perfici ». — e. 113. Esame di Pietro, primicerio dei vecchioni:
« quondam d. Obertus archiepiscopus ipsam [ecclesiam] refìcere fecit ».
56
GEROLAMO BISCARO
suggestione dei canonici e tosto racconciato dal soprastante, fosse
un assito provvisorio a forma di poggiolo, disposto sopra le colonne
dell'antico ambone ch'erano rimaste in piedi dopo il crollo di parte
della basilica; essendosi in quell'occasione trasportate nella piccola
chiesa di S. Satiro insieme a parte degli stalli del coro, le pietre
dello stesso ambone, ossia i frammenti delle volte, del fregio e del
davanzale (i). Nello stesso tempo che dai monaci si provvedeva
colla costruzione del poggiolo di legno ai bisogni più urgenti del
culto, in attesa che, ultimati i lavori del tiburio e della vicina cam-
pata, si potesse sgombrare lo spazio sottoposto dai ponti di fab-
brica e dagli assiti e por mano al completo rifacimento del pulpito,
il soprastante, affinchè l'edificio ligneo non rimanesse esposto alle
intemperie, dispose al disopra una tettoia coperta di tegole.
Ponendo a raff'ronto alcuni frammenti di queste testimonianze
pubblicati dal Puricelli (2), colla iscrizione che si legge sopra una
parete dell'ambone: « Gulielmus de Pomo superstes hujus ecclesie
u hoc opus multaque alia fieri fecit » ; si argomentò che il sopra-
stante, del quale parlarono i testimoni, fosse Guglielmo de Pomo,
e che il pulpito sia stato a di lui cura ristaurato fra il 1196 e il 1198.
Si è ora veduto che nel 1199 il soprastante era Ottone de Arena;
al quale, e non al de Pomo, allusero i testimoni che narrarono le
vicende dell'ambone, dal crollo della volta di sopra in poi. Gu-
glielmo de Pomo è qualificato « superstes ecclesie et laboris sancti
M Ambrosii » in vari atti dal 1204 al 1212 (3); ciò concorre a
far ritenere che il ristauro ricordato dalla iscrizione sia poste-
riore almeno di qualche anno al processo del 1200-1201. Qualche
frase dei testimoni, se fu raccolta con precisione, sembra indicare
che nel dicembre 1200 il pulpito era ancora come Ottone de Arena
lo aveva racconciato in fretta e furia la famosa notte, col poggiolo
di legno al posto del davanzale marmoreo. Se così è, bisogna ri-
(i) Cod. Della Croce, XII, ce. 68-89. Esame dei monaci Martino e Guido.
(2) Moti. Bus. Ambr., n. 626 sg.
(3) Con un atto del dicembre 1209 {Arch. dipi, Se^. storica, arciv., bu-
sta IV). (( Gulielmus qui dicitur de pomo superstes seu minister laboris ecclesie
« sancti Ambrosii », col consenso dell'arcivescovo Uberto dava esecuzione ad
una transazione col monastero di Chiaravalle intorno al diritto di decima spet-
tante alla « superstantia » nel territorio di Nosedo; transazione già intesa fra le
stesse parti fino dal novembre 1204. L'ultimo atto in cui figura il nome di Gu-
glielmo de Pomo è del marzo 12 12 (ibid., perg. S. Ambr., fascio n. 108).
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 57
tenere che il soprastante abbia atteso, prima di procedere al de-
finitivo ristauro, l'esito della lite. Solo dopo risolta dalla sentenza
del novembre 1201 dei commissari apostolici (i) la questione sul
dominio e sull'uso del pulpito, il nuovo soprastante Guglielmo de
Pomo si sarà deciso ad iniziare una diligente ricostruzione dell'am-
bone, ottenuta col ricomporre i frammenti delle volte e del fregio
e col rimettere a nuovo i grandi specchi marmorei del davanzale.
Quali altre opere il de Pomo possa avere fatto eseguire ad
ornamento della basilica nel tempo della sua soprastanzia, si vedrà
nel capitolo relativo all'altare e alla sua custodia. Intanto, poiché
si è parlato del pulpito e dei suoi ristauri, rammentiamo che nel 1254,
in una lite che si agitava fra il monastero e la canonica avanti
l'arcivescovo Leone da Perego, si discusse fra l'altro a carico di
quale dei due capitoli dovesse incombere la spesa occorrente per
un nuovo ristauro dell'ambone. I monaci pretendevano di addos-
sarla ai canonici, asserendo che era stato « destructum vel vio-
« latum » per loro colpa (2).
. È notevole il particolare riferito dal primo teste dei canonici
nel processo del 1200-1201 intorno all'esistenza di alcuni monu-
menti nella « domus laboris ». Poiché il teste venne a parlare di
questa casa a proposito della cerimonia dell' incenso e dell'acqua
che i canonici erano soliti portarvi la vigilia di natale, pensiamo
che quei monumenti fossero delle arche sepolcrali provenienti dal-
l'antica basiUca a colonne, rimosse dal suolo o dalle muraglie quando
la chiesa fu ricostruita, e colà trasportate in deposito insieme alle
colonne e ad altre pietre sopravanzate dalla rifabbrica. 11 preposto
portava l'incenso e l'acqua oltre che alla " domus laboris », a quelle
tombe, come una pertinenza dei cimiteri assegnati alla giurisdizione
della canonica. E probabile che fra i suddetti monumenti vi fossero
il grande avello marmoreo e i frammenti delle arche cristiane che
Guglielmo de Pomo, quando procedette al ristauro del pulpito, avrà
fatto trasportare là sotto fra le colonne, e nella parte posteriore del
davanzale, ove formano tuttora oggetto di particolare ammirazione.
(i) PaRiCELLi, op. cit., n. 653 e 654; eoa. Della Croce, XIII, e. 50. L'ori-
ginale si trova in Arch. dipi, Se^. bolle e brevi papali séc. XII, busta VI.
(2) Cod. Della Croce, XVIf, sub a. 1254. « Peticiones monachorum, ecc.,
a item quod reflciant [canonici] pulpituin ipsoruni culpa destructum vel violatum,
« cum debeant custodire ecclesiam ».
58 GEROLAMO BISCA RO
Della soprastanzia di S. Ambrogio non si hanno altre notizie
fino al 1282; ad eccezione della presenza come testimonio di Ven-
tura da Bescapè « superstans ecclesie Sancti Ambrosii », alla pub-
blicazione della sentenza proferita nel 1260 dal giurisperito Pagano
Valliano, arbitro in una delle tante controversie fra i due capi-
toli (i). Nel 1282 si discuteva a chi spettasse la spesa degli
stalli del coro che si dovevano rifare (2). Caso straordinario negli
annali della basilica dalla fine del sec. XI in poi; canonica e mo-
nastero si erano messi d' accordo. Pretendevano di accollarne il
carico al soprastante; il quale resisteva dicendo che non era di
sua competenza provvedere alla costruzione degli stalli.
La causa fu portata alla curia dell'arcivescovo Ottone Visconti;
il quale, osservando che la questione pareva dubbia e che trattata
u per viam juris » la sua definizione avrebbe richiesto troppo tempo,
e non si poteva frattanto lasciare il coro sprovvisto degli stalli,
troncò la lite col deferire ai sindaci del monastero e della canonica
il giuramento intorno all' obbligo del soprastante di provvedere a
tale opera. Il soprastante, eh' era ancora Ventura da Bescapè, in-
tesa la dichiarazione dei sindaci dei due capitoli di essere pronti
a giurare, li dispensò dalla prestazione dell' atto solenne, purché
confermassero « in fide et bonitate sua w il contenuto della relativa
formola. I sindaci non se lo fecero dire due volte; e l'arcivescovo,
appena ricevuta la loro dichiarazione, sentenziando giudicò che il
soprastante doveva costruire gli stalli nel termine di un anno dalla
successiva festa di S. Lorenzo (io agosto).
In un processo agitatosi fra il 1332 e il 1337 in seguito al ten-
tativo dei monaci di impadronirsi della chiave della cancellata che
chiudeva in mezzo l'altare, fu interrogato nel 5 settembre 1337 come
testimonio il prete Salomone da Bescap>è, nipote del Ventura, so-
prastante. Prete Salomone disse che suo zio aveva tenuta la so-
prastanzia per qurantacinque anni ; ne erano trascorsi altri ven-
tidue e più dalla sua morte (3). Essendo stato interrogato sul ser-
vizio diurno e notturno dei custodi della basilica, accennò a vari
(1) Cod. Della Croce, XVIII, sub a. 1260.
(2) Ibid., XIX, sub a. 1282.
(3) L'ultima notizia di Ventura da Bescapè quale soprastante di S. Ambrogio
è in data del 1304, in un registro dei censi e livelli attivi e passivi del mona-
stero di Chiaravalle (Arch. dipi, perg. S. Amhr., fascio n. no, e. 31).
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROS.'ANI 59
colloqui che aveva avuto in proposito col custode Arnoldo « de la
« cessa», mentre per incarico dello zio Ventura sorvegliava l'esecu-
zione di certe pitture nelle volte « anteriori », vicino alla « porta
« mastra de arcipresso » (i). Del custode Arnoldo si hanno notizie
per il periodo dal 1261 al 1306 (2). Tutto calcolato, crediamo che
le pitture, delle quali parlò prete Salomone da Bescapè, siano state
eseguite fra il 1290 e il 1300. Non è altrettanto facile determinare
a quali pitture intendesse alludere il testimonio. Si potrebbe anzi-
tutto dubitare se la « porta mastra de arcipresso » fosse quella di
mezzo che mette dal nartece nella basilica, o l'altra sulla stessa
linea per cui si discende dal piazzale esterno nell'atrio. Se non
che lo stesso prete Salomone, in altro punto del suo lungo esame,
riferì che aveva visto un giorno i canonici ricevere l' arcivescovo
Francesco da Parma (1296-1308) « ad introitum Ecclesiae, scilicet
« ad portam mastram que est de arcipresso ». Qui, meglio che
nell'altro punto, pare si sia voluto identificare la « porta mastra de
u arcipresso » con quella di mezzo sotto le vòlte del nartece.
Dopo che nei ristauri della basilica compiuti verso il 1870 si
scrostò una parte della decorazione pittorica della seconda metà
del sec. XV che copriva le pareti inferiori del nartece, riappar-
vero negli spazi a destra e a sinistra della porta di mezzo gli
avanzi di vari gruppi di santi dipinti a fresco in epoche diverse.
Nello spazio di destra si osserva al basso un santo in piedi, di-
nanzi alla Vergine col Bambino, ed in mezzo lo stemma Crivelli
che imprime a quella pittura carattere votivo (3). Gli affreschi, cui
attese prete Salomone, dovevano avere ben altre proporzioni, se
(i) SoRMANi, Cod. Mediol., V, e. 74 sg., ms. Ambrosiano, F. sup., IV, 5,
e cod. Della Croce, XXIII, sub a. 1337. Ecco come si espresse prete Salomone :
« Ego vidi eos custodes de die lacere in dictis duobus lectis quos predixi esse
« intra ipsam sagrestiam Inter ipsas grates ferreas; et me faciente depingi voltas
« anteriores que sunt penes ianuam mastram que est de arcipresso et quas voltas
<( faciebam depingi ad petitionem domni Venture de Basilica Petrì qui erat su-
<( perstans diete ecclesie, audiebam dici ab ipso Arnoldo de la Cesa cum quo
« tunc multociens conversabar, quod ipse iacebat in dieta sacristia prò custodia
« et munitione dictorum thesauri et paramentorum et altaris maioris ».
(2) Arch. dipi, perg. S. Ambr., fascio n. 116, 1261 agosto; ibid., fascio
n. 117, 1306 settembre.
(3) Hanno pure carattere votivo le altre pitture assai guaste, nella quinta
e nella sesta campata della parete di mezzogiorno dell'atrio.
6o GEROLAMO BISCARO
egli, come disse, aveva avuto occasione di recarsi molte volte [mul-
tociens) per assistere alla loro esecuzione. Inoltre, lo stile di quel
dipinto, per quanto si può ancora discernere, sembra indicare
un'epoca alquanto più tarda. Lo stesso è a dirsi della figura di
santa nell' altra parete, fra le colonne del monumento del Decem-
brio, e del santo benedettino con un piccolo devoto ai piedi, nella
lesena marmorea della porta di mezzo.
Rimangono a considerare un gruppo di tre santi allineati (forse
S. Ambrogio nel mezzo e ai lati i martiri Protaso e Gervaso)
nella parete di sinistra, e due santi (S. Ambrogio e S. Marcel-
lina?) nella parte superiore dello spazio di destra sopra un fondo
a zone rosse e gialle con una fascia a greca e piccoli tondi intorno
alla finestra arcuata. Le forme rigide e senza espressione dei tre
santi, dai capelli e dalle pieghe delle vesti a linee parallele, e le
tinte giallastre delle carni, ce li fanno ritenere coevi o di poco po-
steriori alla rifabbrica della basilica, verso la metà del sec. XII.
Allo stesso tempo dovrebbe appartenere il Redentore con un fram-
mento di decorazione a greca, nella campata dell'atrio in capo al
portico di destra.
11 gruppo che megUo risponde così per il carattere della pit-
tura che per la disposizione dell' elemento decorativo, alle indica-
zioni fornite da prete Salomone, sarebbe quello in alto della pa-
rete di destra. Il contorno della finestra e le zone del fondo sino
alla volta indicano lo svolgimento di un sistema decorativo che
avrebbe dovuto comprendere anche la parte inferiore della stessa
parete, ripetersi nello spazio di sinistra e continuare con qualche
motivo semplicissimo, forse un cielo azzurro stellato, nelle volte del
nartece.
Successore di Ventura da Bescapè nella soprastanzia fu il giu-
risperito Andrea « de Orto », probabilmente della famiglia dei ce-
lebri causidici del sec. XII, Oberto ed Anselmo (i). Nulla sap-
piamo della sua attività a vantaggio della basilica. La sua profes-
sione di giurisperito fa sospettare che 1' ufficio del soprastante si
considerasse ormai come una prebenda, alla quale si aspirava in
(i) Arch. dipi., perg. S. Ambr., fascio n. 119, 1325 gennaio 18. a d. An-
te dreas de Orto iurisperitus superstans superstantie ecclesie S. Ambrosii » esige
un censo dal monastero di Chiaravalle.
I
NOTE E DOCUMENTI SAN T AMBROSI ANI 6l
vista dei lucri che vi andavano uniti: e si conferisse non già ai
più idonei, ma ai procaccianti e ai favoriti dei potenti.
Un decreto del i dicembre 1340, dell'arcivescovo Giovanni Vi-
sconti, emanato ad istanza dei canonici, ordinava l'unione della so-
prastanzia alla canonica (i) che seguì con atto del febbraio 1350
del suo vicario Ambrogio Medici (2). 11 decreto imponeva al ca-
pitolo di erogare i redditi della soprastanzia nella fabbrica della
chiesa « et alias in utilitatem eiusdem ecclesie penitus »; con ob-
bligo di dare conto ogni anno della erogazione, all' arcivescovo o
ad un suo delegato. Al fine di stabilire le basi dei futuri rendiconti,
si procedette tosto all'inventario del patrimonio della soprastanzia,
che risultò costituito da terre in Nosedo, Vigentino e alla Vepra
presso Milano, a Lissone, Dairago e Ovari presso Locate, e dal
diritto di decima su molte terre della pieve di S. Donato. Non
ostante la decretata unione, l'ente continuò ad essere amministrato
da un laico, Ambrogio « de Naxo », di Gallarate, fino al 1390 (3).
Nel frattempo, e precisamente nel 1364, l'abbate del monastero, Bel-
tramo da Lampugnano, in esecuzione di certe lettere commissariali
di un legato apostolico, investì un Catellano « de Alzate »>, chierico
vercellese, della soprastanzia di S. Ambrogio, come la prima delle
quattro soprastanzie delle chiese di Milano nelle quali si alterna-
vano i laici e i chierici, che si era resa vacante, per la morte di
Giovannolo Cappello, « olim ipsius ecclesie superstitis ». Catellano,
appena investito, si affrettò ad « affittare » l'ufficio per cinque anni
a Simonello, figlio di Giovannolo, per l'annuo canone di trenta fio-
rini; dal suo canto Simonello si assunse di « reparare et restaurare »
la chiesa e di soddisfare tutti gli obblighi incombenti al sopra-
stante (4). Non abbiamo elementi per chiarire l'apparente contrad-
dizione fra i documenti dal 1344 al 1390, nei quali figura soprastante
Ambrogio « de Naxo » e i due atti del 1364, ove si parla di un so-
prastante defunto, Giovannolo Cappello, e del suo successore Ca-
(i) Cod. Della Croce, XXIII, sub a. 1349.
(2) Ibid., XXIII, sub a. 1350.
(3) Ibid., XXVII, sub a. 1390.
(4) Ibid., XXV, sub a. 1364. — Ci sembra caratteristico per i costumi dei
tempi questa forma di sfruttamento a vantaggio dì un privato, delle rendite dei
beni destinati a sopperire ai più elementari ed impres-cindibili bisogni per la con-
servazione delle chiese.
02 GEROLAMO DISCARO
tellano. Ma è probabile che il tutto si connetta con una lunga con-
tesa fra i due capitoli, disputantisi il possesso della soprastanzia;
nella quale contesa fini per prevalere la canonica, che nel 1374
ottenne una bolla di Gregorio XI confermante il decreto e l'atto
di unione (i).
Per tutto il quattrocento non si hanno notizie suU' esercizio
della soprastanzia. Si vedrà più innanzi che nel 1469 i due ca-
pitoli provvidero a spese comuni per la costruzione degli stalli
del coro. Consta inoltre che nel i486 l'arcivescovo Arcimboldi,
commendatario dei monastero, dispose per la ricopertura in piombo
del tetto (2). Nel 1507 monastero e canonica presero gli accordi
per trasportare gli stalli del coro dinanzi all'altare, nell'abside sopra
la cripta (3) e nel 1520 per la costruzione della cantoria dell'or-
gano (4). 11 silenzio intorno alla soprastanzia nella esecuzione di
queste opere indica che i suoi redditi si consideravano insufficienti
a provvedervi, e che il monastero acconciavasi a concorrere con
metà della spesa, rimanendo l'altra metà a carico della canonica
che disponeva di quei redditi;
Bisogna arrivare fino alla visita pastorale di S. Carlo Borro-
meo (1566-1567) per sapere ancora qualche cosa della soprastanzia
della basilica. Si disse allora ch'era da molti anni soprastante il
canonico Giovanni Biffi, il quale non aveva mai dato conto della
sua gestione. Si constatò che il capitolo prelevava ogni anno in-
debitamente dai redditi dell'ente quaranta lire imperiali e per di
più lo gravava della spesa del vino per le messe (5). Nelle scrit-
ture del 1592 i monaci, rivendicando il dominio della chiesa, tac-
ciavano l'arcivescovo Giovanni Visconti di avere favorito la cano-
nica con offesa dei diritti del monastero, già « domino w della
soprastanzia; il che non è vero. Ma ciò che più interessa in quelle
scritture su questo argomento, è l'accusa contro i canonici di di-
strarre e di godersi le rendite della soprastanzia, trascurando la
manutenzione dell'edificio che minacciava da ogni parte rovina (6).
(i) Cod. Della Croce, XXV, sub a. 1374.
(2) Fondo di Religione, Conventi, S. Ambrogio, busta 65.
(3) PuRiCELLi, Dissert, Na^., p. 630.
(4) Fondo di Rei, Capitoli, S. Amhr,, busta 115.
(5) Ibid., busta 113. Allegato negli atti della causa promossa nel 1594 dal
monastero contro la canonica per avere i conti della soprastanzia,
(6) Ibid., busta 115.
w
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 63
Vi sarà stata dell'esagerazione; ma un fondo di verità non può
mancare nella enunciazione di alcuni fatti specifici; quali, ad esem-
pio, che si lasciava scoperto il tetto della basilica dalle lastre di
piombo, oggetto di continui furti, che i dipendenti della canonica
avevano a scopo di furto manomesso l'aureo palliotto dell'altare, e
che si erano dal capitolo vendute per far denaro alcune colonne
di marmo ed altre cose di proprietà della chiesa. Riservandoci di
parlare della manomissione dell'altare nel capitolo seguente, quanto
alle colonne il fatto si collega col rilievo contenuto negli atti della
visita di S. Carlo, intorno alla esistenza nella canonica di parecchie
colonne, cinque erette, e cinque giacenti al suolo, destinate alla con-
tinuazione del chiostro. Già si erano venduti i capitelli di quattro
colonne al prezzo di venti scudi. Una decima colonna si era spez-
zata ed un canonico l'aveva asportata insieme a certi banchi mar-
morei; forse quelli dell'abside ai lati della cattedra dell'arcivescovo,
rimossi alcun tempo dopo l'adattamento, nell'abside stessa, degli
stalli del coro (i). Ad onta dei rilievi dell' illustre visitatore, i ca-
nonici non esitarono alcuni anni dopo, a vendere anche le colonne
e gli altri capitelli, postrando così di rinunciare definitivamente al
proposito di completare la fabbrica di singolare bellezza iniziata
nel loro chiostro dal Bramante. Che fosse divenuto sistema dei
canonici di rodere attorno alla basilica per cavarne marmi e se-
polcri, se ne ha una prova ulteriore nella vendita di un « navello »
od arca sepolcrale, e di un « lavello » o vasca per l'acqua lustrale,
il primo già esistente « ne la piaza inanti a la chiesa », del secondo
non si dice dove fosse, ceduti nel 1641 l'uno alle monache di S. Ago-
stino e l'altro alle monache spagnole (2).
(i) Fondo di Relig., busta 115, 1566 nov. 20. « In dieta canonica adsunt
« quamplures columnae partim erectae et partim prostratae, videlicet quatuor
« prostratae et quinque erectae cum suis capitellis simul erectis prò perficiendo
« porticum circum circa, consimile aliis porticis ibi existentibus. Capitulum prae-
« fatum vendidit quinque capitella dictarum columnarum magnifico domino Hie-
« ronimo Florentiae prò scutis XX expenditis ad utilitatem ecclesiae, cumpacto
« totidem capitella retrodandi quotiescumque perficerentur dictae porticus, quo
« casu pretium praefatum deberet eidem domino Florentiae per capitulum re-
« stitui. Alia vero columpna fuit fracta et abducta una cum nonnuUis bancis mar-
te moreis per d. Brugoram alias canonicum ».
(2) Ibid., busta 114. In un fascio di ricevute della soprastanzia dal 1637
al 1641.
64 GEROLAMO BISCARO
Il monastero, rimasto soccombente nel processo del 1588-1592,
tornò alla carica nel 1594 P^^ avere dai canonici il rendiconto del-
l'amministrazione della soprastanzia. Nel libello s' insisteva nel de-
nunciare la trascurata manutenzione del tempio, « undique minan-
« tem ruinam », e il guasto dell'altare non ancora riparato (i). Ma
pare che neppure questa volta la fortuna abbia arriso ai monaci, i
quali si sentirono rispondere che soltanto all'arcivescovo la canonica
era tenuta a dare conto della sua gestione. In una seconda visita
pastorale del 1603 si deplorava che i redditi della soprastanzia si
fossero assottigliati di molto in causa di improvvide livellazioni, e
che la loro amministrazione procedesse confusa con quella dei red-
diti particolari della sagrestia, tenuta allora dal sagrista-soprastante,
canonico Tibaldo Bossi (2). Dai registri della sagrestia per i pe-
riodi dal 1665 al 1670, dal 1686 al 1696 e dal 1699 al 1701, i soli
che si sono conservati (3), risulta che la confusione dei redditi e
delle spese della soprastanzia e della sagrestia continuò come per
il passato, non ostante le disposizioni impartite dal visitatore. Il
monastero tentò nel 1700 un nuovo giudizio, ripetendo ancora una
volta l'accusa che la maggior parte delle rendite andava distratta
per pagare l'organista, la musica, il vino, ecc. Ma la sua azione fu
respinta definitivamente da tre sentenze conformi (4); gli ultimi
atti da noi rinvenuti fra le carte santambrosiane dell'archivio di
stato, in cui si fa ancora parola della soprastanzia.
II.
L'altare aureo e la sua custodia.
L'assalto dei monaci alle oblazioni dell'altare di S. Ambrogio
in sulla fine del sec. XI, dovette destare nei canonici il più vivo
allarme; oltre che per l'entità di quel reddito che veniva loro a
mancare, perchè l'assalto stesso preludeva a maggiori e più audaci
rivendicazioni per il dominio della basilica, e segnatamente del-
(i) Fondo di Relig., busta 113.
(2) Ibid., busta 120.
(3) Ibid., busta 114.
(4) Ibid., busta 113.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 65
l'altare, prezioso per le reliquie dei santi protettori e per il pàllio
risplendente d'oro e di gemme.
11 diploma di Angilberto, creato od alterato dai monaci per la
causa delle oblazioni, contiene la concessione dell'altare all'abbate
•Gaudenzio e ai suoi successori insieme alla custodia e al dominio
{ditió) della chiesa e al diritto di far proprie tutte le offerte dei
fedeli. Ma non vi è dubbio che l'altare fu sempre custodito e pos-
seduto dai preti « officiales » dell'ordine decumano, destinati dal-
l'arcivescovo all'officiatura ordinaria della basilica, indi costituiti in
canonica con un preposto, a mezzo del cimiliarca o tesoriere scelto
nel loro seno (i). Nelle « allegationes " del 1144 nulla vi ha che
riguardi in modo particolare le vicende dell'altare. Non manca però
nella scrittura dei canonici l'affermazione del possesso da tempo
immemorabile ch'essi avevano dell'altare e delle sue chiavi (2); in
quella dei monaci si invoca il diploma di Angilberto, il costruttore
dell'opera meravigliosa (3). Una lite scoppiata tre anni dopo fra i
due cleri conferma che l'altare continuava ad essere posseduto dai
canonici per mezzo del cimiliarca. L'abbate pretendeva che il ci-
miliarca gli aprisse l'altare durante la celebrazione dei divini uffici
nelle feste di S. Ambrogio e dei santi Protaso e Gervaso. I ca-
nonici, citati nella curia arcivescovile, obbiettavano che l'abbate non
I ^sapeva addurre altro titolo all'infuori della consuetudine. L'arcive-
■scovo Oberto trovò che la consuetudine costituiva in questa ma-
teria un titolo sufficiente, ed accolse il reclamo dell'abbate (4). Una
bolla di Eugenio III, del luglio 1148, confermò alla canonica il di-
ritto alle « refectiones », dovute dal monastero ai canonici secondo
(i) Nel processo del 1 200-1 201 1 testimoni dei canonici furono interrogati
^ulla origine e sulla funzione del cimiliarca. Il preposto Pietro Longo dichiarò
che il cimiliarca veniva nominato colla formola : « Ego investio te de cimiliarchia »
dal preposto, il quale teneva il « ius faciendi cimilìarcam ab archiepiscopo ».
« Ego credo quod quondam Satrapus primo investivit presbiterum Burrum de
« cimiliarchia, sed antea multi extiterunt cimiliarchi in ipsa canonica » (Cod. Della
Croce, XII, ce. 141-155). Il primo cimiliarca di S. Ambrogio del quale abbiamo
trovato notizia, è « Petrus presbiter officialis et cimiliarca ecclesie S. Ambrosii »,
intervenuto in un atto del 1084 (ibid., IV).
(2) « Canonici libere ac pacifice — claves altaris in sua potestate retineant ».
(3) « Ex lectione precepti dompni Angilberti bone memorie archiepiscopi
<( qui prefati mirifici operis constructor extitit ».
(4) Cod. Della Croce, VI, e. 275.
Arch. Sior. Lomb., Anno XXXII. Fase. V. 5
66 GEROLAMO BISCARO
l'antica consuetudine, « quando altare beati Ambrosii constitutis
« temporibus aperitur » (i).
Intorno all'obbligo dell'apertura dell'altare e al diritto alle re-
fezioni si litigò a lungo nei processi del 1189-1191 e 1200-1201, ed
in un terzo processo del 1250- 1254, del quale nessuna notizia fu
data dagli scrittori santambrosiani (2). Il monastero pretendeva che
il cimiliarca era tenuto ad aprire l'altare solo in alcune determinate
solennità dell'anno ed aveva diritto ogni volta ad una retribuzione
onorifica per il prestato servizio, consistente in una refezione alla
mensa dell'abbate, il quale doveva dargli il posto d'onore alla sua
destra (3). In relazione a questo punto di controversia, nel processo
del 1200-1201 i testimoni furono interrogati sulle funzioni del ci-
miliarca e dei due custodi destinati dal preposto a sorvegliare la
chiesa e l'altare, di giorno e di notte (4). Come si è veduto altrove
chiamavasi cimiliarchia l'abside maggiore, detta anche « locus » o
u sedes episcoporum w; ivi erano la cattedra dell'arcivescovo coi
(i) GiULiNi, op. cit., VII, p. Ili; cod. Della Croce, VI, e. 297.
{2) I primi atti sono in Arch. dipi, perg. S. Amhr., fascio n. 109. La causa
era stata commessa da Innocenzo IV con bolla (inedita) del 25 gennaio 1250,
all'abbate di S. Simpliciano, Tazone da Mandello. Ma pare che si fosse tosto
arenata in seguito alle eccezioni di ricusa del giudice, sollevate dai canonici. La
causa venne poi ripresa avanti l'arcivescovo Leone da Perego, il quale emanò
una sentenza in data io settembre 1254 (Cod. Della Croce, XVII, sub a. 1254;
l'originale è in Arch. dipi., perg. S. A., fascio n. iii).
(3) Cod. Della Croce, XII, e. 121. Esame del teste Stefano da Vigonzone.
Veggansi anche il libello del monastero e le « positiones » dei canonici nella
causa del 1200 (ibid , XII, ce. n e 17).
(4) Ibid., XII, e. 141. Esame del prevosto Pietro Longo: « Vidi cimiliarca
« habere claves altaris et cimiliarchie in qua sunt scrinia in quibus reponuntur
« thesauri huius ecclesie et in qua iacent custodes canonicorum qui custodiunt
« ecclesiam. Duo custodes modo sunt et esse consueverunt ; monache quamplures
" esse consueverunt, sed modo nulla est ». Le monache delle quali parla questo
testimonio, facevano nella chiesa i più umili servizi di pulizia. Nel libello dei
monaci del 1254 si accusavano i canonici di avere usurpato e di tenere « malo
a modo » il luogo e i proventi « quarumdam muliercularum agapete que Sco-
tt pabant ecclesiam S. A. et eam mundabant » ; e si chiedeva la divisione per
metà dei lucri di tali donne (Cod. Della Croce, XVII, sub a. 1254). Il predicato
« agapete » vorrebbe forse indicare l'uftìcio che esse avevano in origine di ser-
vire nelle agapi sacre ? A queste monache od agapete di S. Ambrogio dovevano
corrispondere le « scriptanes » della Metropolitana, costituite sino dal sec. XI
in corporazione con un primicerio e con un patrimonio comune.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 67
seggi marmorei per i suffraganei, e le arche contenenti gli arredi,
le cortine, i palili e i libri della chiesa (i). Riposavano colà i due
custodi della basilica; una tramezza non molto alta con una can-
cellata chiusa a chiave doveva separare la cimiliarchia dal presbi-
tero (2). Nel monastero discendevano spesso personaggi illustri
che desideravano visitare l'altare per venerarvi i sacri corpi (3).
Si ricorreva allora al cimiliarca perchè venisse colle chiavi; ma
non sempre egli si prestava all'invito, nel timore che il monastero
traesse poi argomento dalla sua accondiscendenza per vantare un
diritto illimitato all'apertura dell'altare e fondarvi le proprie pre-
tese al dominio dell'altare medesimo (4). I testimoni rammentarono
le visite fatte all'altare negli ultimi anni da parecchi vescovi ita-
liani ed oltremontani, da un gruppo di prigionieri pavesi portatisi
alla basilica coi ceppi ai piedi, e da alcuni veneziani (5). Nel prò-
(i) Cod. Della Croce, XIl, ce. 131-141. Esame del canonico Burro: a Interr-
ii,: « gatus si scit quod locum quem dicunt cimiliarchiam esse locum episcoporum, R.
W' a quod est locus archiepiscopi quia vidi multociens archiepiscopus in eo loco asse-
« dere »; ce. 174^-187. Esame del canonico Prevosto « de Osenago »: « Interrogatus
« si scit quod locum quem, ecc. R. Nescio nisi quod ter in anno sedit ibi ar-
ce chiepiscopus cum fratribus suis cum veniunt ad festa »; ce. 155-165. Esame
del canonico Prevosto : « Offìcium cimiliarce est habere claves altaris et paliorum
« et curtinarum et librorum canonice ».
(2) Oltre al frammento dell'esame del prevosto Pietro Longo riportato in
n. 8, veggasi per il sec. XIV il brano della deposizione del prete Salomone da
Bescapè in n. 35[i].
(3^ Cq4. Della Croce, XII, ce. 33-41. Il monaco Giovanni Piatto depose
che avev^ veduto i cimiliarchi succedutisi nella basilica « aperire altare illius
« ecclesie ad petitionem » dei singoli abbati, « tam prò mìssis celebrandis, quam
« prò ostendendo illud magnatibus in ilio monasterio ospitantibus, vel alio cuilibet
« extrarieò qui volebat illud videro ».
(4) Ibid., XII, ce. 165-174. Esame del canonico e cimiliarca GuifFredo:
« Int. quare ergo canonici recusant aperire.-altare quotiescumque d. abbas missam
« celebrai vel altare apcrire precipit per se vel per extraneos. R. quia non te-
« nentur ei per subiectionem, nec per beneficium, neque per donationem quam
a habeant monaci vel abbas super canonicis ».
(5) Ibid., XII, ce. 121-134. Esame di Stefano da Vigonzono: « Ab annis
« XI. infra cum essem in ipsa canonica venit illue quidam monachus dicens me
a presente et audiente: Episeopus Astensis venit in monasterio B. A. dicens se
« velie videre altare domini B, A. quare ei altare apertura fuit a presbitero
a Burro, et altare presente episcopo Astense vidi apertum. Item ab annis II infra
« (l'esame ebbe luogo il 2 dicembre 1200) vidi homines de Papia compeditos
68 GEROLAMO BISCARO
cesso del 1332-1337 il prete Salomone da Bescapè riferì che l'altare
era stato aperto per l'incoronazione dell'imperatore Lodovico il
bavaro e per le nozze di Azzone Visconti con « domina Chatel-
u lina " (i).
L'accenno alle chiavi dell'altare nella scrittura dei canonici,
del 1144, e le questioni sul diritto alla sua apertura dal 1147 in
poi dimostrano che, da tempo immemorabile, prima del 1144, intorno
ai quattro lati del palliotto doveva esservi un assito od altro ro-
busto riparo munito di parecchie serrature, che normalmente si
teneva chiuso per ragioni di sicurezza, e si apriva solo nelle grandi
solennità o quando piaceva ai canonici aderire alla richiesta di
chi desiderava ammirare quel meraviglioso tesoro e venerare
le sacre reliquie attraverso le portelle dello specchio posteriore.
Intorno a questo assito furono interrogati quasi tutti i testimoni
dei canonici nel 1200-1 201. Si domandò a che cosa servissero
certe « postes seu absides circa altare »; la risposta fu una sola:
« venire in eandem canonicam dicentes canonicis ut sibi hostenderent altare B.
« A. — altare tunc ipsis prexoneriis apertum fuit per presbiterum Burrum. Et
« eodem modo ab annis II infra apertum fuit hominibus de Venetiis, et multas
<( alias personas vidi in canonicam ipsam venire exorantes canonicos ut sibi altare
« apenant ».
(i) Cod. Della Croce, XXIII, sub a. 1337. Esame di prete Salomone (5 settembre
1337): « Et ego testis fui ad divina officia cum ordinariis et ofdcialibus Mediolani —
« etiam quando imperator Lodovicus fuit unctus et incoronatus apud illud altare
« et vidi ipsum imperatorem ungi et incoronari, et ego testis tenebam chrismam
« de qua ille "imperator fuit unctus, qui fuit unctus per unum teotonicum qui
« erat episcopus, nomen cuius ignoro et coronatus per unum ex illis episcopis
« qui erant ibi, quem non habeo menti quis foret. — Et recordor quod quando
« dominus Azo dominus Mediolani duxit in uxorem suam dominam Chatellinam
« quam vidi quod dictus d. Azo sponsavit ad dictum altare, ad quod tunc eram
« praesens, vidi quod canonici S. A. portaverunt claves ad dictum altare ubi
« ad dictum altare ubi aderant praesentes multi ex canonicis et dominus Lu-
ce chinus Vicecomes et aliis de quorum nominibus non recordor, et aperierunt
e cum ipsis clavibus dictum altare, et postea vidi quod primicerius lectorum
« cantavit missam super ipsum altare et ego testis ut diaconus cantavi evan-
« gelium ». — Intorno all'incoronazione di Lodovico il bavaro veggasi in questo
Archivio, XXVIII, 1901, p. 308, una erudita recensione del prof. G. Calligaris
sopra uno studio del dott. G. Gerola. Sulle nozze di Azzone Visconti con Cate-
rina di Savoia celebrate nel 1333, veggansi Azakio, Chron., in Muratori, R. L 5.,
XVI, 313, e CoRio, op. cit., ad a. 1333.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 69
« prò custodia altaris » (i). Nella bolla di Innocenzo IV del 23
gennaio 1250 che delegava l'abbate di S. Simpliciano, Tazone Man-
dello, a conoscere una questione sorta fra il monastero e la ca-
nonica per l'apertura dell'altare, si legge che l'altare stava « sub
« quibusdam tabulis clausum »» (2). Ne parlarono con maggior
precisione i testimoni nel processo del 1332-1337. Nelle posizioni
della canonica si deduceva: che le « postes » dell'altare erano da
tempo immemorabile in parte d'oro e in parte d'argento dorato, le
une e le altre adorne di gemme e di pietre preziose; che l'altare
si considerava di maggior valore di ogni altro in tutta la cristia-
nità; che per la sua ricchezza, magnificenza e valore si soleva te-
nerlo chiuso « sub quibusdam postibus ligneis cum certis clausuris
«ferreis»; e che spettava al cimiliarca di custodire le chiavi delle
« postes n lignee e di aprirle a beneplacito del preposto e dei canonici,
e, solo in talune feste solenni dell'anno, a richiesta dell'abbate (3).
I testimoni confermarono in ogni parte queste posizioni. Prete Sa-
lomone attestò di avere osservato molte volte da vicino il palliotto
che conteneva più di ottanta fra gemme e pietre preziose, e che
d'ordinario stava chiuso sotto le tavole di legno (4).
11 silenzio del monastero fino a tutto il sec. XII intorno al
modo col quale i canonici avevano provveduto alla custodia del-
l'altare e della chiesa, fa pensare che non si fossero verificati gravi
inconvenienti per colpa del cimiliarca e dei custodi destinati alla
sorveglianza diurna e notturna della basilica; diversamente i mo-
naci non avrebbero mancato di trarne pretesto per le loro riven-
dicazioni. L'assito assicurato da ferree chiusure aveva fatto fino
allora ottima prova, di fronte così ai ladri di fuori come ai custodi
di dubbia fede, pei quali le grandi lastre d'oro e le gemme avranno
sempre esercitato un fascino assai pericoloso; ed il pallio aveva
potuto attraversare incolume, insieme alle sottoposte reliquie, il
funesto periodo della distruzione e del saccheggio della città.
(i) Cod. Della Croce, XII. Esami dei canonici Burro, Prevosto, Prevosto
« de Osenago », Guiffredo, ecc.
(2) Arch. dipi, perg. S. Ambi:, fascio n. 109. La bolla di Innocenzo IV,
trovasi inserita in un precetto dell'abbate di S. Simpliciano al preposto e ai ca-
nonici.
(5) Cod. Della Croce, XXN, sub a. 1354.
(4) Ibid., XXIII, sub a. 1337.
«yO GEROLAMO BISCARO
È già Stato osservato che il pallio d'oro presenta tracce evi-
denti della sostituzione di alcune lastre alle originarie che, a giudi-
care dallo stile degli ornati e dalla composizione dei quadri, do-
vrebbe essere stata effettuata sulla fine del cinquecento (i). D'onde
il sospetto di qualche furto commesso verso quel tempo. Di re-
cente il dott. A. Ratti ha stabilita la verità di questa induzione,
pubblicando la minuta di una petizione che il capitolo dei cano-
nici voleva presentare alla regina Margherita d'Austria, trattenutasi
a Milano dal novembre 1598 al febbraio 1599; dalla quale petizione
si apprende che il pallio prezioso era stato o stava per essere ac-
comodato colla spesa di mille scudi d'oro, colmando il vuoto la-
sciatovi dieci anni prima « da scelerate e sacrileghe mani sin bora
« incognite » (2). Le nostre ricerche ci hanno condotto ad accer-
tare oltre alle circostanze nelle quali quel furto fu perpetrato, altre
due manomissioni del palliotto, di data molto più antica.
Il giorno 8 marzo 1235 Giacomo Descazio, già custode della
basilica (3), confessava avanti un notaio e alcuni testimoni di avere
sottratto dell'oro dall'altare. A titolo di indennizzo faceva cessione
al preposto della canonica, Ambrogio Boffa, di una sua casa « in
« contrata Sancti Petri supra dorsum », vicino alla chiesa di San
Francesco. Interveniva nell'istromento di cessione Agnese, « amasia »>
di Giacomo, per rinunciare ad ogni suo diritto sullo stabile (4). Non
pare dubbio che l'oro strappato dall'altare consistesse in qualche la-
stra del palliotto e che Giacomo Descazio avesse approfittato per
impadronirsene della sua qualità di custode della chiesa e dell'al-
tare. Per isfuggire le terribili conseguenze di una accusa penale,
egli fece sacrifizio della piccola casa ove teneva la propria con-
cubina. A questo guasto, forse il primo, che dopo quasi vent'anni
non era ancora stato riparato, è probabile si riferisse la querela
portata dal monastero contro la canonica nel 1254 per la « cor-
« ruptio sive devastatio que est in altare sancti Ambrosii » (5).
(i) A. VhNTURi, Storia dell'arte itaì., II, pp. 235, 238, ecc. e M. Zimmer-
,MANN, Oberitalische plasttk,,ecc., 1897, p. 186.
(2) Per la storia del palliotto d'oro^ in Rassegna d'arte, 1902, p. 185.
{3) Si hanno notizie di lui quale custode della canonica nel 1230 e 1232,
in Cod. Della Croce, XV, e. 223 e XVI, e. 11.
(4) Veggasi doc. I.
(5) Cod. Della Croce, XVII, sub a. 1254. Sentenza dell'arcivescovo Leone
pronunciata l'ii settembre 1254.
r
NOTE E DOCUMENTI S \NTAMBROSIANI 7I
Nelle posizioni il monastero deduceva che il guasto si era verificato,
mentre l'altare si trovava in custodia dei canonici (i). Costoro ri-
spondevano, protestando che non erano in colpa, e che il danno
era piuttosto da ascriversi a negligenza dell'abbate e dei monaci;
ammettevano però che vi era di mezzo il fatto dell'uomo, che è
quanto dire che il danno proveniva da delitto (2). Da quel poco
che si può rilevare dal libello e dalle posizioni, parrebbe che i
canonici avessero tenuta segreta la confessione del loro ex custode,
per non dovere rispondere civilmente del suo delitto; sebbene da
quasi un ventennio fossero al possesso dello stabile loro ceduto
dal Descazio, a titolo appunto di indennizzo. Non sarebbe tuttavia
da escludere la ipotesi che nel 1254 si alludesse ad un nuovo
guasto, posteriore a quello del 1235, che poteva essere già stato ri-
parato; di ciò si avrebbe un indizio nel difetto di qualsiasi accenno alle
condizioni materiali dell'altare, nel libello e nelle posizioni del 1250.
Ignoriamo a spese di chi e quanto tempo dopo la fine del processo
del 1254 l'altare sia stato riparato. Nella sentenza proferita il io
settembre di quest'anno, l'arcivescovo Leone da Perego si era ri-
servato di deliberare dopo più maturo esame, sulla questione « de
ii altari S. Ambrosi! et pulpito restaurandis, que devastata vel
*( corrupta dicuntur, per quos vel quem debeant restaurari » (3);
ma non consta se e come egli abbia poi risolto questo punto di
controversia.
Intorno ad una seconda opera costruita per la custodia e la
protezione dell'altare si ha una serie di documenti degli anni 1292
e 1293 (4)' Con un primo atto del maggio 1292, presente un vi-
cario dell'arcivescovo Ottone Visconti, il priore dei predicatori di
(i) Arch. dipi., perg. S. Amhr., fascio n. 107: « Ponit magister de Vi-
<( glevano sindicus d. abbatis, ecc., in causa appellationis centra prepositum et
« canonicos, qcc. Item quod corruptio sive devastatio que est in pulpito et in
« altari S. Ambrosii facta est ipsis altari et pulpito existentibus in custodia pre-
« positi et canonicorum seu nuaciorum suorum; item quod illa corruptio sive
« devastatio facta est per alium vel alios quam per abbatem et monacos; item
« quod illa corruptio sive devastatio opere hominis facta est ».
(2) Ibid. In margine a ciascuna posizione vi è la risposta. Sulla i.* « credit
« sed non culpa prepositi et canonicorum » ; sulla 2.* a credit quod per culpam
« vel neligenciam abbatis et monacorum »; sulla 3.* « credit ».
(3) Cod. Della Croce, XVII, sub a. 1254.
(4) Ibid., XX, sub a. 1292 e 1293.
72
GEROLAMO BISCARO
S. Eustorgio, il celebre frate Stefanardo da Vimercate, il guardiano
dei minori di S. Francesco, frate Protaso Calmi, di concerto con
frate Giacomo, converso del monastero di Chiaravalle, e con due
maestri dell'arte dei ferrai, Pietro Correrlo e Torello, stabilirono
il modo di costruzione di una « crates ferrea » od inferriata, da
impiantarsi nella basilica « ad conservationem altaris ». L'infer-
riata si doveva disporre sopra il terzo gradino davanti l'altare per
tutta la larghezza del coro sotto il tiburio, fra le due colonne di
mezzo; due robuste spranghe a guisa di ramponi, assicurate alla
parete di sopralzo della cripta, erano destinate a rafforzare la so-
lidità della chiusura, affinchè non avesse a cedere agli urti « propter
li presuram gentium ». Dinanzi all'altare una porta a due « clapes >^
(sic) od imposte, larga quant'è lo spazio fra le colonne del ciborio,,
con due chiavi, una per i monaci e l'altra per i canonici, serviva
per accedere all'altare.
L'atto non dice in base a quali decisioni dell'autorità eccle-
siastica competente, l'arcivescovo Ottone, si siano prese le suddette
disposizioni. Si comprende però che l'arcivescovo, lasciando da
parte i due capitoli che sarebbe stato difficile ridurre ad un accordo,,
aveva deferito ad una commissione di religiosi e di maestri del-
l'arte l'incarico di concretare i provvedimenti per la costruzione
di una cancellata in difesa dell'altare. Tuttavia dal monastero
non si lasciò passare l'occasione senza battagliare un po'; tanto
per non perdere l'abitudine del litigio. Ma avendo i monaci ten-
tato di impedire con vie di fatto ai due maestri Pietro Correrlo e
Tomaso da Vaprio di piantare l'inferriata, suscitando contro di essi
perfino gli anziani del loro paratico, fu intimato ai monaci un
severo monitorio con minaccia di scomunica. Intervenne pure il
vicario di Matteo Visconti, capitano del popolo, in difesa dei due
maestri, che poterono così compiere il loro lavoro. Collo stesso
atto del maggio 1292 si provvide a portare maggior luce all'altare,
rendendo più ampia la finestra di mezzo della « truina » (abside),
che doveva essere rimasta dimezzata in seguito alla costruzione
della cripta, e a rinforzare le inferriate di quella e delle altre
due finestre laterali. È possibile che in questa occasione si sia
distrutta la parte centrale della zona inferiore del mosaico che
conteneva, come si ritiene, un'iscrizione; ma è più probabile che
il guasto maggiore dati dal 1507, quando il coro fu trasportato
NOTE E DOCUMANTI SANTAMBROSIANI ^ 73
dalla campata del tiburio, nell'abside (i). L'arco scemo che la fi-
nestra di mezzo presentava ai tempi del Puricelli (2) indicherebbe
ch'era stata modificata nella forma e fors' anco ampliata una se-
conda volta.
Dalle testimonianze del 1337 emerge che l'altare era stato og-
getto di un nuovo attentato. Brunasio da Manziago, notaio della
curia arcivescovile, attestò che un giorno il custode Arnaldo Della
Chiesa gli aveva mostrato certe figure scolpite « in dicto altari de
« antea in sinistro latere », deteriorate. I ladri avevano tentato di
rubare Targento dell'altare, guastando così quelle figure; ma non
essendo riusciti ad uscire di chiesa, erano stati scoperti (3). Le
parole del teste lasciano qualche incertezza intorno a quale dei tre
specchi d'argento dorato che coprono la parete posteriore e le due
laterali dell'altare, egli abbia alluso; se alla parete posteriore che
sarebbe meglio indicata dall'accenno alle figure scolpite che i ladri
avevano guastate, mentre la frase « de antea » potrebbe spiegarsi
per l'antica consuetudine di celebrare colla faccia rivolta ad occi-
dente verso il popolo; ovvero se alla parete laterale sinistra « in
a sinistro latere ». Crediamo più probabile questa seconda inter-
pretazione, perchè in altri punti delle stesse testimonianze si qua-
lifica come « postes de antea » quella d'oro (4). Se così è, le figure
scolpite, che il teste vide danneggiate, sarebbero i quattro busti di
santi nei clipei dello specchio di sinistra, o le dodici figure di an-
geli in rilievo negli spazi geometrici formati dalle divisioni di quello
specchio. Un altro teste, prete Salomone da Bescapè, chiarì che
(i) Puricelli, Dissert. Na^ar., p, 630.
(2) Veggasi il disegno del mosaico dell'abside in Puricelli, Mon. Bas.
Amhr., p. 134.
(3) Cod. Della Croce, XXIII, sub a. 1337. Esame del teste Bennasio da
Manziago : « Ego testis vidi per plures vices dictum altare B. A. et una vice qua
« dictus Arnoldus ipsum aperuit, ostendit mihi certas figuras scultas in dicto al-
« tari de antea versus manum sinistram seu in sinistro latere positas dampnifi-
« catas, que dicebat esse latrones qui voluerunt furari argentum et ornamentum
« de altari predicto, et audiebam ipsum Arnoldum dicere quod illi latrones fue-
« runt ad ipsum altare et quod illud devastaverunt ibi, sed quod non potuerunt
(( exire dictam ecclesiam, donec fuerunt inventi ».
(4) Ibid. Esame di prete Salomone: « lUam postem que est de ante ipsum
« altare vidi esse auream et dico quod vidi intus ipsam postem de antea ima-
« gincs sanctorum videlicet Christum in magistate, etc. ».
74
GEROLAMO BISCARO
appunto in causa di quell'audace tentativo di spogliazione dell'al-
tare era sorta Tidea nel legato pontificio Pietro de Peragrossis di
provvedere in modo più sicuro alla custodia di esso coli' impianto
di una robusta cancellata in ferro che doveva proteggerlo dai colpi
di mano dei ladri di professione; prima di allora dinanzi l'altare
non vi erano altri ripari oltre il noto assito, (i).
Sebbene nel 1292 si fosse disposto che ciascuno dei due capitoli
avrebbe avuto una chiave della cancellata, ai monaci non fu dato
di possederla e continuarono anche nei secoli successivi, con loro
grande dispetto, a dipendere dai canonici per potere accedere all'al-
tare. Tentarono bensì nel 1332 con un deplorevole sotterfugio, di
emanciparsi da questa servitù (2); ma la cosa non ebbe seguito, e la
chiave rimase presso i canonici fino alla concordia del 1630 (3).
11 Puricelli narrava nel 1645 che, tre anni prima, era stata sostituita
una nuova cancellata a quella che prima esisteva, e ch'egli descrive
indicando che aveva le aste di ferro infisse al basso e all'alto in
lastre di marmo, formanti zoccolo e cornice (4). Questa descrizione
dimostra che la « crates prealta et firmissima », rimossa nel 1642,
non era l'inferriata del 1292, ma una specie di tramezza con can-
celli che probabilmente datava da poco più di un secolo.
Mentre esisteva questa seconda chiusura, fu commesso il furto
al quale si riferisce il documento pubblicato dal dottor Ratti. Del
furto si occupano a lungo le scritture del 1592; quelle del mona-
stero per attribuirne la responsabilità ai canonici, e quelle della
canonica per scagionarli. Il furto era stato perpetrato di notte tempo.
Il ladro, persona pratica del luogo, entrato nel recinto dell'altare,
« inter binas crates et parietes », aveva strappato alcune lastre del
pallio d'oro e ne era uscito col bottino. Si sospettò subito l'autore
fra i custodi della basilica che soli avevano le chiavi per entrare
(i) Cod. Della Croce : a Bene recorder quod antequam illae crates ferreae forent
« voluit devastar! dictum altari, secundum quod audivi tunc dici, et d. Petrus de Pe-
« ragrossis qui tunc erat cardinalis apostolicae sedis sive vicecancellarius scivit et
« tunc ipse d. Petrus fecit fieri illas crates sicut dicebatur. Et ego vidi fieri illas
« crates ibi et de antea ubi modo suut illae crates non erat aliquid ».
(2) Ibid. Esame di Brunasio da Manziago.
(3) Puricelli, Moti. B. Amhr. La « concordia » è inserita nel testo del
diploma di Urbano Vili: Gregis Domini cura.
(4)- Ibid., p. 125.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 75
nel recinto, e che anche senza le chiavi avevano modo di pene-
trarvi lasciandosi cadere con una fune dalla finestra del locale a
sinistra dell'abside, ove riposavano durante la notte (i). I canonici
obbiettavano ch'essi avevano avuto sempre custodi di specchiata
onestà, dimenticando, si comprende, le gesta del custode Descazio;
con pari ragione, dicevano, si sarebbe potuto sospettare dei famigli
dei monaci, che potevano entrare nella basilica per le porte comu-
nicanti col monastero e per la finestra di un altro locale a destra
dell'abside, prospiciente sopra il recinto dell'altare. Ma avvenne
che mentre così discutevano, un custode della basilica, a nome Ce-
sare, scappò da Milano, portando via alcuni paramenti della basi-
lica. Riparò a Roma, ove pare commettesse altri furti sacrileghi,
per i quali venne condannato alla galera. Non ci voleva di più
perchè sorgessero i monaci ad accusare l'ex-custode, quale autore
del furto del palliotto. Fecero pratiche a Roma, perchè prima di
mandarlo ad espiare la pena, lo si ponesse alla corda e lo si esa-
minasse con diligenza e rigore intorno al furto dell'altare, ma si
trovarono sbarrata la via dai canonici, i quali, sollevando un con-
flitto di giurisdizione, tanto seppero destreggiarsi che riuscirono
ad impedire che il loro ex-dipendente fosse sottoposto all'esame
desiderato dai monaci. Così le cose venivano narrate dai patroni
del monastero, che si spingevano fino ad insinuare il sospetto della
partecipazione dei canonici o di alcuni di essi nel furto; tanto sem-
brava eccessivo il loro arrabattarsi per impedire che si facesse la
luce. A parte l'accusa di complicità, che pare fosse del tutto gra-
tuita, mentre l' interesse dei canonici a che non si chiarissero i so-
spetti a carico dell'ex-custode, può spiegarsi per il timore di dovere,
una volta accertata la sua reità, rispondere del danno colla propria
borsa, le circostanze di fatto poste in rilievo a carico del fuggiasco
dal patrono dei monaci, furono dai canonici sostanzialmente am-
messe; pur negando che si potesse indurne la prova della sua col-
pevolezza. Non conosciamo il testo della sentenza proferita nella
causa del 1592. Ma la petizione predisposta dai canonici fra il 1598
e il 1599 per la regina Margherita, lascia comprendere ch'erano
(i) Fondo di Religione, Capitoli S. Ambrogio, busta 115. Atti della causa
fra i monaci e i canonici per l'uso degli abiti pontificali, e per il dominio della
chiesa; « allegationes iuris » presentate dal sindaco del monastero nel febbraio
e lugli) 1592, e dai sindaci della canonica nel marzo dello stesso anno.
76 GEROLAMO DISCARO
stati condannati a rimettere le parti mancanti. Ed essi vi provvi-
dero, battendo a destra e a sinistra per raccogliere la cospicua
somma di mille scudi d'oro, indicata nella petizione come necessaria
per il restauro.
Abbiamo trovato una « memoria delle cose che bisognano di
« necessità per servitio della chiesa di S. Ambrogio », che dalla
scrittura si può con certezza attribuire alla fine del sec. XVI o
ai primi anni del successivo (i). Fra le spese necessarie vi è in-
dicata quella di « raccomodare l'altare d'oro nella parte che resta
« guasto e specialmente li ornamenti che mancano quasi tutti in-
u torno alle piastre d'oro della parte stanca (sinistra) ». La parte
che u resta guasta », doveva essere quella delle due o tre piastre
all'angolo superiore di destra coi quadretti della Risurrezione, del-
l'Ascensione e dalla Pentecoste, che si riconoscono opera di mo-
derno artefice.
Molte notizie sull'altare e sulla sua custodia si hanno anche
negli atti della visita pastorale del 1603 (2). L'altare, opera pre-
ziosa di « Angilberto primo Posteria », si custodiva medianti ta-
vole ben ferme e solide, munite di otto chiavi, delle quali quattro
custodite dal preposto e quattro dal canonico più anziano, chiamato
anche il cimiliarca o sagrista. Per il passato usavasi aprirlo nelle
maggiori solennità; ma ciò non si praticava più dopo che negli anni
precedenti, spezzate le assi, una mano sacrilega aveva sottratte
alcune lastre d'oro. L'altare era rimasto per molti anni invisibile
ai fedeli; finché « la magnifica comunità di Milano " aveva elar-
gito duecento scudi d'oro, coi quali era stato possibile eseguire
(i) Fondo di Relig., busta 120.
(2) Ibid., busta 120: « Clauditur dictum altare octo clavibus Inter se di-
« versis, appositis tabulatis bene firmis et tutis; claves autem ipsae steterunt
« semper et modo etiam sunt in potestate canonicorum et asservantur quatuor
« scilicet a praeposito et reliquae quatuor a canonico antiquiori qui cimiliarca
« dicitur. In maioribus solemnitatibus consueverat altare aperiri, sed hoc tempore
« non fit quia annis praeteritis fractis assidibus anteriori parte nonnullae laminae
« auri sacrilega manu ablatae fuerunt et postquam per multos annos apertum non
« fuit, tandem magnificas comunitas Mediolani canonicorum rogatu ducentum
« aursos nummos elargita est, quibus satis instauratum fuit, sed nondum pcrfecte
«et penes canonicorum sagristiam adhuc remanent aliqua fragmenta auii et ar-
ce genti, et lapilli in hunc usu adhibendi, si de hoc ageretur cum communitate
« forte suppleret ad operis perfectionem ».
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 77
un discreto ristauro. Ma il lavoro non era ancora compiuto e ri-
manevano nella sagrestia dei canonici alcuni frammenti d'oro e
d'argento e delle pietre preziose da porre in opera, qualora la co-
munità si fosse prestata a fare una seconda elargizione. Dobbiamo
credere che negli anni successivi, forse in seguito alle disposi-
zioni date dal visitatore del 1603 e ad un nuovo sussidio offerto
dalla rappresentanza cittadina, siasi finalmente compiuto il ristauro;
perchè nel processo definito colla concordia del settembre 1630 non
si fa più parola delle condizioni dell'altare (i).
I testi, che abbiamo fin qui esaminati, non oftrono sicuri ele-
menti per determinare la data approssimativa della costruzione del
pallio quadrifronte e della copertura del ciborio nella loro forma
attuale. Pure ammettendo, come riteniamo fermamente, la falsità
intrinseca del diploma di Angilberto, è indubitato che quell'arci-
vescovo ebbe ad offrire in onore del titolare del tempio un altare
prezioso per le lamine d'oro e d'argento e per le gemme ond'era
adorno; ce ne fanno fede l'iscrizione poetica lungo la cornice dello
specchio posteriore, il tondo coli' immagine di Angilberto in atto
di presentare a S. Ambrogio l'altare, e la tradizione costante, della
quale si facevano eco i patroni dei due cleri nelle « allegationes »
del 1144, e quelli dei canonici nelle scritture del 1200. Soltanto
negli atti della visita pastorale di S. Carlo si fa il nome di un ar-
civescovo Anselmo, alludendo forse ad Anselmo (IV) Pusterla
{1126-1135). Si equivocò certamente con Angilberto (II), che alcuni
cronisti di epoca assai tarda, seguendo qualche leggenda formatasi
per piaggiare una delle famiglie più illustri della città, avevano
attribuito alla agnazione dei Pusterla.
Si sostiene da parecchi scrittori (2) che il palliotto nelle sue
parti principali presenta caratteri affatto difformi dagli elementi che
si riscontrano nelle opere di oreficeria e negli avori dell'epoca ca-
rolingia, più consoni invece alle opere del sec. XII. Se così fosse
in realtà, converrebbe ammettere che l'altare sia stato rifatto a
nuovo, fondendo le antiche lamine e adoperando le pietre preziose
(i) Fondo di Relig., Capitoli, S, Ambr., busta uy. Memorie del monastero
e della canonica presentate ai cardinali e agli altri prelati a concordiam trac-
" tantes ».
(2) Attribuiscono il palliotto al sec. XII lo Zimmermann, il Kondakow e
D. Sant'Ambrogio; non si scostano dalla tradizione L. Beltrami ed A. Venturi.
'^S GEROLAMO DISCARO
del pallio di Angilberto. Si sarebbe ripetuto il carme e il tondo
colla immagine e il nome del pio presule, considerando che la
preziosità del dono consisteva più che tutto nel valore del metallo
e delle gemme da lui offerte. Si è anche tentato di sottilizzare sul
significato della iscrizione, col leggervi un implicito accenno al ri-
facimento del dono di Angilberto per opera di un suo successore.
Ma se è vero che quasi due versi interi del carme, compreso il
nome di Angilberto, sono scritti con caratteri rozzi e scorretti che
rivelano un parziale ristauro dell'orlo inferiore di quello specchio,
non per questo si ha motivo di dubitare che le parole originarie,
scomparse forse in una delle tre manomissioni delle quali si è di-
scorso superiormente, non fossero conformi a quelle che ora si
leggono, trovando le parole stesse perfetta corrispondenza colla
rappresentazione dell'arcivescovo Angilberto in atto di offrire l'al-
tare al titolare della basilica. Ed è d'altronde abbastanza comune
che il donatore parli, nella dedica, di sé stesso in terza persona,
ed accenni alla dignità della quale era investito (i).
Parrebbe invece che se l'altare fosse stato rifatto totalmente a
cura e a spese di un successore di Angilberto, pur ripetendosi
l'antico carme e riproducendosi il tondo coli' immagine e il nome
di Angilberto, non si sarebbe mancato di segnarvi anche il nome
del nuovo donatore. La spesa per il completo rifacimento di un'o-
pera, che richiedeva un lavoro lungo, minuto e difficile, sarebbe
stata di tale entità da giustificare il ricordo almeno del nome, se
non anche della effigie dell'oblatore. Lo stesso dovrebbe dirsi, e a
maggiore ragione, dell'artefice. La posizione che è fatta nel pal-
liotto a « Wólvinius magister phaber », sulla stessa linea e nelle
medesime proporzioni dell'arcivescovo Angilberto, sta ad indicare
in Volvinio l'autore dell'altare, quale fu offerto da Angilberto nella
prima metà del sec. IX. Data l'ipotesi di un totale rifacimento,
non si comprende per quale motivo si sarebbero ripetuti il nome
(i) Si possono consultare anche per l'analogia collo stile e coi concetti del
carme di Angilberto alcune poesie di Alcuino e di Sedulio Scoto in Dùmmlep,
Poetag latini aevi caroL, I e III; in particolare un'iscrizione del primo In ec-
clesia S. Vedasti (I, p. 308), ed una dedica « de quodam altari », del secondo
(IH, p. 210). Veggansi anche di Sedulio, versus qui descritti sunt in calice d'oro,
che Angilberto aveva fatto rifare, accrescendone il pregio con grosse gemme
(III, p. 237).
NOTE E DOCUMEiNTI SANTAMBROSIANI 79
e la effigie di un artista, la cui opera era andata a finire nel fondo
del crogiuolo, anziché dell'artefice del nuovo altare che, intrinseco
a parte, quanto alla forma e alla decorazione poteva avere assai
poco di comune coU'altare di tre o quattro secoli prima.
Si è detto che l'altare non può essere anteriore al sec. XII.
Ma in contrario noi troviamo che proprio verso la metà di quel
secolo, nel 1144, il monastero affermava che Angilberto era « pre-
« fati mirifici operis constructor » ; e la canonica, contestando l'au-
tenticità del diploma e l'affermazione del monastero che « claves
« aurei altaris ac potestatem monachis ab eiusdem constructore
« fuisse traditam », non metteva però in dubbio che l'altare fosse
stato offerto da Angilberto. Non una parola, neppure nelle succes-
sive scritture dei canonici del 1200-1201, intorno ad un secondo
costruttore o rifacitore del pallio o a nuove disposizioni impartite
circa le chiavi e il possesso dell'altare. Nel 1147 si litiga sull'aper-
tura dell'altare, del quale le chiavi continuavano ad essere presso
il cimiliarca. Neppure allora si dice che l'altare fosse nuovo o ri-
fatto; si accenna per contrario ad antiche consuetudini sulla sua
apertura, ch'erano state sempre osservate. Nel 1200-1201 si discute
di nuovo e più a lungo sulla stessa questione. I testimoni del mo-
nastero vengono interrogati con grande diligenza sulle circostanze
nelle quali avevano visto il cimiliarca e i custodi della canonica
aprire l'altare a richiesta del monastero; risalendo taluno fra i più
vecchi fino ai tempi del preposto Martino Corbo ([132-1152) e del-
l'abbate Guiffredo (1139-1148), e passando, in rassegna tutti i cimi-
liarchi, gli abbati e i preposti succedutisi per oltre mezzo secolo.
Nessuno dei numerosi testimoni disse o lasciò comprendere che
in quell'intervallo di tempo vi fosse stata altra interruzione nella
consuetudinaria apertura dell'altare, oltre quella del periodo del-
l'esiglio dei milanesi (1162-1167). Qualche importanza offre pure la
posizione dei canonici nel processo del 1332-1337, che le « postes n
dell'altare, quali allora si ammiravano, « partim argentee deaurate,
a partim totaliter auree », vi si trovavano da tempo immemorabile ;
perchè se fossero state rifatte appena un secolo e mezzo innanzi,
non si sarebbe forse mancato di farne cenno. Se non proprio nella
posizione, se ne troverebbe traccia almeno negli esami dei testi, i
quali si sono dilungati a descrivere e magnificare la ricchezza del-
l'altare e a raffrontarlo con quello di S. Tommaso « de Conturbia »,
80 GEROLAMO BISCARO
che da alcuni si riteneva il più splendido di tutti gli altari della
cristianità (i).
Le osservazioni dei competenti su alcuni elementi nella tec-
nica del palliotto propri di un'arte non anteriore alla metà del
sec. XII, possono avere un fondo di verità e riferirsi alle parti
rifatte o ristaurate in seguito alle due o tre manomissioni del se-
colo XIII, delle quali sin qui non si aveva alcuna notizia. Ma nel
disegno generale, nella distribuzione delle varie parti dei quattro
specchi, nei soggetti delle istorie e nei tondi colle immagini del-
l'arcivescovo, dell'artefice e dei due arcangeli Michele e Gabriele,
il pallio dovrebbe essere ancora il « mirificum opus », costruito da
Volvinio e da Angilberto dedicato al santo tutelare della sua chiesa.
Questa la ipotesi che l'esame dei documenti ci fa apparire più ve-
rosimile.
Non meno grave è il problema rispetto al padiglione del ci-
borio e ai gruppi ed ornati in plastica dei quattro frontoni (2). Se
fra il 1194 e il 1196 crollò il tiburio, sia pure soltanto in parte, è
difficile ammettere che il sottoposto padiglione si sia salvato dalla
rovina. Si salvarono gli stalli del coro e 1' altare coperto dal ci-
borio e protetto da robuste tavole. I particolari riferiti dai testimoni
del 1200-1201 intorno alla rimozione degli stalli dopo la caduta par-
ziale della basilica e durante la sua ricostruzione, e alla loro ricollo-
cazione nello stesso spazio di prima, accertano che nessun danno
sensibile ebbero a soffrire (3). Ma la cosa si può per essi spiegare,
considerando che dovevano essere disposti lungo le arcate laterali
che resistettero. E d'uopo credere che abbia invece ceduto il grande
arco ad occidente, comune alla crociera del pulpito. Certamente l'al-
tare non deve avere sofferto grave danno. Se fra il 1194 e il 1200
si fosse rifatto in tutto od in parte il pallio quadrifronte, non avreb-
bero mancato di parlarne i testimoni, accennando al tempo, non
(i) Cod. Della Croce, XXIII, sub a. 1337: Esami di prete Bernardo degli
Ermenolfi, di Ambrogio Roano e di Brunasio da Manziago. — Si alludeva all'altare
della cappella dedicata nel 122 1 a S. Tommaso Becket in Canterbury, a cura di
Enrico III d' Inghilterra, che, come è noto, fu distrutta per ordine di Enrico VIII.
(2) Attribuiscono il padiglione e gli stucchi del ciborio al sec. IX Dartein,
Landriani, Beltrami, ecc.] ai secc. XI o XII Rohant de Fleury, Zimmermann,
Sant'Ambrogio, Venturi^ ecc.
(3) Ibid., XII, ce. 68-78, 78-87, 87-94. Esami dei monaci Martino e Guido,
-del chierico Ambrogio da S. Ambrogio e del converso Giovanni da S. Siro.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 8l
breve, data la mole e la qualità del lavoro, durante il quale la
consueta apertura dell'altare avrebbe dovuto rimanere sospesa (i).
Si può anzi dubitare se il periodo di cinque o sei anni, decorsi fra
il crollo della chiesa e l'esame dei testimoni, avrebbe bastato alla
bisogna.
Il ritardo nel definitivo ristauro del pulpito fino al tempo della
soprastanzia di Guglielmo de Pomo (1204-1212) indicherebbe che
non si ebbe grande premura di riparare in modo decoroso e stabile
i danni cagionati nell'interno del tempio dalla parziale rovina. Ri-
fatto il tiburio e la vicina crociera per iniziativa dell'arcivescovo
Oberto da Terzago, proseguita dal suo successore Filippo da Lam-
pugnano, il soprastante attese, prima di por mano al ristauro del-
l'ambone, che i due cleri fossero ridotti al silenzio nel grave litigio
allora in corso. Dalla sentenza del 24 novembre 120 1 del vescovo
di Vercelli e dell'abbate di Lucedio, si arriva fino al 1250 senza
che si abbiano notizie di altre controversie fra i due capitoli. Nel
periodo intermedio Guglielmo de Pomo o i suoi successori nel-
l'ufficio della soprastanzia avranno provveduto anche al rifacimento
della copertura del ciborio; come è probabile che abbiano nello
stesso periodo costrutta la cripta sotto l'abside (2).
Le figure dei due monaci benedettini neri nella fronte poste-
riore del ciborio, in atto di offrirne il modello a S. Ambrogio, in-
dicano abbastanza chiaramente che l'opera fu eseguita a spese del
monastero. La loro rappresentazione, che dovette apparire come
una segnalata concessione ai voti ardenti del monastero, non sa-
rebbe stata possibile nel secolo precedente ; quando le liti fra i
monaci e i canonici, questi ultimi quasi sempre spalleggiati dal-
l'arcivescovo, si succedevano l'una all'altra, lasciando appena qual-
che breve tregua. Nell'intervallo, lungi dall' iniziarsi rapporti di
(i) È frutto non d'altro che di equivoco l'attribuzione alla basilica di
S. Ambrogio della notizia che dà il Puricelli, Mon. Bas. Ambr., n. 629, intomo
alla consacrazione degli altari celebrata nel 11 96 dall'arcivescovo Oberto, mentre
dal testo stesso e più ancora dalla rubrica nell'indice risulta chiaramente che la
notizia si riferiva alla chiesa di Chiara valle.
(2) È noto che secondo il Corio, op. cit., ed. 1503, I, p. 401, la cripta
sarebbe stata costrutta a spese di alcuni suoi agnati, verso il 1230. Ma l'argomento
ch'egli adduce, della presenza nella cripta dello stemma Corio, non ci sembra
molto concludente. Lo stemma poteva avere carattere votivo, com' è delle insegne
che si vedono in alcune pitture dell'atrio.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXIf, Fase. V. 6
82 GEROLAMO BISCARO
mutua fiducia e cordialità^ d'ambo le parti si affilavano le armi per
nuove offese. Invece la lunga pace fra le due corporazioni dal 120 1
al 1250 permette di pensare che si sia veduto dai canonici e dal-
r&rcivescovo senza eccessivo sospetto inalberarsi i simboli del
monastero nel padiglione sopra l'altare; nella lusinga, quanto mai
fallace, che dopo le numerose sentenze pronunciate intorno al do-
minio € alla custodia della chiesa e dell'altare, non sarebbero state
possibili nuove contestazioni. Forse la concessione rappresentò il
compenso di servigi prestati dal monastero alla canonica o allo
stesso arcivescovo.
Ne ci sembra senza significato nella questione sull'età dell'at-
tuale copertura del ciborio, il silenzio dei monaci nelle « allega-
ci tiones » del 1144, intorno alla scena raffigurata nel frontone
posteriore. Poiché tutta la scrittura è diretta a dimostrare la premi-
nenza del monastero sulla canonica e il diritto dei monaci alla cu-
stodia della chiesa e dell'altare, e alle oblazioni, sembra evidente
che, se, in quell'epoca vi fosse stato sul frontone del ciborio il
gruppo dei due monaci prostrati innanzi a S. Ambrogio col modello
dello stesso ciborio nelle mani, non si sarebbe omesso dal diligente
ed accorto patrono del monastero di trarne argomento a prò' della
sua tesi. Sebbene ci manchino le scritture del monastero nei pro-
cessi del 1186-1191 e del 1200-1201, si può dalle scritture della
canonica, ove si espongono con somma diligenza gli antichi e i
nuovi argomenti del monastero, per confutarli, rilevare l'assoluto
difetto di qualsiasi allusione alle figure o ai simboli del ciborio.
Lo stesso dicasi delle lunghissime e particolareggiate deposizioni
dei testimoni escussi nel secondo processo; alcuni dei quali, inte-
ft^ssati in sommo grado nella controversia, perchè appartenenti al-
l'una o all'altra delle corporazioni rivali, ebbero modo di diffondersi
su tutte le circostanze di fatto che in via anche indiretta potevano
connettersi coi molteplici argomenti portati in campo a sostegno
delle rispettive rivendicazioni. Non una parola intorno al ciborio
in quegli esami, che nel codice Della Croce occupano oltre duecento
carte di fitta scrittura; all' infuori della frase « propter lignamen
« quod erat subter tevorium >% se è vero che colla parola « tevo-
u rìum » s'intese significare il ciborio, e non il tiburio, nel qual
caso è probabile si alludesse a lavori in corso per portare l'aitare
alla maggiore altezza resa necessaria dal piano piti elevato asse-
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 83
gnato al presbiterio nella rifabbrica della basilica (i). Non è che
nel 1592 (2) e di poi, dal Puricelli (3) e dall' Aresi (4), alla distanza
di più secoli, che se ne parla diflfusamente, sostenendo che il mo-
naco col modello del ciborio è l'abbate Gaudenzio, il quale, avendo
nel 835 ricevuto da Angilberto in consegna il prezioso altare, volle,
a maggior decoro del servizio divino, coprire l'altare stesso di un
ricco padiglione sorretto dalle quattro colonne di porfido. Ma le
fonti sono troppo tarde e troppo parziali, perchè si possa attribuire
valore al racconto.
Chiudiamo le notizie sull'altare e sulla sua custodia con un voto;
che la fedeltà delle persone alle quali è commessa la sorveglianza
della basilica ^ del suo inestimabile tesoro, abbia in avvenire a con-
servarsi così forte e tetragona agli stiraoli della « auri sacra fames »,
come per il passato si sono sempre dimostrate salde e resistenti
di fronte ai u fures extrinseci » le robuste inferriate delle finestre
le serrature delle porte e le grosse cancellate che cingevano l'altare.
in.
Gli stalli del coro.
Uno degli argomenti portati in campo dai monaci del secolo XII,
per giustificare le loro pretese al dominio della basilica, era l'esi-
stenza, da tempo immemorabile, del coro avanti l'altare, cogli stalli
costruiti e mantenuti a loro spese e a loro uso esclusivo. Fino dai
primi anni di quel secolo il coro doveva avere la stessa posizione
che conservò fino al 1507, lungo le due linee oggi segnate dall'at-
tacco della navata mediana coll'abside fino ai due pilastri del tiburio
verso occidente. Landolfo da San Paolo narra che nel 1103, quando
prete Liprando accusò di simonia l'arcivescovo Grossolano, questi
entrò nella chiesa di S. Ambrogio portando la croce, e salì il pul-
(i) Trattandosi di semplici lavori di muratura, si può ammettre che ab-
biano avuto breve durata, tale da non portare una rimarchevole interruzione
nella consuetudinaria apertura dell'altare.
(2) Fondo di >Relig., Capitoli S. Amhr.^ busta 115.
(3) Mon. Bas. Amhr., n. 62.
(4) Ahhatum S. Amhr. Series, Milano, 1674, p. 3.
84 GEROLAMO BISCARO
pito con Arialdo da Melegnano, suo grande fautore, e Berardo,
giudice di Asti; Liprando prese posizione di fronte a Grossolano,
stando a piedi nudi « in introitu chori >', sopra la pietra marmorea
raffigurante un simulacro di Ercole. Ne seguì fra i due una disputa
violentissima, finché il popolo, infuriato, li interruppe gridando:
il exite foras, ad iudicium! (i) ». La posizione presa da prete Li-
prando all'ingresso del coro, per rispondere a Grossolano, denota
che r ingresso del coro era allora, come rimase di poi fino al 1507,
a pochi passi dall'ambone.
Intorno agli stalli vi è una prima notizia nelle « allegationes w
dei monaci del 1144; ove si legge che nessun uomo sano di mente
ignorava che i sedili del coro appartenevano all'abbate e al mona-
stero. Si è già accennato che nel processo del 1200- 1201 i testimoni
furono interrogati a lungo sulla costruzione e manutenzione degli
stalli. Nelle posizioni del monastero vi era un capitolo per provare
che nel coro i canonici non tenevano né sedili né leggìo né lam-
pade, e che da oltre mezzo secolo non avevano mai usato sedere
negli stalli dei monaci od in altro luogo del coro, ma sempre vicino
all'altare (2). Alcuni monaci deposero di avere saputo nella loro
gioventù dai più anziani del monastero, che gli stalli erano stati
costruiti da un monaco dello stesso monastero, Ariberto da Pasi-
liano (3); un converso, Giovanni da San Siro, che viveva a S. Am-
brogio da circa quarant'anni, disse che lo stesso monaco Ariberto
gli avea confermato di avere fatto « ipsa sedilia ad utilitatem
« monasterii » (4). 11 Puricelli, a proposito di questo Ariberto, riferì
un'iscrizione collocata sopra la porta di un sacello dedicato ai
santi Pietro e Paolo fuori di porta Vercellina (l'odierna chiesa di
S. Pietro in Sala) che attribuisce il merito ad Ariberto, di averlo
riedificato nel T141 (5). Avuto riguardo a questa data, all'epoca nella
quale il converso Giovanni poteva avere parlato con Ariberto e
alla vibrata affermazione contenuta nelle « allegationes » del 1144
rispetto alla proprietà dei sedili del coro spettante all'abbate, rite-
niamo che Ariberto li avesse costruiti qualche anno prima del 1144.
(i) Pertz, M. G. H,, XX, 26.
(2) Arch. dipi, perg, S. Ambr., fascio n. 107.
(3) Cod. Della Croce, XII, ce. yó e 78. Esame dei monaci Martino e Guido.
(4) Ibid., XII, ce. 9)-i02.
(5) Moti. Bas. Ambr., n. 389.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 85
Alcuni testimoni parlarono delle « forme que sunt iuxta sedilia »,
che spesso si portavano in monastero per i bisogni dei monaci;
avevano visto riattare, a cura e spese del monastero, sedili e
u forme n, e i monaci usare liberamente degli uni e delle altre (i).
È probabile che queste « forme » fossero delle scranne o panche
che si disponevano dinanzi agli stalli. Nelle « forme » avranno
preso posto i conversi, i novizi e i chierici, rimanendo gli stalli
riservati ai monaci professi. Si fa menzione anche degli « scabelli »
dei sedili, che crediamo servissero ad uso di inginocchiatoi (2).
Nessuno dei testimoni del monastero osò affermare che ai ca-
nonici fosse in quel tempo vietato di sedere negli stalli. Dal loro
canto tutti i testi della canonica confermarono che canonici e mo-
naci li usavano promiscuamente, alternandosi duranti le rispettive
ufficiature. Posero inoltre in evidenza che, mentre i cori delle chiese
monastiche di Milano si chiudevano con porte e chiavistelli, il
coro di S. Ambrogio rimaneva sempre aperto, perchè potessero
servirsene i sacerdoti della canonica, i quali, a differenza dei mo-
naci, non avevano bisogno di chiudersi dentro. Una voce piuttosto
vaga che in un passato abbastanza lontano i canonici non avevano
né adoperavano stalli giù dell'altare, si era fatta sentire nel processo
del 1189-1191, avendo allora un familiare del monastero riferito
che « per vetustissima tempora canonici non habebant sedes in
u ecclesia sancti Ambrosii ab altari in zosum » (3). Giova anche
rammentare quanto disse nel 1200 un teste dei canonici, maestro
Prevosto, canonico, che cioè essi, oltre ad usare dei sedili e del
leggìo del coro, avevano propri sedili sopra i tre gradini, per i
quali si sale all'altare (4). Da tutte queste circostanze sembra di
poter arguire che in antico, prima che scoppiasse fra i due cleri
il dissidio delle oblazioni, e quando la canonica non era ancora
organizzata con un proprio preposto, il coro cogli stalli serviva,
come nelle chiese prettamente monastiche, soltanto ai monaci, ed
il clero secolare disponeva per i bisogni della propria officiatura,
'i di alcuni sedili d'ambo i lati dell'altare. Il principio della comu-
nione, dapprima « prò indiviso », indi, per quanto fu possibile,
(i) Cod. Della Croce, XII, e. 68. Esame, del monaco Martino.
(2) Ibid., XII, e. 102. Esame del converso Giovanni da S. Siro.
(3) Ibid., XI, e. 7 sg. Esame di Ungarino da S. Ambrogio.
(4) Ibid., XII, ce. 155-165.
86 GEROLAMO BISCARO
« prò diviso ", di alcuni diritti sulla basilica, e dei lucri conse-
quenziali fra i due cleri, che fino dalla metà del sec. XII coniinciò
a sostituirsi per ragioni di equità, all'applicazione rigorosa dello
stretto diritto e all'osservanza di più antiche consuetudini, spiega
come il mormstero, mentre guadagnò terreno nella questione sulle
oblazioni e in altri punti di discordia^ ebbe a perderne nelle que-
stioni sul campanile e sull'uso del coro.
Abbiamo già esposto, parlando della soprastanzia, il tenore
della sentenza pronunciata nel 1282 da Ottone Visconti nella lite
dei monaci e dei canonici alleatisi contro il soprastante Ventura da
Bescapè, allo scopo di addossare alla soprastanzia la spesa occor-
rente per la costruzione dei nuovi stalli del coro. La sentenza non
dice per quali circostanze il coro fosse allora rimasto senza stalli.
Non sapremmo spiegarci la cosa, se non pensando che gli stalli
antichi, quelli di Ariberto da Pasiliano, fossero ridotti in così de-
plorevoli condizioni di vetustà che, rimossi per provvedere alla loro
sostituzione o ad un ristauro, si fossero completamente sfasciati.
Di qui r impossibilità di rimetterli a posto per i bisogni della quo-
tidiana ufficiatura, duranti le non brevi more della lite. L' alta au-
torità politica dell'arcivescovo Ottone che diede la sentenza, ed il
contegno più che remissivo tenuto in causa dal soprastante, accer-
tano che costui si aff'rettò, prestando ossequio alla sentenza, a co-
struire i nuovi stalli entro il termine fissato dall'arcivescovo, e cioè
non oltre il io agosto 1283 (i).
Ma non erano trascorsi due secoli dalla loro ricostruzione che
si pensò di. rifarli a nuovo. Era l'epoca nella quale la tendenza ad
un profondo rinnovamento artistico cominciava a diffondersi anche
in queste contrade. L'arte dell'intaglio e della tarsia era in auge,
e le chiese monastiche andavano a gara nell'arricchirsi di nuovi e
suntuosi stalli per il coro, decorati di tarsie e di scolture. Non è
compito nostro di dare qui una descrizione artistica degli stalli di
S. Ambrogio, oggi disposti nell'abside della basilica. Ci basta se-
gnalare l'errore gravissimo in cui sono incorsi anche i migliori fra
i critici d'arte che ne parlarono, attribuendoli al sec. XIV. Seb-
bene vi predomini ancora l'influsso dello stile ogivale nella sua più
tarda e meno simpatica evoluzione, dalle forme tozze, dalle linee
(i) Cod. Della Croce, XIX, sub a. 1282.
NOTE F. DOCUMENTI SANTaMBROSIANI 87
trite e frastagliate e dal sovracarico di ornati pesanti ch'ebbe voga
in Lombardia fino oltre la metà del quattrocento, non mancano in
qualche elemento le note spiccate dello stile nuovo e geniale che
altrove aveva già conquistato il campo anche nelle arti minori, e
che Milano aveva imparato a conoscere nell'architettura dal Filarete
e da Michelozzo.
L'atto di commissione del coro di S. Ambrogio era sfuggito
sin qui alle indagini degli studiosi. Il documento fa parte dì una
miscellanea dì carte relative alle solite liti fra i due capitoli che tro-
vasi nel « Fondo di religione » del nostro archivio di stato (i); non
è l'atto originale, ma una copia contemporanea. Contiene i patti di
una convenzione stipulata il 13 ottobre 1469 tra Giovanni Antonio
da San Giorgio, dottore nelle decretali e preposto della canonica,
a nome anche dell'abbate, e i maestri Lorenzo « de Udrugio »
(Origgio), Giacomo « de Turri », ambedue di porta Vercellina,
parrocchia dì S. Vittore al teatro, e Giacomo « de mayno » (Del
Maino), di porta Ticinese, parrocchia di S. Giorgio al palazzo. I
tre il magistri lignaminis »» si obbligarono di fabbricare a loro spese
nel termine di diciotto mesi a partire dal i.** dicembre successivo,
e quindi a tutto luglio 147T, ventotto stalli superiori ed un nu-
mero proporzionato di stalli inferiori, in legno di noce rossa, forte,
senza nodi e « in morsa », conforme alla qualità del campione
consegnato al preposto. Il primo stallo a destra doveva essere a
forma di cattedra, secondo il disegno all'uopo predisposto, con in-
tagli nelle spalliere, angeli e altre figure indicate nel disegno, e
coir Annunciazione nel grande « testale » superiore, ed una fi-
gura di santo a scelta del preposto nel « testale » di sotto. Negli
altri tre « testali » maggiori si dovevano scolpire due figure, e nei
tre inferiori una, pure a scelta del preposto. Corrispondono gli
otto « testali », così denominati nel capitolato, agli otto specchi
scolpiti ad intaglio che formano una delle principali attrattive del
coro. Ma nel corso del lavoro, come si aumentò il numero degli
stalli, così si mutarono anche i soggetti degli intagli nei « testali »,
sostituendo alla rappresentazione dell'Annunciata e alle immagini
accoppiate od isolate di santi, altrettante scene istoriate, alcune re-
lative ai fasti di S. Ambrogio, ed altre, come si è detto, non sap-
(I) Ved. doc. II.
88 GCROLAMO BISCARO
piamo con quanto fondamento, alla conversione degli inglesi al
cristianesimo per opera del monaco benedettino S. Agostino.
Era stabilito che tutti gli stalli si decorassero ad intagli nelle spal-
liere, secondo otto diversi disegni, e che i dossali (« super capita »)
si ornassero con scene di animali od altri soggetti di fantasia. Il
cornicione (« frixo ») doveva portare nel mezzo figure di santi in
rilievo, e, al di sopra, statuine di angeli in pose svariate. Nelle assi
divisorie degli stalli andava 'praticato un foro rotondo con entro
qualche intaglio di animali od altro. Si dovevano decorare di tarsie i
margini (« orla »), ma non con osso, e dipingere a vari colori le
assi. Per le dimensioni e per quanto non era stato disposto in modo
particolare, si prendevano a modello gli stalli del coro della vicina
chiesa di S. Francesco; meno che per la cattedra, le cui propor-
zioni erano state indicate nel disegno. La commissione comprendeva
pure due leggìi minori ai due capi del coro ed uno più grande,
u pulchrum et laudabile w, con tarsie, nel mezzo. Il prezzo era conve-
nuto in lire imperiali 902 di moneta milanese, da pagarsi in più rate.
Dei tre « magistri lignaminis w, che costruirono il coro di
S. Ambrogio, era noto fin qui solo il terzo, Giacomo Del Maino
fu Damiano, per la parte da esso avuta nella costruzione del coro
per i conversi della certosa di Pavia, già incominciato dal modenese
Bartolomeo de Polli, che il Del Maino con atto del 14 giugno 1502
si assunse di portare a compimento (i). E risaputo che il coro dei
conversi della certosa fu disfatto al tempo della soppressione del-
l'ordine certosino, nel 1782; si disse che il governatore, conte
Wilczech, avendo acquistati gli stalli, li adattò ad uso biblioteca
nel palazzo Serbelloni, ove abitava. Scrittori pavesi scrissero che
il Del Maino era di Pavia (2); ma oltre che nel contratto del 1469
esso è indicato come abitante a Milano, senza alcun accenno alla
sua pretesa origine pavese, la sua qualità di cittadino milanese si
trova espressa in un atto del 3 giugno 1491, quando già abitava
a Pavia; col quale atto assunse nella propria bottega come gar-
zone, tale Ambrogio da Donalla della Valtellina, obbligandosi ad
insegnargli « artem et magisterium sculpiendi et intaleandi ligna-
u men » (3).
(i) L. Beltrami, La Certosa di Pavia, Milano, 1897, p. 93.
(2) C. Magenta, La Certosa di Pavia, Milano, 1897, p. 481.
(3) Arch. dipi, Sei. storica, autografi di intagliatori.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 89
Di Lorenzo da Origgio abbiamo trovato qualche notizia in do-
cumenti che provengono dalla cancelleria ducale di Milano. Egli
aveva sposato Giovannina da Vimercate, che fu nutrice di Gian
Galeazzo e di Bianca Maria Sforza. La sua qualità di « balio » del
giovane duca e della principessina fu da lui invocata come titolo
alla protezione e ai favori della corte, in una supplica alla reggente
Bona di Savoia, nel novembre 1478, per ottenere la concessione
gratuita della così detta torre dell'imperatore (i), e in altra sup-
plica allo stesso duca Gian Galeazzo, « per poter comprare ligne
« de cadauna maynera ecc. et venderla ecc. senza alcuno impedi-
u mento, inhibitione ecc. dei Vicari della provisione, cobbie seu
u officiali (2) ». In una terza supplica, di data forse anteriore alla
prima, diretta alla stessa reggente Bona, Lorenzo « de Udrugio,
« magistro da legname in la citade de Mediolano », si professava
creditore di sei ducati verso Filippo Maria Sforza, zio del duca Gian
Galeazzo, quale residuo prezzo di « casoni quattro intersa.ti, tavola
« una et payra tria de trispi », ch'egli aveva eseguito per com-
missione di quel principe al prezzo convenuto di ducati 19. Pregava
il il poverello magister Laurentio », che la reggente gli procurasse
il saldo del suo avere, « a ciò possa sustentarse cum li suoy fio-
« Jeti (3) ».
Del secondo, Giacomo « de Turri », non ci fu dato sapere alcun
che. Ma si può credere ch'egli pure, come gli altri due, fosse un ar-
tista indigeno, appartenente al paratico dei maestri di legname. L'ul-
timo posto che occupa il Del Maino nella convenzione, denoterebbe
in lui il più giovane dei tre maestri; della sua età giovanile si ha
un ulteriore argomento nel lavoro assunto per la certosa di Pavia
ben trentasette anni dopo. Invece Lorenzo da Origgio, nella supplica
al duca Gian Galeazzo, si diceva già « vechiarello », che non « va-
« leva più laborare ». E probabile che nel 1469 Lorenzo e Gia-
(i) Arch. dipi, S&1' storica^ autogr. di intagliatori. Nel Registro di missive du-
cali n. 138 (1478-1479) vi ha in data 21 novembre 1478 la lettera della Reg-
gente al vicario di provvisione ed ai maestri delle entrate straordinarie, perchè
diano il loro parere sulla supplica dei coniugi Lorenzo da Origgio e Giovannina
da Vimercate; ove si dice che per parte sua la Reggente sarebbe lieta di poterli
accontentare, « ob merita Joannine de V. nutricis domini ducis Io. Galeaz ».
(2) Ibid., Se:(. storica^ autogr. di intagliatori.
(3) Ibid., autogr. di intagliatori.
90 ^ GEROLAMO BISCA RO
corno « de Turri », i quali abitavano nella stessa contrada, tenes-
sero bottega insieme, ed avessero, pure in società, costruito qualche
anno prima il coro di S. Francesco, citato come modello nel ca-
pitolato per gli stalli di S. Ambrogio. Imbevuti nelle tradizioni
dell'arte ogivale, sulle quali cominciavano appena a fare breccia
nelle arti minori della tarsia e dell' intaglio, le influenze del nuovo
stile portato di Toscana dagli architetti, essi si saranno associati
al Del Maino, come ad un giovane promettente, che doveva por-
tare nella costruzione del coro la nota più moderna, rappresen-
tata dalle scene agresti dei dossali, spiranti una soave aura virgi-
liana, e dalle istorie movimentate dei « testali »», composte sopra
le istruzioni del preposto della canonica, e fors'anco sui cartoni di
qualche distinto pittore all'uopo richiesto.
Le sommarie indicazioni del capitolato corrispondono, salve
le modificazioni sopraccennate nel numero degli stalli e nelle storie
dei « testali », agli elementi principali del coro della basilica. La
sua disposizione originaria era quella dei due cori che lo prece-
dettero, sotto il tiburìo, davanti l'altare: Nel 1507, si stabilì di
sgombrare l'abside, occupata ancora dall'antica cimiliarchia, e di
trasportarvi il coro ad uso comune dei due capitoli. Si abbattè al-
lora il muro o tramezza che divideva sino ad una certa altezza
l'abside dal presbitero; gli stalli dei tre maestri milanesi salirono
così al piano dell'abside, ove tuttora fanno bella mostra di sé.
Gerolamo Biscaro.
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANl 9I
DOCUMENTI
L
12^ Si fnarzo, 8, ind. Vili.
GlACOxMO DeSCAZIO, ex-custode della basilica di S. AM-
BROGIO;, CEDE ALLA CANONICA UNA SUA CASA IN PARROCHIA
DI S. Pietro « surra dorsum » a titolo d'indennizzo
PER IL furto commesso DALL' ALTARE DELLA BASILICA.
Ambrosiana, Codice diplomatico Della Croce, D. sup. IV, n. i6,
e. 65 (ex Archivio S. Amhrosii Mediolani).
Anno domini incarnationis millesimo ducentesimo trigesimo quinto,
die iovis octavo die mensis martii, indictione octava. Jacobus Descatius
qui olim fuit custos ecclesie sancti Ambrosii prò restitutione illius auri
quod subripuit de altari eiusdem ecclesie, sicuti confessus est, cessit
dompno Ambrosio Boifae Praeposito domum unam sitam in contrata
sancti Petri supra dorsum: cui cohaeret a mane Uberti Marapongiae, a
meridie ecclesia sancti Francisci sive sancti Naboris, a sero Belloti de
Brossano. Ibique Angnexia quae dicebatur esse amasia praedicti Jacobi
de eius consenso, nec non ad interrogationem Mirani filli q. Serbruchi
de Legniano missi domini Regis, renunciavit omni iuri pignoris vel hy-
pothecae si quod haberet in praedicta domo. — Actum in canonica sancti
Ambrosii, in praesentia Beltrami de Merate prò secundo notarlo et in-
frascripti Mirani missi Regis. — Interfuerunt Otto filius Anselmi Gia-
pini (?), Trussus fil. Merini de Legniano, Gratianus fil. Mincherini de
Besuzo omnes de civitate Mediolani testes.
Ego Redulfus filius q. ser Gilberti Boffae de contrata S. Sixti nota-
rius sacri palacii tradidi et subscripsi.
Ego Chunradus filius Ambrosii de Lomacio portae Ticinensis de con-
trata S. Sixti notarius sacri palacii iussu infrascripti Redulfi scripsi.
92 GEROLAMO BISCARO
IL
i46g, ottobre^ i6.
I MAESTRI DI LEGNAME LoRENZO DA 'OrIGGIO, GiACOMO DA
Torre e Giacomo Del Maino assumono la costru-
zione DEGLI stalli DEL CORO DI S. AMBROGIO.
R Archivio di Stato, Fondo di Religione, Capitoli, S. Am-
brogio, busta n. 115. Copia non autentica, della fine del sec. XV.
Pateat universis et singulis praesentes inspecturis qualiter nunc
quondam Petrus Paulus de Perochis olim Mediolani notarius anno
MCCCCLXVIIII.o die sabbati tertio decimo mensis octubris tradidit in-
strumentum unum pactorum et conventionum factorum per et inter ve-
nerabilem virum dominum Johannem de sancto Georgio de Placentia de-
cretorum doctorem praepositum ecclesiae S. Ambrosii maioris Mediolani
suo nomine et nomine et vice reverendi domini Abbatis sancti Am-
brosii ac capituli et eius monasterii ac dominorum canonichorum eccle-
siae et prò quibus promisit, parte una ; et magister Laurentius de
Udrugio filius quondam domini Sozini, magister Jacobus de Turri filius
quondam domini Paganini, ambo portae Vercellinae, parochiae sancti
Victoris ad theatrum Mediolani, et magister Jacobus de Mayno filius
quondam domini Damiani portae Ticinensis parochiae sancti Georgii in
pallatio Mediolani, omnes magistri lignaminis etcetera et quilibet eorum
in solidum etcetera.
Primo quod dicti magistri ut supra teneantur hinc ad menses XVIII
proximos futuros incipientes post calendas mensis decembris proximae
futurae eorum propriis expensis tam lignaminis quam aliarum rerum fa-
cere et fabricare in ecclesia sancti Ambrosii maioris Mediolani stadia
tam superiora quam inferiora, et sunt stadia numero XXVIII superiora,
inferiora autem secundum suas proportiones, de lignamine nucis, scilicet
de rubeo precipue de eo quod est in demonstratione, et sit lignamen
forte et bene sichum, grossum in morsa, cum sculturis fortibus et li-
matis secondum proportionatam rationem scolturae, et ponantur assides
sub pedibus in omnibus stadiis pobye, et sint praedicta stadia in forma
infrascripta. Primo stadium unum quod sit prò cathedra et ex forma
cathedrae a manu dextra designatum secondum formam {lacuna dello
spazio di una parola) prefati domini praepositi dimissam de voluntate
praedictorum magistrorum cum scoltura in spalarolis angelis et figuris
NOTE E DOCUMENTI SANTAMBROSIANI 93
in ipsa lista designatis et annunciata beatae Mariae Virginis in te-
stali magno superiori, et in testali parvo inferiori ponatur figura unius
sancti ad libitum prefati d. praepositi et ita in aliis testalibus magnis
principalibus per singulum testale ponantur duae figurae, in testalibus
parvis inferioribus principalibus ponatur una figura ad libitum ut su-
pra. Item quod fiant alia stadia et sint forma eorum et scoltura in
spalarolis variando scolturas per singulo stadio in ceto mayneribus
formatis, fiat figura in friso et sit figura alicuius sancti ad libitum ut
supra, et super capite ponatur aliquod disignum alicuius animalis vel
simile, et orla fiant intersiata, dum tamen non intelligatur de osso, et
assides ubi necesse fuerit et poni poterit pingeantur de vario colore,
fiat etiam angelus de super variatus per singula stadia in actu suo di-
verso, et frisum sit relevatum, et assides que sunt intermedia Inter sin-
gula stadia habeant fondum unum, scilicet foramen ubi sit intus aliqua
scoltura animalis vel alterius designi tam in superioribus stadiis quam
in inferioribus; et stadia inferiora sint cum suis orlis relevatis et scoltis,
et fiant prò singula parte cori ecclesia duo lectorili parvi. Item quod
magnitudo praedictorum stadiorum sit prout sunt stadia quae sunt in
ecclesia S. Francisci fratrum minorum, excepto primo stadio quod sit
prò cathedra, quia illud debet esse maius secundum designatam por-
tionem. Item fiat lectorille unum magnum ponendum in medio chori
ecclesiae praedictae cum scholtura tersiae circhum circha coronam de-
super ita quod sit pulchrum et laudabile, Item quod in omnibus si quae
deficerint declarata vel expressa non fuerint, habeatur rellatio ad desi-
gnum demissum penes prefatum d. praepositum ut supra, in quo est de-
signum cathedrae quam unius superioris et inferioris et si ex designo
non appareat habeatur recursus ad corum S. Francisci. Et praedicta
omnia sub pretio librarum novem centum duarum imperialium monetae
Mediolani eis dandarum et solvendarum per dictum d. praepositum pre-
fato nomine, sub terminis infrascriptis, primo Hbras ducentum impe-
rialium hinc ad dies octo proxime futuros, libras centum imperialium-
post mensem a die coepti operis per ipsos tres suprascriptos et li-
bras (?) inde ad duos menses post secundum terminum, et libras centum
ad calendas septembris proxime futuri et libras centum ad festum nati-
vitatis anni 1471 et residuum in fine operis completi, et inteligatur com-
pletum quando fuerit repositum per ipsos magistros in ecclesia ad libitum
prefati d. praepositi, hoc excepto quod de libris centum fiat credentia
per menses tres post finem operis per ipsos magistros prefato d. pre-
posito ; sub poena ducatorum XXV auri et in auro insti valoris, prò
qualibet parte non attendente quae poena non habeat locum si super-
venerit aliquis casus adversus videlicet iustus quod deus advertat, -belli
vel infirmitatis.
Et in fidem praemissorum Henricus de Modoetia notarius et causi-
dicus Mediolani qui habet auctoritatem complendi instrumenta rogata
per dictum nunc quondam Petrum Paulum de Perochis olim Mediolani
notarli ut supra scripsit et etiam subscripsit manu propria.
94 GEROLAMO BI3CARO - NOTE E DOCUMENTI SA.NTAMBROSIANI
Idem Heiaricus prò fide ut supra subscripsit
Item pateat ut supra dictus quondam notarius ut supra rogavit sub
die merchurii XXVIIIJ.» suprascripti mensis octobris ratificationem factam
per prefatum dominum abbatem de suprascripto instrumento pactorum,
et in fidem praemissorum suprascriptus Henrichus de Modoetia habens
auctoritatem ut supra pariter subscripsit.
Idem Henricus prò fide ut supra subscripsit.
i
Un'opera medita di Alessandro Verri
sulla Storia d'Italia
i.
« La mia opera è in mano dell'avvocato Baldassaroni: avuti
« alcuni congressi con lui ritorno a scorrerla e poi la stampo. Sa-
« ranno trenta fogli in quarto di stampa Algarotti e vi vogliono
u due mesi, a me basta di incamminarla. L'auditore Franceschini
« me ne parla con stima, il suo voto mi fa piacere. . ». Così scri-
veva da Livorno Alessandro Verri al fratello Pietro, mentre, re-
duce da Parigi e da Londra, avviavasi a Roma.
Quarant'anni dopo però l'opera giaceva ancora inedita sul ta-
volino dell'autore ed egli apponeva al manoscritto la seguente
postilla:
« Opera di mia gioventù con giudizi arditi, stile bastardo, an-
« sietà di paradossi, troppo scarsa nel racconto, nondimeno com-
ii posta con molta fatica e diligenza dal vigesimo secondo al vi-
« gesimo quinto anno della mia età, avendo veduto in buone
« edizioni della libreria del Questore Lambertenghi ed anche della
« Trivulzi in Milano i testi tutti da me citati. Non si stampi se non
« la correggo in vita. — 3 gennaio 1808 ».
Sotto alla postilla aggiunse ancora più tardi le due parole:
il Non corretta ».
La cortesia dei conti Sormani e della marchesa Faas di Bruno,
eredi della storica famiglia Verri, dischiudendomene l'archivio, mi
ha offerto il modo di far conoscere più di quanto oggi sia noto per
quali vicende rincominciata edizione sia rimasta indefinitamente
sospesa, e in che la storia consista, presentando anche ai nostri
96 EMANUELE GREPPI
lettori la pubblicazione integrale della Prefazione. Malgrado l'ab-
bondanza dei documenti non possiamo però assistere alle fatiche,
alle discussioni, alle compiacenze del periodo nel quale venne com-
posta, perchè i fratelli e gli amici, tutti riuniti in Milano, non si
comunicavano per iscritto i loro sentimenti, ma la corrispondenza
tosto avviatasi dopo la partenza di Alessandro per Parigi, e solo
incompletamente pubblicata dal Casati, ci fa invece conoscere
quanto avvenne dopoché essa, definitivamente compiuta, pareva
destinata alla stampa. Ci risulta dunque che nell'ottobre 1766 l'an-
davano rivedendo il fratello Pietro coU'amico Luigi Lambertenghi,.
che ai tre di novembre il manoscritto, per la via di Genova, era
stato spedito all'editore Aubert di Livorno; ma che, adducendo esso
prima ancor di riceverlo varie scuse per tardarne la stampa, Ales-
sandro ai 18 di novembre scriveva da Parigi : « Vorrei che il nostro
« Aubert non protraesse di troppo. Mi annojo di far lungo tempo
a anticamera al pubblico e forse alla fama qualunque sia per es-
« sere ».
Il 24 di gennaio successivo Pietro lo incoraggiava in questo
suo sogno di gloria scrivendogli : « Aspetto il riscontro da Livorno
« dell'esame fatto della Storia. Ti assicuro che ne sono impaziente,
« perchè ti deve far conoscere per quel che sei e darti una repu-
« tazione non minore di quella di Beccaria ».
In febbraio si sapeva che l'Auditore aveva letto con molto
piacere il manoscritto, lo aveva restituito ad Aubert senza dirgli
di non stamparlo (come facevasi quando un libro era creduto degno
di censura, tanto da non tollerarne la pubblicazione nemmeno sotto
finta data), ma lo aveva invitato a farlo leggere anche all'avvocato
Baldassaroni che stava scorrendolo e lo trovava buonissimo.
Confortato da queste approvazioni l'editore diveniva più pre-
muroso ed in Quaresima accoglieva l'autore ospite festeggiatissimo
nella sua casa di Livorno.
i( La mia opera comincia a stamparsi sotto ai miei auspici;.
« sarà un volume di circa cinquecento facciate in quarto della
« stampa del Gazzettino americano » ; così Alessandro al fratello
il 15 aprile 1767, pochi giorni dopo l'altra lettera, della quale ab-
biamo trascritto un paragrafo al principio di queste notizie.
La buona accoglienza dei toscani e le cure della edizione fe-
cero sostare Alessandro circa un mese fra Pisa e Livorno ; ma anche
a Roma, ove era giunto il 19 maggio, attendeva alla correzione
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. 97
della stampa, della quale ai 27 giugno scriveva che: « andava
a avanti correttamente e lentamente ».
Senonchè proprio forse in quei giorni, avendo incominciato a
frequentare la società romana, imbattevasi in una donna la cui in-
fluenza doveva interrompere la pacifica pubblicazione della sua
Storia e mutare i destini di tutta la sua vita.
a Oh povero Alessandro! »> (scriveva a Pietro l'ii luglio) « sono
i( innamorato come una bestia e sono in una maledetta contraddi-
ci zione fra l'amicizia e la passione. Io non ho mai trovato al mondo
« donna più seducente e che mi faccia credere meglio di amarmi.
« Oh povero Alessandro, egli è fritto. Non sono più io. Non ho
a mai provato passione così viva, né credevo di averne i semi nel
« cuore ».
E con veemenza ancor maggiore il 15 agosto : « Tu conosci il
a mio cuore, tu sai se egli sia sensibile, tu conosci infine il tuo
« Alessandro. Mio buon amico, mio buon Pietro, io amo come non
« ho mai amato, come non credevo mai che si potesse amare, amo
« con tutta la energia dei cuori che hanno una ragionata e finissima
« sensibilità. Credo che il cuore umano non sia capace di maggiore
a tenerezza od almeno il mio non lo è. Se parlassi a tutt'altri che
it al mio Piero io troverei della dissonanza e della disanalogia nei
a nostri sentimenti, ma parlando con te che conosci i tormenti, la
a veemenza e la divina dolcezza di una funesta e sacra sensibilità,
« io mi abbandono al mio cuore ed alzo il velo degli ultimi suoi
a penetrali. Mio caro, mio buon Pietro! Crederesti tu che mentre
^< che ti scrivo questo giorno quindici agosto alle ore otto e mezzo
4< della notte, mi sia preso uno scoppio di pianto, abbia abbando-
ni nato la penna, sia andato alla finestra per sfogarmi in lagrime
« e che io sia il più tenero, il più debole, il più fortunato degli
« uomini? »
Concludeva mostrando a Pietro come gli sarebbe stato impos-
sibile di lasciar Roma e scongiurandolo di preparar la famiglia ad
un suo soggiorno indefinito fuori della patria, di trovargli il mezzo
di sussistere in Roma, ma di rinunciare a qualsiasi disegno pel suo
avvenire, che contrastasse alla possibilità di rimanere sempre presso
la dama adorata.
Pietro rispose con aff'ettuosa tristezza che intendeva la sua
passione, nulla avrebbe fatto per contrastarla, anzi si sarebbe ade
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXIT, Fase. V. 7
g8 EMANUELE GREPPI
perato per rendergli possibile la permanenza in Roma, ma diceva:
u Io ho provato ieri sera » (nel ricevere la lettera) « la stessa sen-
« sazione che ho avuto l'anno scorso alla tua partenza. Nel tempo
u stesso mi è venuto da Livorno il pacchetto con undici fogli della
<» tua stampa. Pareva che contemporaneamente mi venisse la nuova
« di non doverti più vedere e un documento del valore della mìa
u perdita ».
Egli anzi pensava contemporaneamente al colpo che quella
passione portava alle speranze di una convivenza fraterna e alle
speranze di una fama letteraria che sarebbe stata anch'essa quasi
comune fra loro, poiché aggiungeva: « Una cosa è degna di ri-
« flessione. La tua storia sarebbe bene che venisse pubblicata
« mentre tu sei in Roma? Mi pare che no. Io vi ho scorto dei
« passi scabrosi ».
Alessandro da principio non volle riconoscere tutta la gravità
della osservazione, e al due settembre replicava: « Quanto al pub-
« blicarla che si ha a fare? Le spese sono fatte e la fatica. S'hanno
« da gettare tutte quante e devo io sottoscrivere a questo sacri-
« fizio? Tratti un po' vivi ci sono, ma in fondo ho avuto sempre
u giudizio, posso difendermi e far tacere la calunnia ».
L'otto settembre scriveva ancora: « Ho pensato che sarebbe
u una gran perdita per me il sacrificare un po' di fama e i primi
« anni della mia gioventù ad un timore che non ha fondamento.
« Parlo della Storia. Ti ridico che posso avere qualche piccolo
« colpo di pennello un po' vivo, ma il fondo è ortodosso. Avessi
« anche a fare una guerra di penna d'oca, avessi anche a soffrire
« qualche guajo maggiore che poi si ridurrebbe a poco, non so
" risolvermi a gettare negli abissi della oblivione un'opera che mi
« costò tanto e che ha fatto la più dolce delle occupazioni del fiore
li degli anni miei »•.
Ma il 12 settembre gli era forza mutare avviso: « Ho riflettuto
« che avendo la mia storia tratti un po' vivi, non è da arrischiarsi
Il sotto questo pontificato che ben conosco da vicino... Dorma la
ti Storia sino a nuovo più lambertiniano pontificato. Scrivo ad Au-
« bert perchè non si prosegua e poi penseremo ad un compenso »•
« Aubert » (aggiunge il 3 ottobre) « mi ha risposto ed è sor-
« preso che gli dica di sospendere. Mi rimprovera di aver paura
« di uomini in gonnella, ma sono a casa loro; hanno forza ed
u opinione ".
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. 99
La sospensione della pubblicazione finì col guastare le relazioni
fra l'editore e l'autore. Questi lamentavasi del ritardo alla restitu-
zione del manoscritto che avvenne infatti soltanto nel maggio suc-
cessivo e delle indiscrezioni per le quali era divenuto quasi pub-
blico il nome del Verri che dovevasi tenere celato; quello della
intromissione poco discreta del padre Majnoni incaricato da Ales-
sandro di sollecitare quanto a lui premeva.
La Storia però non si poteva ancora considerare sepolta per
sempre, poiché andava girando manoscritta fra gli amici, provocan-
done più volte le sollecitazioni perchè fosse tratta dalla oscurità.
Così nel marzo 1708 Pietro scriveva al fratello: « Lloyd mi
u scrive da Genova che il senatore Lomellini gli ha parlato di te
u con molta stima e vorrebbe si pubblicasse la tua Storia che non
ti può aver tempo più favorevole di comparire di questo. Molta
u gloria e quattrocento zecchini sono in tua mano, ma le inquie-
« tudini e le persecuzioni pesano di più senza paragone ».
Più tardi, sul finire del 1770, un celebre editore e letterato
francese insisteva per avere la facoltà di pubblicarne la traduzione
francese. « Non ti ho detto » (così Alessandro il 18 ottobre) « che,
« avendo dato una copia del mio manoscritto all'abate Vauxcelles,
u egli la fece vedere a Parigi a qualche suo amico e fra gli altri
« alla moglie di MJ Suard, uno degli autori della Gazzetta letteraria
u ed essa mi fece interpellare dal padre Jacquier se le volessi
« permettere di tradurla e stamparla, lo ho risposto che mi faceva
i. gran piacere l'offerta, ma che non volevo, amando più la tran-
u quillità che ogni altra cosa ».
Un altro suggerimento era stato precedentemente subito da
lui declinato per considerazioni che tornano a suo grande onore.
Il 9 aprile 1768 Pietro gli aveva scritto: « Aggiungo una riga
« nata da un discorso del nostro Lloyd; egli è entusiasta della tua
« Storia e dice che spenderebbe volontieri del suo per vederla
u stampata, ma suggerisce qualche cosa di meglio; cioè di farla
« trascrivere eccellentemente e presentarla all'imperatore venendo
u in Italia. Aggiungere qualche nota, se vi è, interessante i diritti
u dell'Impero, una prefazione, etc. Io so che l'imperatore fa at-
« tualmente travagliare per porre in giorno i diritti imperiali. Io
« te la communico perchè vi pensi e mi risponda, sicuro che nelle
u cose tue io sarò sempre fedele esecutore delle tue disposizioni,
« né mai farò un impegno ultroneo ».
100 EMANUELE GREPPI
Alessandro così rispondeva: « Sono obbligato alla amicizia del
« nostro buon inglese e lusingato del suo suffragio. La mia ricom-
u pensa sono simili voti, ma in generale, quand'anche fossi in tut-
« t'altre circostanze, non mi piace il dedicare il libro. Non voglio
« appoggi: la ragione non è feudataria dell'Impero. Altronde nel
« progresso dell'opera varie cose dispiacerebbero. Gli imperatori
« non vi fanno sempre buona figura. Bisognerebbe spennare le
u ali della immortale fenice, la verità. Le note che mi si propon-
« gono sarebbero da pubbhcista anziché da filosofo. Tu sai cosa
« vagliano i diritti sui principati, di che sostanza siano i trattati e
« quanto siano vaghe tutte queste idee di giustizia. In verità non
« saprei come ragionare con tali principi. Poi bisognerebbe non
« mostrarsi Ghibellino e perciò bisognerebbe fare lo stesso cogli
« altri principi, altrimenti sarei creduto sposare un partito. Final-
« mente chi mi crederebbe imparziale se tanto disputo fra le due
« Potenze, quando dedico l'opera ad una delle due parti? w.
Un'ultima proposta, che non avrebbe presentato gli stessi in-
convenienti, gli veniva tre anni dopo da Vienna. L'amico Luigi
Lambertenghi, uno dei collaboratori alla revisione del manoscritto,
occupava allora una carica importante nel Dipartimento d'Italia, e
d'accordo col suo capo barone de Sperges, al quale aveva fatto
leggere la Storia, insisteva perchè fosse pubblicata in Vienna stessa,
senza alcuna modificazione, ma bensì colla garanzia che non ne
sarebbe derivata all'autore alcuna molestia anche nel soggiorno di
Roma. E Alessandro questa volta, se declina ancora l'offerta, non
lo fa più per timore, ma perchè dice di non essere più soddisfatto
dell'opera sua. « Molte cose », egli scrive il 2 novembre 1771,
« avrei da mutare, moltissime non mi piacciono più, ma mi atter-
« risce il lungo travaglio. Nella mia maniera di lavorare non la
u finisco mai e vedo che mi domanderebbe degli anni una simile
« rifusione. Bisogna leggere assai e scrivere poco ».
Quattro anni di soggiorno in Roma avevano mutato il brioso
e satirico discepolo degli enciclopedisti francesi in uno scrittore,
purista per la lingua e per lo stile, aborrente da ogni storica im-
provvisazione, anzi scrupoloso censore di ogni inesattezza e per
di più politicamente devoto alle tradizioni della Curia romana, co-
sicché si può dire già in lui formato sull'opera sua quel giudizio
che poi riassunse nella postilla. Le tracce però della sua tendenza
a disertare la scuola, alla quale si era ascritto a Milano con tanto
un'opera inedita di ALESSANDRO VERRI, ECC. lOI
entusiasmo, sì scoprono prima àncora del suo arrivo in Roma e
ci dimostrano come l'indole sua naturalmente vi inclinasse anche
senza l'influenza dell'ambiente romano.
La prima oscillazione si nota a Livorno, proprio quando egli
era ancora nel maggior fervore per la sua Storia. 11 23 aprile 1767
aveva scritto al fratello: « Professo molte obbligazioni al signor
« avvocato [Baldassaroni] il quale mi va parlando di alcuni sbagli
« con buonissima grazia. Non è del mio parere sul poco conto che
u faccio degli italiani e sull'entusiasmo con cui parlo dei francesi,
« ma non importa, io non lascio la mia robustissima guerra che
u faccio alle nostre mediocrità «.
Senonchè, al primo maggio, mezzo convertito dal Baldassaroni,
continua: « Sto rivedendo la mia Storia, la quale con tua pace
u meritava assaissimo questa riveduta. Ho levato le punte troppo
« acute ad alcuni tratti contro il pedantismo e contro gli italiani
u massimamente nell'ultimo capo. I francesi non mi sarebbero ob-
u bligati di tanto lodarli e gli italiani mi prenderebbero tutti in
« quel servizio. Vedo come si pensa qui in Toscana e se ho da
« procurarmi i voti della Etruria non bisogna sfidare tanto il suo
u amor proprio. In parte anche io aveva torto ".
Pietro ebbe forse sin d'allora l'istinto che la comunione intel-
lettuale col fratello era in pericolo, cosicché rispondeva con una
certa vivacità: « Ho piacere che tu mi tocchi alcuni punti della tua
« Storia, ma temo che non ti si attacchino dei rispetti umani vedendo
« da vicino, come tu fai, i pregiudizi dell'Italia; mi fido della tua
« anima robusta che oserà dire la verità. La guerra ai pedanti è
« quella che si deve fare ora da chiunque ha cuore per i progressi
u delle lettere d'Italia ».
La partenza di Alessandro per Roma troncò la polemica, ma
un'altra sopravvenne nel marzo successivo, la quale mi sembra una
vera lotta di tendenze, efficacemente sostenuta da entrambe le parti.
Alessandro, dopo avere accennato che voleva mutare il prin-
cipio troppo risonante di uno dei suoi capitoli, aggiungeva: « lo
« vorrei una misurata filosofia anche contro gli errori e vorrei che
« la sua forza stesse nella verità e non nell'entusiasmo. Lo stile
« di Hume per questo mi piace assai. Ha detto e provato più lui
« colla sua tranquilla profondità che non tutti insieme i filosofi
« francesi, se ne eccettuiamo Voltaire, tremendo fulmine delle opi-
u nioni. Hume, dubitando sempre delle forze della umana ragione.
102 EMANUELE GREPPI
u accrebbe i di lei diritti e, degradandola in apparenza, la esalta
« in sostanza. Segue passo a passo il vero e leva le penne ad una
« ad una senza scorticare la pelle. La sua modestia incanta e con
« questo vantaggio dispone ad ascoltarlo, ed avendo detto tutto il
« dicibile, non ha fatto strepito come gli altri ed ha fatto più se-
u guaci; ma il tuono fastoso, intollerante, audace di alcuni suoi
« colleghi ha sdegnato infinitamente ".
Pietro per contro rispondeva: « E molto interessante il quesito
« che mi fai nella cara tua del 5. Tu sei assai inglese e non puoi
« soffrire l'entusiasmo dei francesi. Sono anch'io con te. Però con-
ti viene confessare che i gradassi della filosofia hanno fatto forse
« più bene alla società vivente che i filosofi modesti. Vi voleva
« chi riscuotesse la moltitudine con una sorta di arditissimo tuono
« di ispirazione; bisognava dare moltissima importanza alle lettere;
« vi voleva impostura molta e calore per risvegliarci. Beyle, paci-
u fico e modesto, ha fatto alcuni seguaci; gli enciclopedisti hanno
« con molta ciarlataneria posto la filosofia in un aspetto più ve-
ii nerando e luminoso al guardo non tuo, ne mio, ma del pubblico.
« La filosofia in loro mano ha chiamato altamente al suo tribunale
« i sovrani, i ministri, i generali e tutto quanto il volgo ha sempre
« rispettato; alla voce imperiosa di coloro sono corsi i sovrani a
« cercare la loro amicizia, l'opinione loro; e forse alla sola impo-
rt stura si devono i tributi che nella Svezia, nel Brandeburgo,
« nella Lorrena e nella Russia, i monarchi hanno offerto alla fi-
« losofia ».
La discussione, per quanto andasse dilatandosi in teorie ge-
nerali, aveva avuto in questo caso, come lo ebbe in altri, per punto
di partenza e per punto di mira il valore della Storia d'ItaUa e
l'opportunità di pubblicarla; ma gli eccitamenti del fratello, sebbene
molte volte ripetuti, a nulla dovevano valere.
Grande influenza ebbero sull'animo di Alessandro le osserva-
zioni del padre Jacquier che con lui legossi in Roma di strettissima
amicizia. Non sembra che questo padre lo prendesse di fronte per
le sue opinioni contrarie alla autorità temporale della Chiesa, non
sembra anzi nemmeno che di queste opinioni egli molto si offen-
desse, poiché le sue cordiali relazioni cogli enciclopedisti non ce
lo fanno ritenere uomo rigido e scrupoloso, ma deve piuttosto,
analizzando punto per punto ogni passo della Storia, aver convinto
l'autore di molte affermazioni inesatte. Lo stesso Pietro d'altronde
I
UN OPERA INEDITA DI ALESSAN:)RO VERRI, ECC. IO3
quando si pose a studiare la storia di Milano, scriveva al fratello
che aveva notato molti difetti nella narrazione e nell'apprezzamento
dei fatti relativi alla prima lega lombarda.
Per tali ragioni Alessandro andava sempre più dubitando del
valore della sua Storia, sebben in lui rimanesse il vago proposito,
non contradetto nemmeno dalla postilla, di rifondere l'opera in
modo che corrispondesse ai maggiori studi e alle convinzioni del-
l'autore parzialmente mutate. Ma ad allontanarne il pensiero con-
tribuirono le Rivoluzioni d' Italia del Denina, poiché parve ad Ales-
sandro che con questo Ubro la nostra storia si fosse affermata su
ragionevoli basi senza bisogno del suo concorso.
Il fratello tentò inutilmente di combattere tale obbiezione con
una lettera del 9 luglio 1777, ove scrive: « Egli è certo che, se la
« stampa di Livorno continuava, dieci anni sarebbero passati dacché
a sarebbe pubblico il tuo eccellente Saggio sulla Storia e godresti
« la fama corispondente. 11 Denina e il Tiraboschi sarebbero stati
u prevenuti da te; ma le loro fatiche possono rivolgersi in tua uti-
« lità, perchè chi ti distoglie dal ripassare agiatamente il tuo ma-
« noscritto? Mi pare anzi che faresti assai bene a tenerlo sempre
« di vista, e i bei pensieri, le riflessioni politiche, le erudizioni in-
« teressanti che vai radunando di mano in mano le potresti incas-
« sare in quell'opera. Un lavo] o di quella indole dà luogo, in un
« posto o nell'altro, di poter dir tutto opportunamente e il fondo
« della cosa é tanto bello che merita la tua cura ».
Finalmente due bellissime lettere del 1779 rappresentano forse
l'ultimo tentativo di Pietro a difesa di quella Storia da cui il fra-
tello andava sempre più alienandosi. Nella prima, in data 23 otto-
bre, dopo avergli dato conto dei lavori già molto progrediti per la
Storia di Milano, aggiunge: « Vedrai però che in nulla il mio la-
u voro pregiudica alla tua Storia; io lavoro un ritratto e tu hai fatto
« un quadro di molte figure istoriate; il mio pregio sarà la verità
« della somiglianza, in te il merito principale consiste nella somma
« varietà di fisonomie tutte vere, nella abbondanza delle cose col-
« locate nel loro lume, nella industria ingegnosa di dare vaste idee
« con un rapido cenno e nella rapidità colla quale l'occhio trascorre
« su tante interessanti e variate cose. 11 tuo libro é destinato a ri-
» flettere sugli avvenimenti piuttostochè a raccontarli ed é una le-
« zione di filosofia estratta dagli esempii piuttostochè una istru-
« zione storica; il mio ha per principale oggetto di informare il
104
EMANUELE GREPPI
u lettore su quanto ha la nostra storia di interessante e le rifles-
« sioni non sempre le faccio, lasciando, per buoni riguardi, per lo
M più al lettore di ragionare da sé w.
La seconda di queste lettere, in data del 24 novembre, prende
le difese dello stile della Storia d'Italia contro il parere di Ales-
sandro che lo definiva « bastardo, metà Tacito e metà Voltaire ».
« Io non ti contrasterò che lo stile della tua Storia, allora che
« la scrivesti, non era formato ; vi si vedeva la imitazione di Ta-
« cito, vi erano molti francesismi, ma ne quelle punte si potevano
« rintuzzare senza togliere dei tratti non comuni di spirito, ne
« quella difettosa imitazione e disuguaglianza di stile era correg-
u gibile se non colla intiera rifusione. Se quell'opera fosse stata
« scritta per ottenere il vanto di uno stile formato all'età di ven-
« tiquattro anni, quanti ne avevi allora, non era possibile di riu-
« scirvi, ma quante bellezze di sentimenti, di idee, di principii di
«legislazione e di morale, quante giudiziose e nuove combinazioni
« in una storia già tanto dibattuta non troverai tu stesso in quel-
« l'aureo libro di cui nessuno simile ha sinora prodotto l'Italia per
« la nostra storia! Onde, convinto del tuo torto, io ti condanno a non
« dirmi più male della tua Storia, sinché non mi nomini un libro
« italiano su cui con maggior piacere e profitto io possa leggere
« tutte le varie vicende di questo stivale, dandomi una migliore
« idea dei costumi, delle arti, delle scienze e della felicità nei di-
« versi secoli, di quello che tu hai fatto ».
Malgrado questi scongiuri la Storia rimase inedita e l'ultimo
saluto di Pietro trovasi al capo secondo della Storia di Milano,
dove, avvertendo che la storia particolare della città doveva scin-
dersi dalla storia d'Italia, aggiunge: « Questo argomento più vasto
u e generale è stato trattato prima del 1766 da un uomo che nel
« fiore della gioventù ha posposto i piaceri, che le grazie della
u persona e dello spirito potevano cagionargli, ai meno volgari
« piaceri di illuminare i suoi simili e di lasciare una non volgare
« memoria alla posterità. Alcune circostanze hanno consigliato il
« difi"erire di render pubblico quel lavoro di erudizione, di fatica
« e d'ingegno non comune. I lettori un giorno giudicheranno se
« quel compendio della storia d'Italia sia stato annunciato da me
w con parzialità e se fautore che li ha fatti piangere colla Panica,
u li ha fatti fremere colla congiura di Galeazzo Sforza, li ha oc-
« cupati colla placida e sensibile narrazione di Saffo, abbia saputo
un'opera inedita di alessandr) verri, ecc. 105
u dipingere al vivo il carattere dei secoli, lo stato della felicità e
« della coltura degli italiani da Romolo sino a noi »».
Questo Archivio non è sede opportuna per la integrale pub-
blicazione della Storia, ma lo è, parmi, per la riproduzione della
prefazione, la quale, insieme a questi cenni preliminari, e ad un
riassunto dei principali argomenti svolti nei successivi trentasei
capitoli e nella conclusione, varrà intanto a fornire qualche mag-
giore notizia intorno alle attitudini storiche, ai metodi, ai giudizi,
alle aspirazioni di uno scrittore milanese, oggi ancora meritamente
stimato pel suo personale valore e per la comunanza con altri uo-
mini illustri che fecero di Milano uno dei focolari del pensiero
moderno.
IL
Prefazione al Saggio della Storia d'Italia.
Mio scopo è stato scrivendo questo saggio di svellere dalle
mani di pochi eruditi la storia nostra per diffonderla nei nostri
leggitori. Perciò ho temuto di fare un grosso libro ed ho diretto
le mie fatiche a scegliere, a restringere, come altri a compilare ed
ammucchiare.
Non si aspetti il lettore descrizioni di guerre, non discussioni
erudite, non genealogie di principi. Forse è più facile il compilare
queste cose che il leggerle.
Nella storia come nella poesia furono gli uomini più coraggiosi
che in qualunque altro genere di letteratura. Ogni nazione, per
poco colta che sia, ha una vasta biblioteca di cronisti: eppur pochi
sono coloro che li conoscono. Non condanniamo questa ignoranza.
Rare sono le opere di tal genere che si meritarono la pazienza
dei lettori.
^ Quanto a me' non ho misurato il mio stile colla benignità, ma
-'i col piacere dei leggenti ; perciò non la imploro, ma ho cercato di
meritarla.
mm: Che mi offre alla mente quello sterminato mucchio di follie e
^ di atrocità, di vizii e di virtù che formano gli annali del genere
umano? Una confusa ed immensa folla di vicende : chi può tutte
descriverle o chi lo deve? Conviene pur dunque ridurre questa
k
I06 EMANUELE GREPPI
gran materia in poco, e, misurando la brevità della vita e la mol-
tiplicità delle cognizioni, non pretendere che gli uomini consacrino
tutto sé stessi per sapere che fecero i loro antenati; onde è ne-
cessario non ignorare quanto di più utile e degno a sapersi giace
involto nelle infinite memorie che ci sono tramandate. Deplori
l'erudito il saccheggio che noi faremo della storia, sfiorandone il
sommo sugo e lasciando nella oscurità il molto che ci par degno
di rimanervi. Noi cerchiamo di costruire, di far pensare. Ciò che
non ottiene questo fine ci è sembrato inutile.
Non è che la storia non possa scriversi con dettaglio. Non
sono mai bastevolmente copiose quelle degli scrittori contemporanei
e le vaste raccolte. Le prime assicurano ai posteri la conoscenza
dei fatti e, se sono anco scritte con inutile abbondanza, egli è questo
sempre un piccolo male in paragone della irreparabile sterilità.
Quanto poi alle vaste raccolte esse sono grandi magazzini, il di
cui pregio è d'esser tale che ogni sorta di letterati vi ritrovi merce
opportuna ai suoi lavori. La sola possibilità che a qualche cosa
servir possa una notizia basta per inscriverla. Debbono essere ster-
minati depositi della memoria umana.
Ma conviene distinguere questi due generi di storia da quello
di chi intraprende la pittura di molti secoli. Il minuto dettaglio e
la vastità della erudizione sono in tal cosa fuor di luogo. Sono
condannati gli uomini a sempre ignorare la storia se ella ha da
esser sempre copiosissima. Conviene distinguere l'erudito dallo
storico. Quello prepara i materiali ed i colori, questo fabbrica e
dipinge; egli è come il punto d'appoggio fra il comune degli uo-
mini e gli eruditi. Presenta ai leggitori il risultato di studi immensi.
Non farò gli elogi della nostra storia. Essa è la più antica di
Europa, se ne eccettuate la greca. Prima ci presenta una nazione
che aveva resi soggetti ed ammiratori tutti i popoli che ella co-
nobbe, il di cui governo, milizia, leggi, scrittori, eroi sono tuttora
la nostra maravigUa ed istruzione. Roma, che era stata signora
delle genti colla forza, lo divenne colla religione. T£, come il senato
romano dava e toglieva i regni ed i trionfatori, consoli e dittatori,
conducevano cattivi i re al Campidoglio, così i pontefici reggevano
l'Europa colla non meno possente forza della veneranda opinione.
Diedero, tolsero scettri e corone, videro supplici ai loro piedi i re,
viderli vassalli e tributarli, unirono armate colle Crociate, le scon-
fissero cogli interdetti.
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. IO7
Non sono opere leggiere i compendii. È facile il compilar la
storia con tutto quello che si sa, non mai rinunciando alla propria
vanità in favore dei lettori, ai quali vogliamo imprimere alta idea
di nostra erudizione coll'opprimerli di mille discussioni. Più illu-
minato è l'amor proprio, più utile è l'opera di ridurre in sugo la
vasta e diradata materia storica, di chi cerca sempre di nascondere
la fatica piuttosto che di palesarla, di chi sparge il suo stile di ri-
flessiva, semplice, facile narrazione e presenta in poco l'estratto
di lunghi e faticosi studii. Egli otterrà di essere letto, egli renderà
universali quelle notizie che stanno sepolte in volumi immensi,
ispidi per molta pedanteria. Non vi è altro mezzo di render comune
la storia.
Non mancò chi si lagnasse che tal sorta di opere abbia fatto
perire le grandi. Si incolpa Giustino di aver fatto perire Trogo
Pompeo, ma fortunato quel compendiatore che faccia cadere nel-
l'oblio le opere voluminose! Bisogna che le abbia rese inutili. Non
avrà perduto molto la filosofia riducendo un grosso libro in un
piccolo.
In questo genere di letteratura tutto dipende dalla buona scelta
e dal non sostituire la nostra persona a quella del lettore, ma bensì
porre noi al suo luogo.
A forza di abituazione negli studii si acquista per essi un grado
di stima, si dà loro una importanza che il lettore non conosce. Da
qui ne viene che poco giudiziosamente attribuendo altrui le nostre
passioni crediamo che i lettori debbansi compiacere di alcune mi-
nute discussioni e di alcune notizie, le quali noi amiamo assais-
simo, come in ogni arte avvenir suole che ella sia stimata all'ec-
cesso dai suoi professori. Ciascuno si ferma volontieri e siede
agiatamente a discorrere del proprio mestiere; ciascuno è chiac-
chierone nell'arte sua. Anche lo storico ha questo difetto se non è
cauto ad evitarlo. La difficoltà è grande. Per intraprendere e con-
durre a fine un'opera faticosa vi vuol molta passione e per iscri-
verla non ve ne vuol tanta. Vi sono dei gravi trattatisti sul modo
di fare il caffè e le perrucche; i loro autori non vedevano che per-
rucche e caffè. Ciò può avvenire in ogni altra materia. Io non so
se mi sia riuscito di sfuggire questi difetti, ben so che ho procurato
di farlo. Ho sempre avuto fretta di correre il mio cammino, ho ri-
spettata la impazienza degli uomini, ho cercato di istruire in buona
fede, non mi sono proposto di rendere il mio lettore un profondo
I08 J^MANUELE GREPPI
erudito, ma un uomo colto. Come chi deve fare un lungo viaggio
con un compagno, cui voglia mostrar le vedute, le campagne, i
villaggi laterali al cammino, dimostra in breve ciò che è degno di
attenzione e prosegue la sua strada senza fermarsi sui due piedi
ad ogni momento ed opprimere il suo compagno lettore con lunghe
disquisizioni e con minute osservazioni su tutti gli alberi, le vedute,
i rottami e le capanne, coll'immancabil successo di render lunga
e faticosa la via, annojato, non istrutto, il socio suo.
Mi sono guardato parimenti da un altro difetto che egualmente
nasce da una lunga dimora in un solo genere di studii. Non vi è,
per avventura, nella storia uno stile più sconciamente falso che il
poetico, quando dipingere vogliamo le azioni ed i fatti come se vi
fossimo presenti. L'immaginazione arriva a trasportare l'erudito in
Atene ed in Roma e quasi a sognare di esservi propriamente.
Quindi si descrivono le battaglie con calore da cui sembra che lo
storico stesso vi stia combattendo ; quindi non mancano le esatte
descrizioni delle passioni, i sospiri, il pianto, l'ira, il valore, la
compassione si dipingono su volti da noi più secoli distanti, si
entra con mirabil coraggio nei pensieri dei principi e si annullano
gli invalicabili anni che stanno di mezzo fra lo storico ed i fatti.
Questa è una falsa vivacità di stile.
Essa non disconviene ai contemporanei: ma nei posteri deve
comprendersi una esatta e cauta discussione del vero e trasparir
dee sempre in' loro, per mio avviso, un timido spirito di dubita-
zione che escluda ogni sospetto di romanzesco arbitrio.
Bisogna conciliarsi fede e benevolenza nei leggitori.
Bisogna perciò che essi vedano nello scrittore un amico che,
seco loro favellando, cerca il vero per quelle poche e scabrose vie
che rimangono dopo molti secoli di menzogne. Egli è incredibile
quanto indisponga gli animi, in ogni genere, lo stile magistrale.
Sembra che ci rimproveri ad ogni momento la ignoranza del leg-
gitore, il quale si offende, diventa nemico, ostilmente va in traccia
dei difetti dell'opera, non ne cura le bellezze: l'amor proprio è un
giudice inesorabile.
Bisogna ancora guardarsi nella storia dalla voglia di sistemiz-
zare. Per poco che si abbia di ingegno se ne può in tal guisa abu-
sare. Si scoprono delle relazioni tra fatti e fatti, tutto si vuol ri-
durre ad un fattizio sistema della mente, si alzano dei vasti edifizii
su due dita di terreno, vi sono, per così dire, i suoi Descartes anche
\
un'opera inedita di ALESSANDRO VERRI, ECC. IO9
nella storia, vi sono i microscopisti che vedono colla immaginazione,
e non cogli occhi. Non cadono in questi difetti gli uomini medio-
cri e freddi; i grandi e fervidi ingegni hanno questo felice incon-
veniente, padre di illustri ed ammirabili delirii. Ma, più si conosce
la storia, più comprendonsi le cagioni degli avvenimenti, più la
mente ne abbraccia una gran massa, più ancora ella è cauta nel
formar sistemi. Chi vede pochi fatti, e sceglie quelli che siano con-
formi alle sue idee, può facilmente sistemizzare; chi ha viste più
lontane vede come possano formarsi questi sistemi, ma anche come
distruggersi.
Ben di rado la fortuna delle vicende presenta allo spirito una
costanza di avvenimenti la quale ci conduca ad una general cagione
di molti effetti produttrice. Ad ogni momento il tumultuoso am-
masso dei delirii e delle crudeltà degli uomini tronca il filo allo
storico che aveva cominciato ad entrare in questo labirinto, ed ei
la ritrova per lo più composta di isolati e disgiunti pezzi difficil-
mente costituenti la materia, molto meno una serie di conseguenze
generali. La storia istessa di tutto il globo non porgerebbe che di
rado questa materia; che sarà in quella di un mucchio di persone
abitanti un piccol canto del mondo? Perciò conviene, preferendo il
timido vero agli splendidi errori, limitarsi per lo più a qualche fug-
gitiva riflessione, e, paragonando fra di loro le parti della storia,
vederne piuttosto le varietà che le somiglianze; perchè quelle son
molte e poche queste, in quelle non ci seduce l' imaginazione, ed
in queste ci lusinga il piacere di ridurre molte azioni ad un sol
punto.
Non v'è per avventura che il popolo romano che nella nostra
storia ci presenti un soggetto di concatenate generali riflessioni. È.
una nazione che passò a traverso di infinite vicende ; è una na-
zione grande e strana in tutte le sue cose, di una costante con-
dotta in molte parti, ove ritrovi vasta materia di ragionare, perchè
è una massa di avvenimenti l'uno all'altro appartenenti e parago-
nabili in molti prospetti. Dopo di questi secoli più non ritrovi sì
grande nazione. Sono crudeli e pazzi, poi imbecilli imperatori che
guidano una mandra di uomini: sono barbari che saccheggiano le
ruine di un vasto impero, che lo squarciano, poi se lo dividono.
Quindi sorgono le atroci controversie fra i contraddittorii diritti
dell'impero e del sacerdozio, cui vanno dietro le fazioni dal seno
delle quali rinacque in Italia la libertà; libertà funesta che la di-
no EMANUELE GREPPI
vise in tante piccole e gelose repubbliche, perpetue nemiche e
spente alfine dall'abuso di una licenziosa indipendenza. Successero
a lei i tiranni, finche, vinti anch'essi da maggiori potenze, le sparse |
forze in queste si riunirono e cangiate le trepide opinioni con
principii più conformi alla nascente cultura, le grandi idee sui
terreni diritti del sacerdozio scemaronsi, e, decaduta quella sola
grande potenza che a sé rivolgeva lo sguardo delle genti, divenne
r Italia una provincia obliata in un canto di Europa, finché con
mezzi meno funesti riscosse T ammirazione diventando la madre
delle belle arti, nelle quali, un tempo maestra, ora le é serbato un
posto men glorioso. Tali furono le vicende sue: e s'elleno presen-
tano un sempre istruttivo e variato quadro, non sono però, per la
loro irregolarità e tumulto, il soggetto di un vasto e seguito si-
stema. Egli è ben vero che la stranezza e varietà delle cose es-
sendo materia di molte particolari riflessioni, esse divengono così
importanti come le generali.
Vi è chi brama ritrovare nella storia i puri e succinti fatti,
lasciando ai lettori il merito di ragionarvi. Questo metodo é ottimo,
quando si possano presentare i fatti così strettamente uniti che,
per poco di finezza abbia il lettore, ne può dedurre le conseguenze.
È lo stesso il far riflessioni come il farle necessariamente fare.
Anzi la storica pedanteria consiste in ciò, di far le più triviali ri-
flessioni, quelle che altro non esigono che un mediocre buon senso.
Ma sono ben pochi i casi nei quali si ritrovi questa fortunata com-
binazione. Troppo si stima colui il quale si crede di poter fare su
di una serie di vicende riflessioni così esatte e vere quante ve ne
farà chi si é consacrato ad esaminarle e conoscerle. Egli é più in
istato da paragonare fatti con fatti, di vedere la materia nella sua
estensione; vi ha impiegato lunghi studii, ne ha fatto il soggetto
delle sue meditazioni. Debbono bensì nascere spontaneamente que-
ste riflessioni; né si veda nell'autore la voglia e quasi il mestiere
di riflettere. Ei sia più frequente nel farle che prolisso, più rapido
che discusso, più agiato che faticoso ; riunisca al momento i fatti,
poi li abbandoni e segua il suo viaggio; non mai esaurisca la ma-
teria; indichi e lasci pensare.
Non è esatto quel precetto che le riflessioni debbano essere
fatte per la storia, ma la storia per le riflessioni. Basta che in
esse vi regni uno spirito di filosofia. Se non formeranno una sto-
ria formeranno un buon libro.
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI. ECC. Ili
Non bisogna mai essere municipale nella storia, non bisogna
restringere la piccola mente in un palmo di paese. È prodigiosa-
mente modesto chi non brama di aver qualche voto dagli stra-
nieri. Ogni serie di vicende è capace di interessare generalmente
i leggitori, se sia dettata dal condimento di ogni cosa, cioè dallo
spirito di filosofia. 11 filosofo rende importante tutto ciò che passa
fra le sue mani: non v'è cronaca di un villaggio che egli non sa-
pesse render più grande che non quella dei più vasti regni scritta
da raccontatori di battaglie, di leghe e di paci, di matrimonii e
successioni di principi.
Debbo i miei omaggi alla illustre memoria del signor Mura-
tori. Quel gran letterato ha tanto scritto sulle cose nostre che ad
(ogni momento bisogna ricorrere a lui. Egli è dappertutto. Prima
l di lui sapevamo poco della nostra storia; dopo le gloriose sue fa-
tiche non abbiamo da invidiare nessuna nazione. Non mi si op-
ponga di essere il suo compendiatore. Egli comincia da Augusto,
io da Romolo; e spero svanirà tal sospetto anche di quei secoli
dei quali egli scrisse, confrontando questo mio opuscolo colle va-
ste opere sue. I suoi gran lumi mi hanno dato il filo, ma, quando
l'ebbi fra le mani, camminai da me stesso.
11 metodo che scelse quel rispettabile uomo non mi sembra il
migliore, quantunque il più comune: intendo il dividere la storia in
annali. Ella così tutta si sfracella: la catena degli avvenimenti si
frange ad ogni passo. La divisione non è mai arbitraria, molto
meno può essere così regolare nelle vicende umane. Ella nasce dai
fatti stessi, essi determinano i confini del racconto, non già i do-
dici segni del zodiaco.
Da qui ne viene che la storia diventa una gazzetta, e come
l'Ariosto, si troncano a mezzo tutti i racconti. Si lascia Rinaldo per
parlare di Angelica. Questo inconveniente si vede negli annali del
signor Muratori e vi sarà in ogni opera di tal genere. Tal metodo
rende ancora difficile l' intelligenza dei fatti, e reca alla memoria
una confusa serie di avvenimenti che più si sminuzzano, più si
involgono e si confondono.
Ho creduto necessario il citare gli autori, non tanto perchè mi
si credesse, quanto perchè li ho risguardati come una interessante
parte della storia. Importa sapere chi di mano in mano la scrisse.
Questa filologia costa nessuna fatica ed è di molta istruzione. Per-
ciò io non credo da seguirsi il metodo degli antichi, grandi nemici
112 EMANUELE GREPPI
delle citazioni. Forse alcuni le temono perchè danno in mano al
lettore il filo per mettere a prova la fedeltà ed esattezza del rac-
conto; ma bisogna fare in guisa di non avere di questi timori. Non
sono però stato così scrupoloso di citare ad ogni parola. L'ho fatto
quando mi parve necessario.
Chieggo per fine di esser giudicato con quella imparzialità con
cui ho scritto. Non esigo altro sentimento nel lettore che questo:
ho desiderato di scrivere in modo che ei solo mi bastasse.
III.
« Non sono leggieri i compendii.... utile è l'opera di chi cerca
« ridurre in sugo la vasta e diradata materia storica.... di chi
« sparge il suo stile di riflessiva, semplice, facile narrazione e pre-
u senta in poco 1' estratto di lunghi e faticosi studii. Egli otterrà
« di esser letto, egli renderà universali quelle notizie che stanno
« sepolte in volumi immensi, ispidi per molta pedanteria.... Non
« v'è altro mezzo per render comune la storia w.
Questo problema non ha perduto interesse. Anche oggi si vor-
rebbe profittar meglio del grande materiale di erudizione e di cu-
riosità che va accumulandosi per merito di molti studiosi, ma an-
che oggi si è più fortunati nell' opera di produzione di un nuovo
materiale storico e critico che in quella della sua difi"usione fra
un conveniente numero di lettori.
La prefazione espone a questo riguardo precetti interessanti;
ma poiché meglio dei precetti valgono gli esempii, né potendo of-
frire qui l'opera intera, procurerò con qualche estratto e con qualche
commento di indicare in che modo il Verri abbia messi in pratica
i suoi stessi precetti.
lì principale merito letterario della Storia sua consiste dunque a
mio giudizio, nella felice combinazione di una rapida sintesi di
fatti con riflessioni filosofiche e con digressioni aneddotiche giudi-
ziosamente introdotte, le quali, togliendo la consueta aridità dei
compendi, danno molta varietà al racconto e gli imprimono spesso
l'evidenza e la naturalezza di speciali monografie.
L' autore, fedele alla promessa fatta nella prefazione, si con-
sidera davvero come la guida del lettore in un rapido viaggio e
gli mostra un po' saltuariamente quanto gli par degno di atten-
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. II3
zione senza opprimerlo con minute osservazioni; ma lo invita al-
tresì ad esaminare con cura qualche modesta particolarità, quando
ciò reputi opportuno per illustrare ed imprimere in lui la figura
tipica del paesaggio.
« Il filosofo " ; scrive Alessandro Verri, e par quasi dica del
Taine ; « rende importante tutto ciò che passa per le sue mani ; non
u v' è cronaca di un oscuro villaggio che egli non sappia render
« più grande che non quella dei più vasti regni ».
Così, per esempio, al capo ottavo si indugia alquanto nel con-
siderare certi speciali artifizii della eloquenza romana^ rappresen-
tandoci Cajo Gracco accompagnato nelle concioni da un suonatore
di flauto, che dà il tuono alla sua voce, e mostrandoci in Cicerone
uno scolaro di Roselo il comico più famoso dei tempi suoi.
Così al capo dodicesimo, per renderci evidenti gli eccessi dei
cristiani contro le reliquie del paganesimo, trascrive una legge di
Valentiniano stigmatizzante gli ecclesiastici che, « armati di ferro,
(t deturpano i cadaveri e scordati di Dio portano ai sacri altari le
a mani ancor lorde di ceneri ».
Al dieciassettesimo ci descrive il conclave che elesse Alessan-
dro III e il cardinale Ottaviano che, « perdute le sue speranze,
« corse a strappare la cappa d'indosso al nuovo papa e stava per
« ricoprirsene egli stesso, se un senatore che era presente non
« glie lo avesse impedito. Allora Ottaviano si rivolse furiosamente
u verso di un suo capellano gridando che gli desse la cappa rossa
« che aveva portato, tanto era deciso di voler essere papa. Con
u somma fretta se la pose sulle spalle, e, per il grande affanno
« di vestirsene, non trovando il cappuccio, se la mise al rovescio,
« lo che mosse alle risate. Fu perciò chiamato dai suoi avversari
« papa scelto a rovescio e papa smanta-compagno ».
Al decimonono, ad indicar la ferocia degli odii fra guelfi e
ghibellini, cita un fatto quasi domestico narrato dal Fontano: « Io
« ho udito, essendo fanciullo, raccontare con molte laigrime dalla
u mia avola Leonarda quanto fossero grandi gli odii che certe fa-
« raiglie esercitavano fra di esse. Fu preso un tale della fazione
^ u contraria, fu tagliato a pezzi; gli fu strappato il fegato e fu dai
« capi di quella fazione arrostito nelle bragie e carboni accesi.
« Poi fu tagliato in bocconi minutamente e si distribuì per cola-
« zione ai cognati a tal pasto invitati ».
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXII, Fase. V. 8
114 EMANUELE GREPPI
Al ventesimo secondo trascrive dal commento a Dante di Ben-
venuto da Imola il racconto di quanto capitò al Boccaccio in Mon-
tecassino, per farci conoscere come gli studi fossero nel Trecento
trascurati anche nei conventi più celebri.
Più avanti dedica dieci pagine a piacevoli estratti delle pre-
diche di frate Domenico Gabriele da Barletta, come in precedenza
altre dieci sono riempite da curiose citazioni a spese di Bartolo e
di Accurzio, celebri giureconsulti; e finalmente un intero capitolo
di venti pagine tratta del pubblico atto di fede seguito in Palermo
nel 1724 che descrive colle minuzie di un corrispondente di gior-
nale, ricopiando interi brani della relazione del dottor Antonio
Mongitore consultore del santo uffizio.
A questi innesti egli teneva in modo speciale e li difendeva
con calore contro chi ne contestava la opportunità.
a Non gli piace parimenti » (scrive al fratello a proposito dei
giudizii dell'abate Vauxelles) « il capitolo del Barletta e dice che
« questa è roba buona per M.'' de Saint Foin nei saggi di Parigi,
« ma non per un' opera grave, quasicchè la bizzarria di quelle
ti prediche non fosse una pittura molto viva dei costumi e della
« letteratura di quei tempi ».
Queste macchiette episodiche, ritratte con brio e giudizio, do-
vrebbero risaltare sullo sfondo dei grandi avvenimenti storici; né
il Verri intese sottrarsi a questo suo principale dovere, poiché
infatti la Storia è tutta divisa in capitoli dove si raccontano con
ordine le vicende di ogni epoca in modo da far vedere « tutti i se-
« coli alla medesima distanza, onde i fatti di ciascuno non mi sem-
« brassero o più grandi o più piccoli di quello che essi sono " (i).
Se però la breve narrazione è per misura equamente distri-
buita, non potrei dire altrettanto della evidenza e della abilità del
racconto. Vi sono dei capitoli, anche di semplice narrazione, pro-
prio bellissimi, altri invece monchi e confusi.
La insufficienza della narrazione storica, dal Verri riconosciuta
nella postilla e già da lui anche prima addotta più volte come una
delle ragioni per non consentire la pubblicazione, gli era stata su-
bito fatta notare da parecchi fra i lettori privilegiati del manoscritto.
Di fronte a queste critiche la sua opinione variò fra due estre-
mi. Da principio, affettò di proposito una eccessiva noncuranza dei
(i) Capitolo ultimo, conclusione.
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. I r5
fatti; più tardi troppo si commosse pei difetti della narrazione; si
giudicò superato dal Denina e dal Tiraboschi, e non accettò il giusto
avvertimento del fratello che gli diceva in vari modi potersi trat-
tare la storia, essendoci dei libri destinati a riflettere sugli avveni-
menti, altri invece a raccontarli.
L'originaria e più completa giustificazione del metodo da lui
seguito trovasi in una lettera del 14 aprile 1770: « lo ho studiato
« talvolta una settimana per scrivere due righe e mi sarebbe stato
u molte altre volte più facile scrivere una facciata che una parola.
u Potevo estendermi, ma non avrei detto in molto quello che ho
u detto in poco ; potevo fare del brodo, ma ho voluto fare della
I; u gelatina, ma pure pochi conoscono quanto costa un compendio,
^ u e per soddisfare il volgare delle persone bisognerebbe stendersi
; « assai e riferire le diverse opinioni sui punti controversi e rifon-
« dere nella narrazione dei fatti tutta 1' erudizione su la quale ci
« siamo appoggiati; ed io so che ho scritto tre volte più di quanto
« ho composto e che se avessi a fare una apologia di quanto
u avanzo, caccierei fuori una parata di non comune erudizione,
« dalla quale si vedrebbe che, per dire una parola, ho esaminato
« e paragonato gli autori, nascondendo la fatica e dando al let-
'< tore solamente il risultato ».
Tuttavia se un compendio critico e polemico non può e non
deve esaurir la materia, bisogna pur riconoscere che anche in un
compendio si poteva far meglio, tanto più che V autore erasi pre-
fisso di scrivere una storia popolare, la quale, insieme a riflessioni
argute e profonde, doveva presentare le notizie in modo chiaro
ed abbastanza completo.
Probabilmente quando egli scriveva la giustificazione sopra ri-
ferita, trovavasi appunto in quel giusto punto di mezzo fra i due
estremi, partendo dal quale avrebbe potuto seguir la strada mi-
gliore; ma la storia era già scritta ed a correggerla la mano si sen-
tiva impotente, perchè narrazione, riflessioni, episodi erano stati
fusi insieme dal calore di una eletta mente giovanile ; cosicché
scomporne il prodotto cogli scrupoli, colla riflessione, colla erudi-
zione successivamente acquistate equivaleva a distruggerlo senza
rimedio.
Ritorniamo dunque un momento con lui ai felici errori di una
vigorosa gioventù, ed udiamone le care esagerazioni:
« La prima spedizione », scrive al capo quarto a proposito
Il6 EMANUELE GREPPI
delle guerre Puniche, « fu in Sicilia, in cui più che le guerre (no-
« josa e funesta monotonia negli annali di tutte le nazioni) im-
u porta r osservare come il console Valerio portasse da Catania
« un orologio solare che fu esposto in Roma pubblicamente.... »
(Intorno a questo fa una diligente discussione).
Più diffusamente al capo ventesimosesto: « Non v'è parte de-
u gli annali umani più difficile da rendersi istruttiva che le batta-
u glie. Squallida ed infruttuosa materia di ragionamento. La storia
« di tutte le nazioni è la stessa in questo argomento. La miseria
u degli uomini l'ha reso così comune che non è più importante. 11
« signor Muratori ha riempito i suoi altronde pregevoli Annali di
« tutte le piccole guerre dei guelfi e ghibellini, tralasciando la storia
« e cclesiastica e facendo un' opera separata di ciò che riguarda i
« costumi, le arti, le lettere, il governo degli italiani. Chi può di-
« pingere senza questi colori? Come sarà storia degli uomini
u quella che non li fa conoscere? Chi la divide in civile, in ec-
« clesiastica, in letteraria, in filosofica, fa uno scheletro di cia-
u scuna ».
Questa suddivisione della storia, che il Verri in massima giu-
stamente condanna, è però parzialmente subita da molti per la
estrema difficoltà di ordinare tante cose in un tutto armonico, e
il Verri stesso non sempre ha saputo vincere tale difficoltà, quan-
tunque vi ci sia provato molto valorosamente.
Finalmente in un periodo notevole del capo ventesimonono
scrive: « Le guerre, gli errori, le fraudi formano la vasta ed igno-
« mimosa porzione delle memorie umane. La necessaria connes-
« sione degli avvenimenti mi trattiene mio malgrado in tale argo-
ii mento ; io lo abbandono quando posso e mi rifugio alla storia
« delle pacifiche arti dell' ingegno, perchè mi consoU. In lei sola
u veggo gli uomini ».
Su per giù tutti i novatori hanno gli stessi pregi e gli stessi
difetti. Si infervorano per il perfezionamento di qualche lato man-
cante dell' arte o della scienza loro, ma nel fervore dimenticano
spesso certe esigenze che, appunto perchè venute prima, sono or-
dinariamente fondamentali.
A rendere poi meno spiccati i periodi storici, quali siamo abi-
tuati ad impararli nelle scuole, contribuisce un' altra particolarità
che non potrei chiamare un difetto, ma una tendenza.
I passaggi da un epoca all' altra, dalla repubblica all' impero
un'opera inedita di ALESSANDRO VERRr, ECC. 117
romano, da questo alla dominazione dei barbari, dalle libertà co-
munali alle signorie, dalla indipendenza d'Italia alla oppressione
straniera, anziché essere, come ordinariamente si usa, fortemente
rilevati, vi sono invece studiatamente attenuati in modo che il pas-
saggio risulti quasi insensibile.
E qui apparisce, sia pure con qualche danno del lettore im-
preparato, il pensatore moderno che attenua l'importanza improv-
visa dei più strepitosi avvenimenti, perchè li considera predisposti
da fatti precedenti.
La teoria della evoluzione, rivelati al Verri dal Vico, spunta
spiccatamente in certi passi.
Così al capo decimosettimo, descritto il promettente risorgi-
mento civile e commerciale dei comuni italiani, egli aggiunge: « Ma
u non era tuttora compiuta la misura di quelle serie, lepide e tristi
« vicissitudini per mezzo delle quali passano tutte le nazioni per
u fare sempre il disastroso e lento viaggio dalla barbarie alla
« coltura ».
Altra volta, trattando della nobiltà, e avvertita la analogia fra
il costume feudale di armar cavalieri, la usanza germanica di pre^
sentare con solennità le armi ai giovani nelle assemblee della na-
zione, e il rito romano di creare gli equites, consegnando loro il
cavallo e l'anello pubblico, conclude: « Le distinzioni sono sem-
« pre in origine conformi alla utilità pubblica ed alle idee che di
« essa ha la nazione. Gli onori sono distribuiti dal bisogno. Così
« quando si credettero uomini utili alla società quelli che in tempi
« di anarchia sapevan le leggi ed avevano più chiare idee di giusti-
« zia, i giureconsulti, si usò di dar loro la toga con certi esterni
« atti di onore. E per lo stesso principio che solennemente si fa-
« ceva un giureconsulto ed un cavaliere. Credo che con questi
« principii si possa trovare 1' origine della nobiltà in tutte le na-
« zioni e qual sia quella conforme ai veri vantaggi di ciascuna ».
In un terzo passo precorre in certo modo la politica dei no-
stri giorni, aliena dalle guerre ambiziose in Europa, ma disposta
ad affrontare per interessi economici guerre più lontane. Ivi : « L'in-
ai dustria non andò esente dalle gelosie. Genova, Pisa, Amalfi, Fi-
ii renze erano in continue dissensioni per escludersi a vicenda dalle
« negoziazioni d'Oriente; ma son ben diverse le guerre della in-
« dustria da quelle della ambizione Lo spirito dei suoi abita-
« tori rivolto, alla industria, la forza delle repubbliche di molto
Il8 EMANUELE GREPPI
u accresciuta con ben corredate marittime flotte e colle dominanti
« ricchezze sembrava dover ricondurre la romana coltura Senza la
u ferocia dei costumi di nazione guerriera. Era in istato l'Italia di
« soffrire degli urti senza minare. 11 gran commercio ha molti
« scampi. Egli ripara presto anche le perdite grandi »». (Cap. XVII),
Altri ragionamenti filosofici del N. intorno alla storia meno si
staccano da concetti anche ai suoi tempi abbastanza diffusi ; egli
espone però con forma sua propria che dimostra pur sempre ori-
ginalità di pensiero.
La migliore delle sue sintesi trovasi al principio del capo ven-
tesimoprimo come spiegazione della degenerazione dei nostri co-
muni in despotiche signorie: « Dal seno delle discordie nasce la
« libertà. Ella s'invecchia, degenera nella anarchia e si incurva nel
« despotismo. Tali furono, tali saranno le vicende delle repubbli-
« che. 11 popolo sente la tirannia e si rifugia nella libertà con moti
u violenti e convulsivi, ma se la libertà non è fondata sulla egua-
« glianza di fortune, i ricchi sanno a poco a poco corroderla, per-
« che nello stato civile più vai l' ingegno che la forza, come al-
« r opposto questa e non quello diede gli imperi nelle primitive
« unioni del genere umano. Le astute ricchezze con lento ed oc-
« culto artificio non perdono occasione, accelerano talvolta l'inchi-
« namento ai disordini per rendersi necessarie, finche il popolo,
« stanco di sé- stesso, chiede in beneficio quel despotismo che
« odiò ».
Cogli stessi principi è condotto il ragionamento sulla storia
romana; ma di questo ha già parlato con la competenza che gli è
propria il professore Attilio De Marchi in uno scritto inserito nel
volume: Dai tempi antichi ai tempi moderni — da Dante a Leo-
pardiy offerto da settanta insigni scrittori per le nozze di Michele
Scherillo e di Teresa Negri, come una specie di plebiscito intellet-
tuale in omaggio allo sposo illustre e alla memoria indimenticabile
del padre della gentile sua sposa.
Nota il De Marchi come la storia del Verri « risenta di quello
« spirito di indipendenza che in quei tempi, auspice la Francia,
« pervadeva tutto e faceva il giudizio individuale forte e audace
« contro ogni tradizione e contro ogni autorità » ; riconosce in lui
una mente acuta che pensa e vuol far pensare, cita parecchi dei
suoi giudizi che reputa felicissimi e arguti, e conchiude : «< Difetti,
« insufficienze, errori, certo vi sono nella Storia romana di questo
un'opera inedita di alessa ni ro verri, ecc. 119
« saggio inedito del Verri, ma vi sono pure notevoli pregi di chia-
« rezza, di sobrietà, di senso critico e di acutezza filosofica, e poi
u quello grande di farsi, leggere con piacere e con utilità anche
« dove si dissente dall'autore. Quando poi si ricordi l'intento suo
« di parlare non agli eruditi, ma ad un più largo pubblico.... si
u pensa a ragione che 1' autore meglio avrebbe provveduto alla
« coltura del paese e forse al nome proprio con questo volume
« di storia romana, dove qua e là pare lampeggino dei bagliori di
« critica nuova, che non colla scenografica rappresentazione degli
« eroi paludati e declamanti al sepolcro de' Sci pioni ».
I sentimenti politici dell'autore già si rivelano in questa prima
parte, ma, riservandoci di osservarli meglio nello sviluppo della
storia moderna, diremo ora soltanto che, analogamente a molti altri
suoi contemporanei, professava in teorica la eccellenza del go-
verno democratico e repubblicano, ma praticamente riteneva « il
« più dolce governo esser quello di un dispotico, illuminato e vir-
ii tuoso principe ». Tutte le sue punte invece riservava contro gli
abusi della aristocrazia e del sacerdozio, tantoché questi precon-
cetti alterano talvolta anche la serenità dello storico.
Più personale è un suo giudizio sulla instabilità della costi-
tuzione romana, che il De Marchi ha ritenuto tanto notevole da
riferirlo per esteso; e nel quale non divide la comune ammira-
zione per la sapienza delle leggi romane. Infatti pur riconoscendo
che i< per intrinseca loro natura i liberi stati non giacciono in
« quella tranquillità in cui dormono i regni despotici, non poten-
" dovi essere letargo dove è libertà » ; continua dicendo che non
perciò poteva indursi a credere fosse salutare a Roma tanto con-
trasto di potenza con potenza. « Non era » (prosegue) « quell'on-
« deggiamento che preserva le acque dalla corruzione, ella era una
« furiosa tempesta in cui tutta naufragò la repubblica ».
Questa ripugnanza ai disordini, alle agitazioni, alle illegalità,
non ostante il prestigio del popolo e della storia romana, ci ri-
vela già il conservatore avversissimo alla rivoluzione francese ;
anche nel giovane baldanzoso, ribelle alla tradizione e un poco an-
che alla autorità, e ci mostra già predisposta la crepa, che, grada-
tamente allargandosi, lo separò poi dal fratello e dalle stesse con-
vinzioni che avevano ispirato questa Storia.
Colla caduta dell'impero comincia propriamente la storia d'Ita-
lia quale oggi l'intendiamo, e qui ci interessa osservare come un
I20 EMANUELE GREPPI
pensatore distinto la considerasse, senza scorgere come termine
ultimo dei suoi destini l'unità nazionale che abbiamo raggiunto.
Non mancava a lui certamente la coscienza di una nazionalità
italiana, il sentimento di appartenervi e un vivo affetto per la pa-
tria; nelle sue lettere e nei suoi scritti appare anzi frequentemente
il dolore di saperla, e in parte anche a ragione, poco stimata dagli
stranieri ; non manca lo studio di sollevarne le sorti né manca in
lui la speranza di un vicino risorgimento.
Anzi le ultime parole di tutta l'opera son queste: « Vi è un
« numeroso partito che si querela e mugge e muove scandali con-
« tro la oltremontana letteratura, ve ne è un altro forse più nume-
« roso, ma non rumoreggiante, che nel silenzio e nella solitudine
« prepara ai posteri piiì tranquilla filosofia Alcune nuove opere
« annunciano già 1' avvento della vicina filosofia, ne hanno fatto
u risuonare le prime sue voci maestose; se gli ululati si alzarono
u contro di esse, caddero anche ben tosto nel discredito. È un fatto
« di molta considerazione ".
Ma se ansiosamente tendeva al risorgimento morale, econo-
mico ed intellettuale della nazione, nulla accenna in lui al risorgi-
mento politico, quale noi l'abbiamo voluto e raggiunto. I brevi passi
che si riferiscono alle condizioni politiche del tempo suo indicano
un certo quietismo, che non è certamente sentimento di soddisfa-
zione, ma che in sé però non racchiude speranza e volontà di so-
stanziali mutamenti.
A un passo che trovasi nella prefazione, aggiungeremo ora in
proposito altri due successivi.
Al capo trentesimosecondo, dove riassume le vicende e le con-
dizioni d'Italia verso la fine del secolo decimosettimo, scrive:
« L'Italia non ci presenta più un grande soggetto di storia. Qual-
« che guerra che, come di rigurgito, la inondava di tempo in tempo
u la toglieva dalla oscurità, poi vi ricadeva. La potenza del seg-
« gio [pontificio] era decaduta, la maggior parte di questa penisola,
« soggetta al dominio spagnuolo, era una dimenticata porzione di
« vasti regni. Gli altri piccoli principi che la dividevano temevano
« le rivoluzioni, non le cercavano. Così era steso sull'Italia non
u so se dica il letargo o la tranquillità. La sola storia faceva ri-
« sovvenire che ella aveva dominato l'Europa prima colle armi
« dei romani, poi colla religione •».
E parimenti nella conclusione: « Tutto il seguito di questa
UN'oPER\ inedita di ALESSANDRO VERRI, ECC. 121
« Storia avrà potuto insegnare che l'Italia non ebbe mai tempi
u più tranquilli. Non è la conquistatrice dei romani, non è 1' og-
u getto delle prede di cento nazioni, non ha tributaria tutta TEu-
« ropa colla venerazione del Seggio, non è squarciata dalle fazioni,
u non divisa fra molti tiranni feudatarii; ella è quasi oscura, non
u rumoreggia di grandi sfortune. Le rimane qualche guerra pas-
« saggiera, quando tutta l'Europa è in armi e poi ritorna la tran-
« quillità. Chi conosce la storia si contenta anche della sola assenza
« dei mali. Chi paragonerà il governo degli attuali principi con
« quello dei trapassati, avrà di che consolarsi ».
La conclusione non può certamente procacciare vanto di pro-
feta al nostro autore, che, non vecchio ancora, doveva assistere
alla più furiosa tempesta di passioni e di guerre, ma, avvicinando
questa conclusione ad un altro passo della storia, la profezia vien
fuori a sua stessa insaputa.
In un passo cioè del capitolo ventesimo, a spiegazione dell'or-
ribile divampare di contese fra guelfi e ghibellini, aveva scritto
questa profonda verità : « L'uomo sociale ha tante passioni che i
« soliti avvenimenti umani non bastano ad esercitarle tutte. Vi vo-
« gliono, per occuparlo, delle rivoluzioni. Le desidera, se ne com-
u piace. Lo spirito di partito è perciò facilissimo a destarsi; è la
u malattia più comune dello spirito umano. In ogni ceto di uomini
u si introduce, nessun teatro ne va esente. Le passioni degli uo-
« mini, condensate nel recinto delle città, si urtano violentemente,
u sembra che non vi possano contenere e che rigurgitino ".
Concordando i due passi se ne deve dedurre che, per quanto
la storia possa ammonirci della convenienza di accontentarci della
semplice assenza dei mali, tuttavia non se ne appaga la natura
umana; onde sorti oscure e tempi eccezionalmente tranquilli prelu-
diano alle rivoluzioni, non bastando i soliti avvenimenti ad eser-
citare tutte le passioni dell'uomo sociale.
E così infatti la grande rivoluzione esplose da una società che
pareva indolente, pacifica e serena.
Ma se con qualche sforzo si può giungere a far del Verri il pro-
feta di prossimi rivolgimenti, nessuna dialettica può mostrarcelo come
un sognatore della unità nazionale. Ho cercato in ogni sua lettera,
in ogni suo scritto quanto anche lontanamente vi potesse alludere,
ed una sola volta ho trovato ne discutesse come di una semplice
ipotesi, ma quell' unica volta conclude per contestarne la coiive-
122 EMANUELK GREPPI
nienza. L'accenno trovasi in una pagina inedita destinata alla terza
parte delle Notti Romane: « Quand'anche », egli scrive, «l'Italia
« fosse tutta impero dello stesso monarca, ella sarebbe sempre
« meno ampia e poderosa della Iberia e della Allemagna e di tanti
« altri paesi più di lei vasti e temuti, dove ora per quella mera-
« vigliosa podestà [del pontificato] sorge regina e riverita e stende
« l'impero suo di pace nelle più remote spiagge della terra ».
Sebbene questa pagina sia stata scritta dal N. un quarto di se-
colo dopo la Storia, quando le sue opinioni eransi modificate, tut-
tavia, per quanto riguarda la missione nazionale del nostro paese,
non dovevano differire molto dalle {'recedenti.
Me ne convince una lettera di Pietro in data 24 giugno 1775,
nella quale, pure approvando le rivendicazioni del potere civile
sul potere ecclesiastico, ammette che soltanto dal papato l'Italia può
aver forza e grandezza. « La pace che gode l'Europa, » egli scrive,
u la buona armonia fra le due antiche rivali, Austria e Francia,
u sono le più fatali combinazioni per Roma, di cui la sussistenza
« e la gloria dovrebbero interessare ogni italiano, perchè sono il
« solo mezzo col quale l'Italia ancora si nomina ed ha qualche in-
« fluenza in Europa. Togli Roma, e siamo considerati poco più dei
« greci, cioè gente ingegnosa, gloriosa un tempo, ma resa avvilita
« e spogliata di ogni gloria. Anche Roma è poi il ricovero di ogni
« italiano che, se per azzardo si trova male nella sua città, può ivi
« ricoverarsi e avere cariche, dignità superiori a quelle che po-
« trebbe sperare dal proprio sovrano ».
In Pietro però abbiamo talvolta qualche lampo dell' avvenire
che non troviamo in Alessandro. In questa stessa lettera, per esem-
pio, discutendo che cosa avrebbe dovuto fare il papa per riformare
la propria autorità allora così compromessa, gli vien fatto di pen-
sare che, rispondendo ai sovrani, dovrebbe insinuar loro: « La
« base dei regni essere l'opinione, la voc^ dovere essere vuota di
« senso se non emana dalla Divinità, la forza delle truppe dipen-
ii dere essa stessa dalla opinione degli uomini che compongono
« l'armata.... ».
In altra del 1782, aggravandosi la rovina della autorità ponti-
ficia e, considerandone un'altra volta gli effetti in relazione della
gloria nazionale italiana, conclude: « Io augurerei bene per il tempo
« avvenire se l'edificio crollasse e se la naturale attività degli ita-
« liani, resa più libera almeno nei suoi pensieri, potesse operare
UN OPERA INEDITA HI ALESSANDRO VERRI, ECC. I23
« per sentimento e non per imitazione, e ciascun uomo fosse lui
<i medesimo. Ma, ripeto, questo è un problema ».
Anche in .questi passi più arditi, non si va però oltre alla li-
bertà di pensiero. La libertà 4)olitica e tanto meno 1' unità nazio-
nale non vi trovano un posto.
Questa disposizione dello spirito, e non diversa poteva essere
quella di Alessandro anche nel tempo in cui divideva le idee più
avanzate del fratello, influisce sulla materia del racconto, tantoché
ci sembra percorrer l'Italia con itinerario diverso da quello che
oggi ci è ordinariamente tracciato. Le cime ci si presentano con
forme diverse, sostiamo in luoghi oggi poco frequentati, lasciando
lontani o traversando di fretta quelli che oggi ci ospitano più lun-
gamente.
Il passaggio del dominio d'Italia dai Goti ai Greci, dai Greci
ai Longobardi, da questi ai Franchi è raccontato fiaccamente e
svogliatamente^ senza sentire che l'uno o l'altro dei popoli barbari,
che avevano fatta del nostro paese la loro unica sede, avrebbero
potuto essere i creatori della nuova Italia. Nelle molteplici elezioni
di re o di imperatori, avvenute dopo la divisione dell'impero di
Carlo Magno non par che l'A. avverta una gran differenza se il regno
rimaneva indipendente, oppure era offerto, come seconda corona,
a un sovrano straniero. Soltanto al tempo di re Arduino egli os-
serva come allora si determinasse una certa reazione degli italiani
contro i tedeschi. Freddo e incompleto è il racconto della prima
Lega lombarda, che presso di noi divenne una epopea nazionale.
Tratta assai poco del dominio dei Visconti e meno ancora della
Casa di Savoja, tantoché Emmanuele Filiberto non é neppure no-
minato, e in genere, curiosissima cosa in uno scrittore milanese,
le vicende del mezzogiorno sono descritte con cura ed esattezza
molto maggiore che non quelle del settentrione.
Delle libertà comunali discorre assai bene in alcune pagine di
considerazioni generali; ma troppo poco, anche per un compendio,
dei fatti storici che vi si riferiscono; nulle quasi le notizie di Ge-
nova, scarse quelle di Venezia, più abbondanti per Firenze perchè
più strettamente legate alla storia di Roma e dei papi; ma la caduta
della sua libertà é commemorata con queste sole parole: « Altro
« non perde Firenze col ricevere dall'imperatore un sovrano che
« i mali delle fazioni ».
Tutta invece la cura dello scrittore è assorbita nel raccontare
124 EMANUELE GREPPI
e satireggiare l'opera del sacerdozio costantemente intesa a pro-
cacciarsi terreni diritti. Tutta la sua erudizione, tutto il suo spirito^
tutta la sua filosofia a ciò sono rivolte, onde la campagna contro
il sacerdozio la comincia tanto alla lentana, che prime sue vittime
ne sono i pitagorici: « Si facevano digiunare i novizii per molto
« tempo, loro si imponeva vestire dimesso e tacere, dormire po-
« chissimo. Tollerare dovevano mille insulti fatti a bella posta per
« avvezzarli al disprezzo, alle vessazioni d'ogni sorta. Era loro co-
« mandato il silenzio di due, tre, sino a cinque anni, nello spazio
« dei quali non dovevano che ascoltare. Qual uomo di buon senso
il avrebbe avuto la docilità veramente inimitabile di fare tal novi-
u ziato da cappuccino o da certosino col pericolo di ritrovare alla
« fine di tanti incommodi qualche impostura? È difficile che abbia
« questa ignorante pazienza un uomo di merito ».
Siccome però sulla strada dei certosini si imbatte anche nei
framassoni, non manca di dar loro, sempre a proposito di Pitagora,
una «stoccata: « La stampa, quel flagello di ogni mistero, e qualche
« spergiuro, ha fatto conoscere a che si riducesse il preteso arcano
« dei franchi-muratori, cui l'oscurità dava tanta importanza. Forse
u altro non mancava che lo stesso mezzo per far vedere che quelle
« sette antiche avevano di comune con questa, nonché il mistero
« ed i simboli, anche la futilità ».
Altre occasioni, durante il racconto della storia romana, gli si
presentano, ed egli non le trascura, per frustare cogli stessi in-
tendimenti i suoi contemporanei ma, per non dilungarci, saltiamo al
primo ingresso del pontefice romano nella sua Storia: « I papi in
" Roma cominciarono a godere di qualche considerazione. Le dame
« principalmente troviamo che avevano un gran rispetto per quella
« dignità. L'imperatore Costanzo, fra i varii vescovi che aveva man-
« dato in esiglio perchè si opponevano all'arianesimo che egli favo-
« riva, fuvvi ancora il pontefice Liberio (sic). Le dame romane tutte
« in corpo pregarono l'imperatore perchè lo richiamasse ». E con-
tinua a mostrarceli come i beniamini delle dame, citando un passa
di Ammiano Marcellino e un altro di S. Gerolamo, che per verità
si riferiscono a certi preti insidiatori, non ai pontefici, ma che,
abilmente collegati col primo, riescono maliziosamente a completare
il quadro.
Pili avanti, sempre per trovare i papi in difetto, prende par-
tito per chi pretende avere papa Innocenzo permesso che dai pa-
I
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. I25
gani si facessero dei sacrifizi agli Dei per scampar Roma da
Alarico.
Caduto l'impero romano, satireggia Gregorio Magno perchè
usava chiamare i Longobardi: « nefandissima gens », e i loro re:
Vostra Eccellenza. Dovendo correre in questa rassegna, saltiamo
ad Adriano II, che aveva minacciato di scomunicare Carlo il Calvo,
ma aveva finito col raddolcirsi e promettergli l'impero dopo averne
ricevuto un solenne rabbuffo nella risposta che gli diceva: non sa-
pere dove avesse mai trovato che un re di Francia fosse obbligato
di mandare a Roma un reo cpndannato secondo le regole, e che né
lui, né la sua stirpe si erano mai ritenuti luogotenenti dei vescovi.
Nel descrivere le condizioni d'Italia sullo scorcio del primo
millennio enumera i molti modi coi quali monaci e clero giungevano
ad a ccaparrarsi quasi ogni ricchezza e li riassume in una formola
energica. « Gli ecclesiastici avevano reso i peccati un fondo censi-
« bile ", onde viene poi a giustificare i principi, che, non avendo più
bastanti tributi, presero monasteri e abbadie per pagare generali
e ministri, cosicché « con quanta generosità si era donato, con al-
« trettanta rapina si tolse ». Predispone in tal modo il terreno alla
lotta fra Enrico IV e Gregorio VII. In essa tratta con una certa
imparzialità entrambi i campioni, affascinato dalla energia di Gre-
gorio, che u eseguiva i progetti più pericolosi con una precisione
u che li rendeva audacissimi soltanto in apparenza », ma riguar-
doso alla memoria di Enrico che definisce: « sfortunato principe
« le cui sventure sono più certe che le colpe ».
Delle pretese pontificie fa più tardi umoristicamente la satira,
trattando delle singolari deduzioni che si traevano dai libri sacri.
« Il senso allegorico servì molto in tale affare. Gesù Cristo vicino
« alla sua passione dice ai suoi discepoli che bisogna abbiano due
« spade per compiere la profezia: sarà messo nel numero dei per-
« versi. I discepoli gli dicono: ecco due spade. Risponde Gesù: ciò
« basta. Tutti i commentatori interpretano che le due spade erano le
« due potenze, temporale e spirituale, che queste due potenze appar-
ii tengono alla Chiesa, perchè anche codeste spade erano in mano
« dei discepoli, che perciò la Chiesa esercisce la spirituale podestà
« da se stessa e quanto alla temporale ha delegato i principi ad
« eseguirla in suo nome.... ».
Dell'abuso poi della podestà pontificia cita a testimonio S. Ber-
nardcr che a papa Lucio scriveva : « Si sottraggono gli abati dai
126 EMANUELE GUKPPI
« vescovi, i vescovi dagli arcivescovi, gli arcivescovi dai primati.
« Voi mostrate in tal modo che avete pienezza di podestà, ma forse
u a danno della giustizia ».
Un altro santo egli oppone un poco più tardi alle pretese dei
pontefici e cioè S. Luigi re di Francia, che nelle contese fra papa
Gregorio e Federico II scriveva: « Come ardisce il papa deporre
« un sì gran principe senza che sia convinto dei delitti che gii si
u accagionano? Quanto a questi non si deve credere ai suoi nemici,
« fra i quali il primo è il papa ». Aggiunge anzi l'aneddoto di un
curato di Parigi, che avendo avuto l'ordine di pubblicare la sco-
munica contro di Federico, così eseguillo in chiesa: « Ascoltate
u tutti quanti. Mi vien comandato che con le candele accese ed al
u suono delle campane pronunzii solenne sentenza di scomunica
u contro l'imperatore Federico. Io non ne so la cagione, ben so
« che fra lui e il papa vi è grave controversia ed inesorabil odio,
u e so altresì che uno di loro reca ingiuria all'altro, quale dei due
u mi è ignoto. Io pertanto, in quanto si estende la mia autorità,
li scomunico e denuncio come scomunicato quello dei due che reca
« all'altro ingiuria ed assolvo chi la soffre ». Il curato, aggiunge
il Verri, fu regalato dall'imperatore e punito dal papa.
Di scomuniche però si parla troppo, sebbene sempre con
arguzia efficace, ma anche lo spirito conduce a sazietà. Sorvo-
lando dunque su molti altri aneddoti, ricorderò l'osservazione che
ai tempi di Lodovico il Bavaro, sembrando oramai insufficiente
contro ai ghibellini l'arma della scomunica, si volle chiamarli
eretici, e che la frequenza delle scomuniche avendone diminuita la
forza, i laici introdussero il sistema di controscomunicare gli ec-
clesiastici con accendere in tal funzione invece di candele dei fasci
di paglia e dei tizzoni. « Questo abuso •' (osserva) « fu ripreso dal
« concilio di Avignone tenuto dal papa Giovanni XXII. Sembra
« strano che si punisca il disprezzo delle scomuniche, nato dalla
u loro profusione, colla scomunica stessa. Tale pena fu imposta in
« quel canone ».
Il periodo acuto delle lotte fra il sacerdozio e l'impero stava
per finire, e l'autore registra la dissoluzione dei vincoli che l'uno
all'altro avvincevano; ma non cessa per questo di tartassare i papi
che ai tempi di Alessandro VI e di Giulio II dice « cresciuti
« nella potenza, ma diminuiti nella venerazione ».
Della ribellione protestante traccia brevemente e con riserbo
UN OPERA INhDITA DI ALKSSANDRO VERRI, PXC. I27
le orìgini, concludendo così: <• La storia ecclesiastica era dimenti-
« cata. Ne risorse lo studio con tutto il fervore dello spirito di
« controversia. Le parti furono costrette ad istruirsi. Fu questo il
« solo bene che produssero queste grandi rivoluzioni che non
«. spettano al mio istituto ».
Sulla fine dell'opera si parla un po' meno di papi e di scomu-
niche; molto però di supplizi religiosi in Spagna e in Sicilia, finché
si rammenta con soddisfazione l'abolizione della inquisizione de-
cretata a Napoli dal re.
La nota satirica, arma preferita dall'autore nelle discussioni
ecclesiastiche, vibra però ancora qualche volta con una certa effi-
cacia: « La bolla In coena Domini non fu accettata da nessun prin-
« cipe. Altro non produsse che dei tumulti. Se accrescevasi un
« tributo i popoli citavano la bolla In coena Domini e ricusavano
« di pagarlo. Alcuni teologhi e confessori fomentavano queste opi-
« nioni. Altri dicevano essere sospetto di eresia perfino chi mettesse
« in quistione se in alcuna provincia non fosse accettata la bolla.
« Non permettevano soltanto di dubitare del merito suo, ma tam-
« poco della sua accettazione, benché fosse palese il contrario ». E
altrove: « Il papa Clemente [XII] promosse il commercio attivo di
« Roma erigendovi un lotto e scomunicando chi lo giuocasse fuori
« dei suoi stati. Prima di lui Benedetto XIII aveva scomunicato chi
« giuocasse al lotto di Genova ».
Le iodi ai papi sono invece in questa storia assai scarse, si
contano sulle dita di una mano : non mi pare anzi aver trovato che
queste. L'una ai tempi delle lotte cogli imperatori d'Oriente: « La
« pubblica opinione si rivolse ai pontefici. Essi ressero Roma col
« più legittimo di tutti i diritti, il consenso comune ». L'altra in
omaggio a Niccolò V: « Finalmente fu del tutto estinto lo scisma
« coll'avere il pontefice Niccolò ceduto alquanto per vincere. Rara
« politica in tali dissensioni ». La terza, a tutto onore di Grego-
rio XIII e a dileggio dei protestanti: « Gregorio XIII senza sfoggio
« di letteratura e quasi senza strepito si rese immortale colla ri-
« forma del Calendario.... Gli astronomi di Germania protestavano
« contro del Calendario come avean fatto nelle materie di contro-
« versia. Ricusarono le verità di astronomia perchè promulgate da
<« una potenza ecclesiastica che essi non conoscevano per legittima.
« Si unì una Dieta in Augusta. L' elettore di Sassonia vi disse che
« non comportava l'onore dell'impero germanico che si ricevesse
128 EMANUELE GREPPI
u tal riforma. Tutti furono del suo savio parere.... Tacquero poi
« le passioni e si cedette.... La pacifica politica di Gregorio gli
« acquistò molta venerazione. Giovanni Basilovich gran duca di
« Moscovia mandò ambasciatori pregandolo di essergli mediatore
« con Stefano Batory, re di Polonia. Difatti la pace fu conclusa ».
Nel complesso però la storia ecclesiastica non si può dire im-
parziale. E bensì lecito convenire col Verri nella critica che fa di
Bonifacio Vili, e implicitamente anche degli altri pontefici: « avere
« essi avuto idee di grandezza non conformi al pacifico sacerdozio » ;
ma i molti meriti di questa imponente dinastia di re sacerdoti sono
troppo trascurati e non si tien conto delle ragioni che hanno spinto i
pontefici ad entrare in lotta anche violenta coi principi, mentre un
contegno più remissivo avrebbe potuto abbassare la Chiesa d'Occi^
dente al livello di quella d'Oriente; senonchè l'apologia dei pontefici
è fatta invece sin troppo completamente nella terza parte inedita
delle Notti romane, ove l'opera loro è spiegata come logicamente
coordinata tutta ad un altissimo fine. Avvocato dei pontefici è nien-
temeno che Cicerone, il quale in una lunga dissertazione, ragio-
nando sopra quanto si suppone essergli stato raccontato dal Verri,
comincia dicendo:
« Di imperi fatti con la fortuna delle armi sono gli esempi
*i comuni e più frequenti che non comporta la felicità delle genti,
u dove che questo è il solo il quale, nato dal consenso dei sub-
« bietti e dalla paterna benevolenza dei pontefici, sia cresciuto pur
u sempre con volontarie dedizioni, senza strepito d'armi e, for-
u mate con origine celeste, indusse gli uomini al consenso ed
« alla persuasione. Per la qual cosa, mentre la fondazione di tutti
« gli imperii, è storia atroce scritta col sangue e macchiata da de-
« litti, questa, incominciando da umili e pietosi ufficii di benevo-
« lenza, dalla paterna protezione del sacerdozio verso popoli ab-
u bandonati dal principe loro e oppressi dai barbari, crebbe di poi
u a tanta maestà d'imperio divino, che le fronti coronate, ingom-
« brate da un divino terrore, si piegassero ai piedi suoi, tremassero
« i tiranni, i popoli ne scotessero il giogo, e potenti re stringessero
« lo scettro con mano tremante quando usciva da questi colli voce
« tremenda dispositrice degli imperii, al suono della quale altri
« ascendevano sicuri, altri scendevano dal trono.... »,
Segue narrando i fasti più noti del pontificato, dei quali citerò
solo per le considerazioni più acute quanto riflette il suo intervento
un'opera inedita di ALESSANDRO VERR[, ECC. I 29
nel cambiamento di dinastia presso i Franchi: « Mentre presso di
a noi e presso le altre genti tutte narrano le storie che non senza
<i guerre lunghe, pericolosi rivolgimenti di fortuna e vicissitudini
« di sangue o di morte, o si fondarono o si distrussero o trapas-
« sarono i regni, presso voi fu risoluta quest'opera in modo tutto
« pacifico e compiuta con liete cerimonie fra gli applausi del con-
« senso comune ».
Ad atti riprovevoli talora commessi dai pontefici allude spe-
cialmente a proposito del supplizio di Corradino, ma ne scagiona
l'istituzione dicendo: « E se pure in tanta podestà vi furono abusi,
« conviene pure che la discreta mente consideri essere ella stata
« amministrata e confidata ad uomini non esenti dalle infermità
« mortali »; e Cicerone finalmente conclude: « Eppure, siccome in
« tutte le cose discordi e varii sono gli umani giudizii, veggo ora
« taluni, dopoché le furono sommessi, volgere in altrettanto orgo-
« glio le passate loro umiltà, e sembra ascrivano la cagione di
ti tanta sommissione piuttosto alla umiltà dei tempi ed alla infermità
« degli uomini che ad altra cagione, quasi fosse stata sorpresa la
« mente loro ed oscurato il mondo tutto da triste ignoranza, ma
« chi con animo discreto consideri queste vicende vedrà che il più
u delle volte con matura prudenza furono praticati consigli, i quali
u ora sembrano inavveduti, per modo che, qualora si tralasci ogni
« altra considerazione, niuno potrà negare non essere stata al mondo
« podestà cUcuna, la quale abbia superata questa nella prudenza,
il e, certo, considerando i modi maravigliosi coi quali fu stabilita
« e conservata una tale podestà anche nella mente aliena da lei
u desta così alta meraviglia che non è da giudicarsi consueto ef-
« fetto di umana virtù, ma sente in tutto del divino e del celeste,
« siccome cosa, più che terrena, immortale ».
Per quanto le due storie del pontificato, scritte dallo stesso
autore, ma a trent' anni di distanza, si contraddicano, tuttavia
hanno questo in comune che fanno del poter pontificio il centro
della storia d'Italia.
Quando scema la potenza politica dei papi, scema anche di
calore e di interesse la Storia d'Italia del Verri; onde la narra-
zione è più languida, meno confortata da serie o argute conside-
razioni, a misura che essa si avvicina ai tempi nostri. Le imprese
della casa di Savoia, delle quali sarebbe ora riempiuto un com-
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXH, Fase. V. <)
I
130 EMANUELE GREPPI
pendio popolare, non destano che di sfuggita l'attenzione dell'au-
tore, quantunque ne andasse crescendo l'influenza sugli avvenimenti
del nostro paese. Di Emanuele Filiberto, lo abbiam già detto, ei
tace completamente, di Carlo Emanuele si sbriga scrivendo: « Prin-
« cipe di una grande intraprendenza di cui molto bene e molto
.< male dissero gli storici, sempre imparziali w ; nelle ultime pagine
rammenta come per la pace di Aquisgranà: « il r.e di Sardegna
'■< accrebbe, come in tutte le altre guerre, i suoi stati ». Ma, seb-
bene poco prima avesse narrato i torti patiti da altri principi ita-
liani, dall'ultimo Medici, che vedeva farsi e rifarsi il suo testamento,
dall'ultimo Farnese, che vide anch' esso disporre della sua succes-
sione senza essere chiamato a parteciparvi ; non gli passa mai per
la mente di cercar le ragioni per le quali quei principi subivano
dei torti, il re invece all'occorrenza ne infliggeva altrui.
Belli invece, e scritti con amore, sono certi episodi delle vi-
cende italiane, come l'effimero governo di Masaniello, ed altri oggi
più trascurati, come le ribellioni della Corsica e i tristi casi di Mes-
sina abbandonata dai francesi.
Per ultimo, merita di essere riprodotto un periodo che tratta,
con criteri morali molto indulgenti, della influenza dei francesi,
dopoché la guerra di successione di Spagna li ricondusse in Italia:
u I francesi, come avevano fatto ai tempi di Carlo Vili, dirozza-
'i rono i nostri costumi. Ci introdussero il commercio civile, ci
il tolsero alla selvatichezza. Portarono le donne nella società, che
« prima venivano gelosamente custodite da severi e solitarii ma-
« riti. Si dolevano della corruzione dei costumi le gravi persone,
« ma gli orrori delle insidie, le atroci vendette del così detto
« punto di onore, riposto nella fedeltà del conjugio, i tradimenti,
ti i trabocchetti, i sicarii, tutti questi orribili effetti di incolti ed
« insociali costumi non più ci funestarono »-.
La minor vivacità della narrazione storica è compensata pei
tempi più moderni da un crescente interesse per la cultura. Sotto
questo aspetto tutte le discussioni, sino dai primi capi che trattano
della storia romana, sono rivolte a preparar gli argomenti per la
polemica contemporanea.
Il periodo che meglio riassume il pensiero del Verri trovasi
alla fine del capo ventesimonono: « Sembra che i greci ed i ro-
« mani abbiano esaurite quasi tutte le combinazioni del bello nella
« architettura. Molti secoli di esperienza, vaste ed infinite opere
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. I31
u di ogni genere da essi fabbricate possono aver prodotto questo
" effetto. Bisogna ricorrere sempre a questi grandi modelli. Finora
« chi ha voluto dipartirsene, non vi ha sostituito niente di migliore,
« mi intendo quanto alla architettura presa in generale, non quanto
« a piccole e parziali riforme. Non così è avvenuto in questa Na-
u zione riguardo alle opere di ingegno. Furono pregevoli, ma non
« insuperabili. Farmi dunque che la libertà di invenzione, che si
u va introducendo nella architettura, dovrebbe trasportarsi nelle
« arti di ingegno, e la servitù che tuttora sussiste nelle arti di in-
« gegno trasferirsi alla architettura. Vorrei che fossimo contenti
« di imitare le moli del secolo di Augusto e che avessimo il co-
« raggio di superarne gli scrittori ».
Con queste idee ci spieghiamo il silenzio assoluto del nostro
autore su tutte le grandi costruzioni della età di mezzo, sul no-
stro stesso Duomo, che egli aveva pure sempre dinnanzi agli occhi,
mentre la sua storia doveva essere ed è, sotto altro aspetto, più
che la storia politica, la storia dell' ingegno umano, della musica,
degli spettacoli, della letteratura, delle arti, delle scienze, della le-
gislazione, della filosofia.
Alla musica è dedicata, in modo speciale, una bella digressione
di dieci pagine che trae occasione dalla vita di S. Gregorio Magno
e dal canto da lui detto gregoriano. L'autore sostiene che questo
canto, con poche differenze, riproduce la musica dei romani e « così
« le arie degli inni secolari servirono a cantare quei di Prudenzio ».
Sostiene, malgrado certe ampollose asserzioni di Quintiliano e di Ma-
crobio,che la musica non era giunta a grande perfezione presso i greci
e i romani, « perchè » ; e qui ancora una volta appare lo scrittore
precocemente moderno; « se quella nazione fosse giunta a tal per-
" fezione avrebbe' perfezionato al sommo tutte le arti e la sublime
it scienza del cuore. Le cognizioni si abbracciano. La meccanica vi
« dovrebbe aver fatto maravigliosi progressi per fabbricare per-
« fettissimi strumenti, la scienza della armonia dovrebbe essere
« ridotta ai suoi elementi più semplici, la sensibilità degli uomini
« dovrebbe essere conosciuta intimamente. Quanto erano lontani
« da tal punto i romani! "
E più avanti continua dicendo che quei che scrìssero miracoli
della efficacia della musica riferirono soltanto vecchie tradizioni,
non però del tutto infondate. « Narrano ciò che era stato, non ciò
u che era ai loro tempi. Le passioni dei popoli colti non sono così
I
132 EMANUELE GREPPI
« veementi. La cultura accresce il raziocinio a spese della imma-
« ginazione. I barbari sentono, i colti ragionano. La ferocia di-
« venta valore, l'ira risentimento, l'amore benevolenza. Questo in-
« fievolimento dell'animo è manifesto paragonando in massa i colti
« coi selvaggi popoli. Le arti che accompagnano il ripulimento
u delle nazioni altro non fanno che compensare la perdita delle
u prime robuste sensazioni. Ecco in qual guisa la musica possa
a essere stata di meravigliosa forza presso i popoli barbari, e, per
« quanto si raffini, non produca grande impressione nei più ri-
« puliti ».
La stessa dissertazione si chiude colla testuale citazione di una
disputa fra cantori francesi e cantori italiani, narrata dal monaco
di Angouléme, biografo di Carlo Magno e definita dall' imperatore
a favore degli italiani. « Anche adesso », osserva il Verri, « vi è
« difierenza fra la agilità della voce degli italiani e dei francesi.
" Forse ciò dipende dalla costituzione degli organi e dal clima.
u Da Carlo Magno fino alla Serva Padrona abbiamo coi francesi
« questa disputa ».
Meno originale, quantunque sempre acuto, nel trattar di spet-
tacoli, dice del teatro romano: « Per quanto potesse esser magni-
« fico, a gran fatica mi indurrei a sospettare che nell'arte di fare
« illusione e di porre in moto i sentimenti, pareggiasse 1' odierno
u francese. Un attore tragico montato su due alti coturni, che erano
u come una specie di trampoli, con una sconcia maschera in viso,
« declamante o meglio urlante per essere inteso in un vasto teatro,
u non so come possa eccitare ed esprimere le passioni delicate ".
Celebra, tuttavia il pantomimo Pilade, che « facendo un giorno
« la parte di Ercole furioso, gli spettatori trovarono che ei gestiva
« troppo e cominciarono le fischiate. Levò egli la maschera dal
li viso e disse ad alta voce : pazzi che voi siete, io rappresento un
« più gran pazzo che non siete voi. Questa espressione sola prova
.. che Pilade era un gran maestro; ella è piena di sicurezza di sé
« stesso e di un genio vigoroso »».
Degli spettacoli della età di mezzo si sbriga con noncuranza:
« Ad autori tragici, che non conoscevano i tasti delicati delle pas-
u sioni, la nobiltà dei sentimenti e la storia, non si offriva altro
« soggetto di pianto che quello dei predicatori. Le giostre ed i
« tornei, le corti bandite (feste pubbliche piene di strepito e di
a bagordi che ofìrivano i principi) erano i nostri divertimenti ».
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. I33
Per le epoche posteriori allude a qualche dramma, più come
opera letteraria che per l'effetto scenico, mentre invece non man-
cano notevoli osservazioni sul teatro a lui contemporaneo. « Il no-
" stro teatro sembrava essere vicino ad una grande riforma per
« le illustri produzioni del signor dottor Goldoni, il primo e l'unico
« grande uomo d'Italia in questo genere.... Egli è il primo che,
« non imitando alcuno, abbia seguito il vasto suo genio. Il mio
« libro è la natura, ei dice in una sua prefazione. Ma non basta
« il grande autore a far risorgere il teatro. Vi vogliono anche i
« grandi attori. Le nostre compagnie sono così lontane dal cono-
ii scere quest'arte, che disprezzano con tutta ingenuità i francesi....
« Se il gran maestro del teatro francese fosse presente alla rappre-
« sentazione delle sue tragedie tradotte in italiano, avrebbe da stu-
« pire. Gli sembrerebbe più la parodia che la rappresentazione delle
« opere sue Quanto alla tragedia né i nostri commedianti sono
« in istato di rappresentarla, né l'Italia la conosce. Non ne abbiamo
" che una la quale possa resistere al teatro. Questa é la celebre
« Merope del marchese Maffei. Sempre mi sono maravigliato che
« quell'autore, dopo tanti applausi, non ne abbia fatte delle altre.
« Chi poi chiama capo d'opera la Sofonisba del Trissino, V Ulisse
« del Lazzarini, la Giocasta del Baruffaldi, non ha che ad esporle
« sul teatro per farne prova. Abbiamo un genere di tragedia to-
« talmente destinato alla musica. I drammi di Apostolo Zeno e del
u signor Metastasio faranno sempre onore all'Italia. Possono essere
u un modello del tragico teatro; ma essendo fatti per la declama-
ti zione musicale, riuscirebbero troppo condensati e veloci nelle
« declamazioni semplicemente vocali.... ».
Quanto alla letteratura, fin dal secolo d'Augusto manifesta un
modo proprio di apprezzarla e di intenderla, dal quale non si sco-
sta anche in tutti i giudizi successivi. « Virgilio, Ovidio, Cicerone,
u Lucrezio sono ornamento di tal secolo e monumenti immortali
« della letteratura. L' incolta poesia di Ennio fu cangiata in una
« dolce armonia di ragione e di parole. Ma non puossi senza par-
« zialità, dove si tratti di pensare, dare il vanto a tal secolo sopra
« il seguente, chiamato, con metafora stranissima, d' argento. Poi-
« che in questo, quantunque aureo, non ritrovi la filosofia di Se-
« neca, la politica di Tacito, la fisica di Plinio. Ebbero le lettere
« nel loro nascimento le istesse vicende che da noi nel secolo de-
ii cimosesto. Fu in quel secolo coltivata la Hngua e la poesia, né
134 EMANUELE GREPPI
« SO se fossimo più sapienti di parole o di idee. Il secolo seguente
a fu quello in cui nacque l'arte di pensare, eppure gli fu po-
<« sposto ».
Fanno riscontro i giudizi esposti a proposito di questi nostri
due secoli. Del primo egli dice; u La cultura si diJBTondeva dap-
u pertutto. Il cardinale Pietro Bembo, segretario di Leone X, e
« Giovanni della Casa erano due bei spiriti che scrivevano ele-
« gantemente in prosa ed in verso. Vi vuole molta parzialità per
« chiamarli grandi uomini. Sono conosciute le loro opere che eb-
u bero tanti imitatori. L'armonioso stile con cui sono scritte ci se-
« dusse. Vi sono cento scrittori italiani che tutti hanno la loro di-
« citura Non si può negare che non ci sia in questi autori uno
« stile contorto e dal quale trasparisce lo sforzo che facevano per
« collocare con sommo studio i vocaboli con faticosa sintassi. Si
« vede la ricerca delle parole più che delle idee, vi è della timi-
u dita nelle espressioni, non vi è niente di libero e di generoso.
« Temevano i difetti, non cercavano le bellezze. Questo non sarà
« mai lo stile dei pensatori. Lo spirito di pedanteria che impres-
« sero nella nostra nazione appena comincia a perdere il suo ti-
n rannico impero 11 Tasso illustrava questo secolo ed impazzì
« per le critiche fatte dai grammatici al suo poema immortale
« L'Ariosto suo contemporaneo dedicava il suo Orlando al cardi-
u naie d'Este ed aveva la nota accoglienza ».
Del seicento invece egli scrive^ « È noto lo stile che chia-
« miamo del seicento. Le sconcie metafore, i coraggiosi traslati
« erano succeduti alla timida esattezza dei cinquecentisti. I qua-
u resimali e le poesie di questi tempi sono la più umiliante por-
li zione della nostra letteratura. Al tempo dei Longobardi eravamo
« ignoranti, in questo secolo eravamo ridicolmente dotti. Pure non
« è che nei nostri sentimenti non si ritrovi, in mezzo di gigante-
« sche metafore, qualche gran lampo. L'ardimento col quale scri-
« vevano li rendeva o ridicoli, o sublimi, giammai mediocri. Se gli
u scrittori del cinquecento furono colti, limati e regolati, quelli del
u seicento avevano difetti e bellezze grandi ».
Alla critica accurata e profonda di questi secoli corrisponde
una noncuranza, che oggi parrebbe inconcepibile, di quanto aveva
creato l'epoca precedente. Il Boccaccio è messo a fascio col Bembo,
il Poliziano è ricordato soltanto per le traduzioni dal greco, e il
Petrarca principalmente perchè ha scritto in latino e perchè più
UN OPERA INEDITA DI ALESSANDRO VERRI, ECC. I35
che imitatore, era plagiario dei provenzali, credendo provarlo col-
l'allegare il sonetto: Pace non trovo e non ho da far guerra, che
egli riteneva in gran parte tradotto dal poeta catalano Mosen Jordi
Ancora più curiosa è la disinvoltura con cui scivola su Dante.
Dissertando sulla formazione della nostra lingua volgare egli scrive:
« Dante Alighieri fiorentino fu uno dei primi che conosciamo scri-
« vesse lingua volgare. Fioriva al principio del secolo decimo-
u quarto ». Altrove, parlando delle nostre atroci guerre intestine:
« Le carceri erano piene di prigionieri e si era introdotto il bar-
« baro costume di farli morire di fame. Così perì il conte Ugolino,
« fatto degno delle lagrime dei posteri dai versi di Dante, il cui
« passo molto noto è uno di quelli che ha resa immortale la su-
« blime e strana sua Commedia ».
Eppure Dante era ben conosciuto dal Verri, che di lui più
volte valevasi come fonte storica, citando per esempio, il canto
ventesimoprimo del Paradiso a proposito dei costumi ecclesiastici,
il ventesimoquarto per gli orologi a ruota, il ventesimoquinto pel
lusso delle vesti.
La sintesi della nostra storia letteraria si integra pel Verri colla
fortuna della nostra lingua, pensando egli che una prematura perfe-
zione e stabilità della lingua sia indizio di pigro sviluppo del pen-
siero. « Trovo altresì una cosa m; scrive al capo ventesimosecondo;
« che consola il grammatico e dispiace al filosofo, e questo è che
<< da Petrarca sino a noi la lingua nostra ha quasi nulla cangiato.
u Questa purità non ci è onorevole. Non succede rivoluzione nelle
« idee di una nazione che non gli sia parallela anche la lingua,
a la quale altro non è che il mezzo con cui le esprime. L' immo-
« bilità delle voci forse prova quella dei pensieri. Non vi è na-
*i zione colta in Europa che abbia la stessa lingua che aveva ai
« tempi del Petrarca. Questa costanza dal secolo decimoquarto in
« qua mi sembra assai sospetta ».
Queste considerazioni però, interpolate in un capo ove si tratta
dei principi della nostra cultura, sono predisposte per preparare
le ultime della conclusione, ove apertamente si giustificano le forme
letterarie della piccola scuola che aveva pubblicato il Caffè: « I fran-
ai cesi » (là in fondo si dice) « sono i nostri maestri e sdegniamo
« di averli.... Bisogna non ricusare la luce da qualunque parte ella
« venga.... Non è possibile formarsi sui libri di una nazione e non
« prendere il loro stile. Se abbiamo da acquistare nuove idee
136 ' EMANUELE GREPPI
u dobbiamo acquistare anche un nuovo mezzo di esprimerle. Non
M scriveremo come il Boccaccio, come il Bembo, come il Casa. Non
« importa. Scriviamo come Montesquieu. Abbiamo dei francesismi,
u ma leggiamo l'enciclopedia.. . Si comincia a riguardare la lingua
« come mezzo e non come fine ».
Delle scienze e delle arti il Verri parla volontieri, sia interpolan-
done il discorso nella narrazione, sia trattandone separatamente;
ma di preferenza va ricercando le origini e i progressi delle arti
comuni, che sino allora erano state interamente trascurate dagli
storici. « Quando poi venisse portato il baco da seta non si sa »,
scrive al capo decimosettimo. « Questa è la sorte delle pacifiche
« arti. Un macello di uomini è sempre celebre. I beni della tran-
« quilla industria, i nomi dei più grandi benefattori della umanità
« sono ricoperti dalle vaste ombre della oblivione. Tutto ciò che
u non fa strepito è dimenticato » ; e, come del baco da seta, si in-
teressa degli orologi, della carta, della bussola, degli occhiali, della
stampa, dei cannocchiali.
Tra le scienze, una ne troviamo così qualificata da lui e della
quale attribuisce la paternità al Machiavelli con queste parole:
u È una ben triste gloria per l'Italia l'avere prodotto il primo au-
u tore consciuto nella storia di un metodico trattato della scienza
« dei tradimenti, delle stilettate e degli assassinii, e di avergliene
u fornito la materia ».
Della scienza del diritto, che era quella da lui professata, tratta
sobriamente, sebbene non dimentichi di illustrare la storia colla le-
gislazione e sebbene in certe argute sue satire dei primi pandet-»
tisti miri a colpire il curialismo del nostro Senato ; ma due passi
ne rivelano specialmente l'ingegno. L'uno allude ad una imminente,
ma non ancora invocata riforma, così concludendo intorno all'opera
legislativa di Giustiniano: « Lo stesso accade oggidì. Abbiamo ven-
« timila volumi di opere legali in foglio. In tutte le nazioni le cose
« meno semplice sono le leggi. In mezzo alla somma coltura vi è
u questa somma barbarie. I filosofi non hanno finora rivolto gli
« sguardi a questa materia m. L'altro può annoverarsi fra quelli
in cui si rivela l'osservatore profondo delle relazioni fra i fenomeni
sociali in modo aff"atto moderno. Egli infatti così giustifica i così
detti giudizi di Dio, accolti come prove giudiziarie: « Questa su-
u perstizione fu così universale che non sembra soltanto da attri-
« buirsi alla imitazione, ma ad un principio ancor più inerente al
un'opera inedita di ALESSANDRO VERRI, ECC. I37
« cuore umano. Le nazioni barbare, che non hanno ancora svilup-
ii paté le più complicate idee di giustizia negli atti umani, che non
« hanno principio e regole per le prove giudiziali da farsi, non
a sapevano istituire un giudizio, dare un grado di giusta probabi-
u lità agli indizii, determinar la forza e le condizioni dei testimonii.
« Tali formole richiedono un codice di leggi ragionato e costante.
« Una nazione barbara non è capace di tanto, o non ha leggi, o
« le ha semplicissime. Nella incertezza dunque del giudizio, nella
« necessità di decidere altro criterio non ritrovavasi che di com-
u metterlo ad un giudice infallibile. 11 duello dovette essere il più
« usitato perchè il primo giudizio che si presenti a popoli che hanno
u sempre le armi in mano. Egli eziandio ha maggiore apparenza
« di giustizia. La condizione di entrambi i contendenti è eguale.
« Tali sono le mie congetture su di ciò ».
Nelle scienze naturali le indicazioni sono abbastanza diligenti,
ma superficiali, finché giunto al secolo decimosettimo e persuaso
che soltanto allora la scienza cominciasse a trovar seriamente la sua
via, il N. lor dedica uno speciale capitolo, notando il contemporaneo
progresso della Germania con Keplero e Copernico e dell'Italia con
Galileo, l'Accademia Cosentina e quella del Cimento, e riassumendo
il pensier suo con queste parole: « Bernardino Telesio gettò fon-
« damenti più universali di quella sola e lungamente trascurata via
« di andare alla natura, la esperienza. Le vaste menti hanno per-
« turbato la fisica con sistemi. I pazienti osservatori con poco stre-
u pito hanno alzato un canto dell'immenso velo che la nasconde »».
Di scienze non tratta per l'epoca successiva quasi a lui con-
temporanea; ma questo silenzio, più che a negligenza, mi pare do-
versi attribuire a un certo presentimento che prossime strepitose
innovazioni toglierebbero ogni interesse ai parziali progressi che
sino allora andavansi conseguendo nel secolo suo. <« L'Italia »,. dice
nella conclusione, « sembra progredire con velocità verso la filosofia w.
E per lui u filosofia » aveva l'originario significato di disciplina uni-
versale della fantasia e della ragione; ma ciò non lo dispensava
di discorrere anche della filosofia nel senso più comune e di com-
mentar brevemente in ogni tempo le opere dei filosofi. Ma questi
pensatori di sistemi tratta ordinariamente colla ironia: « Pietro
« Lombardo, detto il maestro delle sentenze, fu autore di una ri-
« voluzione negli studii teologici.... Il suo libro delle sentenze gettò
« i fondamenti della scolastica teologica.... Sembravano maravigliose
138 EMANUELE GREPPI
u tali opere. Il libro delle sentenze fu messo al pari della Sacra
« Scrittura. Fu commentato da duecento quarantaquattro teologhi
« successivamente. Bisogna che fosse ben oscuro e che ora sia ben
« chiaro. Lo Spirito delle Leggi ha appena qualche nota da un solo
« commentatore ".
« San Tomaso d'Aquino » (prosegue) « seguì le tracce di Pietro
« Lombardo.... Questa nuova teologia consisteva in darle un metodo
a dialettico.... La teologia chiamò in suo soccorso la dialettica ara-
« bica e aristotelica; tutto si volle ridurre ad un metodo logicale
« e spiegare i miracoli e la dottrina colla debole forza della ra-
« gione. Questo divenne un gran mostro.... La filosofia, e la teologia
« si diedero in tal guisa la mano, consorzio pericoloso, che sempre
a ha turbato la letteratura.... ».
Altrove scrive: « Famosa è fra le altre la questione dei no-
« minali e dei reali. Sostenevano i nominali che gli universali si
« formano dopo la esistenza del soggetto, colla mente e col pen-
« siero. I reali dicevano che gli universali esistono nel soggetto
u stesso. Sono sublimi questioni.... Quando i pazzi sono molti di-
« vengono rispettabilissimi.... »».
I filosofi eterodossi sono trattati anche peggio. Pompohaccio e
Cremonino Ferrarese, di lui contemporaneo, ebbero « lo stesso de-
« lirio di essere empii non tanto per irreligione quanto per cre-
« dulità alle opinioni di Aristotile ». Giordano Bruno « è un fre-
« netico che scrive » ; egli e Gerolamo Cardano « si eressero in
« riformatori degli studii per rendere spregevoli così utili sforzi ».
« Tomaso Campanella è da riporsi nel numero di questi uomini
« singolari." Si predicava al profeta ed al Messia.... Sembravano
« ritornati in Italia i tempi dei greci filosofi. Con sedizioni, tumulti,
« entusiasmi, stranezze, delirii, lo spirito umano faceva degli sforzi
« più che dei progressi. Egli era in rivoluzione ».
Ma finalmente, in epoca di poco anteriore alla sua, il V. trova
anche nella filosofia italiana Tuomo di genio. « Abbiamo avuto in
« questo secolo un grande uomo il cui nome non è così celebre quanto
« meriterebbe. Questo è Giambattista Vico, napoletano, autore della
« Scienza nuova. La oscurità, la stranezza dei vocaboli, con cui è
a scritta quest'opera ha respinto i lettori. Egli imprende non meno
« che di far la vita del genere umano, di spiegare come l'uomo si
« unisca in società, come in lui nascessero le idee religiose e mo-
« rali, quali siano i principii della legislazione, per quali gradi prò-
un'opera inedita di alessnndro vkrri, ecc. 139
« grediscano le nazioni alla coltura, per quali ritornino nella bar-
« barie. Libro pieno di vaste e sublimi idee, di ben collocata e
« profonda erudizione. Non so se l'Italia abbia avuto prima di lui
il un così gran pensatore. Non si può dare esatta idea del suo libro;
« bisogna leggerlo. Quel gran filosofo sentiva più che non vedeva
« gli oggetti; aveva delle vaste idee e balbettava nell'esprimerle.
« La sua opera può farne nascere altre mille migliori di lei ».
Questo giudizio pare possa chiudere degnamente la nostra ras-
segna. Le citazioni fatte bastano a rivelarci la mente di Alessandro
Verri, quale si era formata nella sua studiosa gioventù e nel con-
tatto degli amici che avevano creato una scuola gloriosa di pensa-
tori lombardi.
Infatti negli articoli del Caffè, e non nei soli di Alessandro, ma
anche in quelli di Pietro, si trovano tracce delle idee svolte nella
Storia, ma non quante si potrebbe supporre, il che cresce merito
di originalità ad Alessandro, che, a breve distanza, sapeva tra-
sformarle, completarle e volgere a nuovi pensieri la mente. Una
sentenza però, tratta da un suo scritto in quel celebre giornale,
potrebbe porsi come epigrafe alla Storia: « Le verità politiche
« come le fisiche sofi'rono più danno da chi le ha volute genera-
« lizzare e ridurre a sistema, che da chi con idee meno vaste, ma
" più sicure le analizzò nei loro particolari »>. Da questa sentenza
deriva la modernità del suo pensiero, ma deriva anche la mancanza
di una fede robusta che tolse efficacia alla sua azione nella vita e
deriva altresì la incessante auto-critica analitica intorno alla stessa
sua Storia, che gli procurò le prime esitazioni e ne determinò final-
mente l'abbandono.
La sua pubblicazione potrebbe anche oggi essere accolta favo-
revolmente dagli studiosi, più però come documento storico, che come
storia; ma potrebbe specialmente essere molto efficace, come stimolo
ed esempio a dettar libri di storia da leggersi comunemente con pia-
cere e con frutto, cosicché concludendo ne direi quanto il suo autore
disse del Vico: « La sua opera può farne nascere altre migliori
« di lei w.
Emanuele Greppi.
VARIETÀ
Per la storia artistica della chiesa di S. Satiro
in Milano.
(SPIGOLATURE D'ARCHIVIO).
AGENDO recentemente, nell'Archivio nostro di Stato, al-
cune ricerche sui pittori che hanno lavorato nelle chiese
milanesi, ho avuto opportunità di rinvenire alcuni docu-
menti sulla fabbrica e su opere d'arte dell'antica chiesa
di S. Satiro. Benché slegati fra loro penso sia utile ; data la po-
vertà di notizie sicure e documentate su quell'antica chiesa, che
è fra le più belle d'Italia; di renderli noti, quale modesto contri-
buto ad una futura illustrazione del tempio.
Francesco Malaguzzi Valeri. •
• DOCUMENTI
I.
Inventario degli oggetti del rettore della chiesa di San
Satiro del 1476.
I4^6.
Haec est descriptio honorum relictorum per dominum Christophorum
de Grassis rectorem ecclesie Sancti Satani Mediolani et ordinarium ec-
clesie Mediolani facta per dominum Johannem de Imperialibus sub diebus
dominico et lune xxi et xxij Julij Mcccclxxvj.
Imprimis soto il porticho cadrighe tre da Raina
Item credenza una
Item payra ij de trespede
Item tavole nj
VARIETÀ 141
Item marna j
Item mexa r
Item una altra credenza
Item uno schagno rotondo ramato
Item archabancho uno vegio
Item uno altro archabancho cum tovalia una de braza iij vel
cìrcha
Item cribieto uno perferoto (sic) de lottono
Item una altra credenza granda cum certi taglieri et gratirola dua
Item Cavali ij (o caneli ?)
Item Schachera j
Item certa quantitade de legne
Item sidella una
Item in camera ubi dormiebat prefatus dominus presbiter Christophe-
rus in soUario
Item uno capsono in el quale era una bazilleta de lottono cum
certe scripte dentro.
Item capseta una de piumbo cum certe relequie intro
Item una altra capseta de marmoro cum certe relequie intro
Item uno Prospero in carta
Item uno libro confessionario in carta
Item breviario uno pizenino
Item payra ij de candire de ararne.
-Item cestellum unum cum certe bolle dentro.
Item bussere ij cum certe geme dentro.
Item una nostra dona de marmoro
Item ofììtiolo uno
Item ace xxvj de filo
Item una baxleta piena de scripture
Item bussole ij cum certe relequie dentro
Item tella una de linzolo
Item zornia una turchina
Item zupono uno rosso
Item zornia una rossa
Item paniti ij novi cum una barreta rossa
Item una altra capsa unde he certe schatole cum certi ferra-
menti intus et altre cosse.
Item uno altro cassone voio
Item uno altro cassono in el quale he sacheta una rossa cum
certe franze et cerrate dentro
Item sacheta una biancha in la quale he una preda negra faciata
cum uno pario de scharpe da Vescho et parlo uno de calze de sen-
dale rosso.
Item una altra sacheta biancha in la quale he sacheta una in la
quale son certe geme et altre cosse.
Item uno bazile de ararne.
142 VARIETÀ
Item in la camera apresso a la camera donde dormiva tavola una cum
payro uno de trispede de acupresso quam Géorgio da Verano dixe
essere sua.
Item banche ij
Item schragni ij
Item [tre]spedi de ferro da resto
Item tripè j alto de ferro
Item una credenza vegia
Item credexella una
Item cadrega una ramada
Item lettera una cum una fodra et uno piumazo
Item in la lobieta capsono uno vegio cum langi (lamegi?) ij
Item in capsa una super lobieta uno pocho de brochato d'oro
Item una pianeda de fustagno biancho
Item uno camexe biancho
Item una tovalia da altare lavorata da rosso
Item guardanapa una lavorata de cillestro
Item uno vestito mesgio
Item in uno spazachà su la lobieta panere ij
Item uno libro da Raxone el quale dixe Johannepedro da Campo
essere so.
Item in la caneva una coldera et testo uno de arame.
Item payro j de bardene
Item Socarda (?) una.
Item vasie iij da vino, uno de tenuta de br. viiij®; l'altro de
brente viij et l'altro de brente vj
Item uno vassello de axeo pieno de tenuta de br. iiij*
Item vaseli ij pieni de aceto de tenuta de br. 3 vel circha.
Item vassello uno de vino biancho de tenuta de brente ij pieno
Item segiono uno
Item vasseleti iij d'agresto de tenuta de uno stare per zes-
chadunq.
Item armayro uno
Item calestre xij da vino
Item fiaschi ij rutti
Item la giexa in la prima capsa da man sinestra tre prede sacrate
Item paxa una da rechalcho
Item tabernachulo uno
Item capsa una cum uno calice de argento
Item payra ij de corpore
Item camexe uno
Item una pianeta fornita
Item missale uno in carta
Item uno altro payro de Corporale
In la secunda capseta capsa una cum certis reliquiis intus
Item schatula una cum più reliquij dentro
VARIEIA
143
Item capseta una de legno cum più reliquij dentro
Item uno putto de rechalcho
Item una stolla da vescho
Item cortelini ij cum vagini iij fornite de argento
Item coppa una de argento
Item manti xxviij et tovalie v
Item tascha una cum certe scripture dentro
Item uno libro da Luna
In la terza capseta una sacheta cum fiodregete ij da cossini dentro
Item panixeli irj
Item barrete v negre et una rossa et una altra barrete
Item barrete ij grande de bruna
Item camere uno cum certe scripture dentro
Item cavezolo uno de pano de lino br. x vel circha
Item copertorio uno
In la quarta capsa mantello uno de zamboloto cum uno capuzo
Item uno oltro mantello de zamboloto truchino (sic) cum il ca-
puzo de pano truchino
Item uno vestito de zamboloto cilleslro fodrato de pranze
Item uno sellerò
Item uno mantello de zambolloto cillestro foderato de pano
Item banchali iij frusti
Item capuzo uno barretino foderato de sandale
Item in la capsa prima in giexa da man dritta piattello uno grande et
quadreti iij
Item una sacheta cum giape ij de veluto cremexile
Item panixello uno da reno laborato doro
Item manti iiij* laborati doro
Item uno fornimento d'una pianeda laborato doro et molte altre
cosse in la dieta sacheta
Item coverto uno frusto de mezza lana
Item covertura una laborata de aqua forte
In la seconda capsa tovalie iiij° et mantili xnij" et palij xij
Item dalmadege ij et pianea j de bambaxina
Item una altra pianea de sendale
In la terza capsa pagni ij uno rosso e laltro negro mantili ij
Item payro duo
Item pianea una et uno camexe
Item uno messale
Item uno libro da Canto
Item super altare croxe una granda
Item una pezenina
Item uno tabernachulo cum la testa de sancta Barbara dentro
Item in camera scriptarum capsono uno in el quale sono pianeda j* de
cremexille cum le Montagne cum li so fornimenti
Item cotte ij
J
144 VARIETÀ
Item cavezo de tella
Item certe scripture dentro
Item libro uno grando da Canto in carta cum li giovi
Item libri xviij da Canto diversarum manerierum
Item uno altro capsono cum cilastreli vj de eira biancha.
Item uno candire grande de lottono
Item valixa una
Item rexega una
Item schachera una
Item payra ij de speroni
Item sedelino uno rotto
Item una figura de nostra dona de preda
Item una cadrega da Rama
Item cossini nj da giexa
Item pianede ij una lavorada doro e laltra gialda
Item piviale uno de seda biancha.
Item una altra pianeda cum le j^roxe doro
Item una binda
Item payra ij de bolge et una piena de scripture
Item una lectera cum una bancha vegia
Item uno bazil de lottono
Item tre cossini
Item una campana et uno campanino
Item fornimento de una croxe da rechalcho pezi vuij^
Item assa una piena de diverse scripture et libri
Item torgielo uno
Item canuroli ij pieni de scripture
Item stagnino uno de lottono
Item bazira una granda et una pizenina.
Item ole una granda et laltra pezenina
Item forexe uno
Item in la camera unde dormive el prefato d. Christoforo Grasso cam-
panino uno et molte altre scripture.
Item pexa una da duchati... (sic)
Item in capsono uno cotta una
Item una altra cotta
Item barrete iij
Item camixa una dagipto (sie)
Item tovalia una da br. v
Item sugaro uno de braza iij
Item capuzo uno de saya de bruna
Item aze ij de filo
Item in capsono alio croxeta una da rechalcho
Item tabernachulo uno de legno
Item corporali iij
Item pìanea una de veluto cellestro cum uno camexe
VARIETÀ 145
Item una tovalia
Item uno sugaman
Item paniti v
Item mantile uno da altare
Item paniti iij et arete (?) iij
Item mantile uno da altare
Item capzelo uno negro
Item ferro uno longo
Item campanino uno
Item in el schrigno che su la lobia certa quantitade de ferramenti
In la camera suo (sic) uno lecto cum uno lenzolo una tavola cum uno tape.
Ili la credenza eh' è soto el porticho padelle ij una nova et una vegia
rotta padellino uno pizenino cadena j da fogo payro uno de bar-
dene et multe altre ferramenti et in notabele quantitade
Item tenaie viiij da frixura
Item payro uno de marteli
Item uxeli vij da fuxina.
Et que quidem descriptio facta fuit in presentia domini Cristhophori
de Vicecomitibus filij quondam Spectabilis Millitis domini Bartholomei
Vincentij de Gallinis filij quondam domini Jacobi Damiani de Novaria
filij quondam Magistri Johannis Johannis Marci de Medda Anziani Do-
menici de Busso filij Ambrosij omnibus vicinorum et parochianorum
diete Ecclesie Sancti Satari Mediolani
Ego Antonius de Baxilicapetri publi-
cus imperiali auctoritate Curieque
Archiepiscopalis notarius et pre-
fati domini Economi Canzelarius
predictam descriptionem scripsi et
subscripsi.
(Sezione storica, Milano, Culto: Monasteri, ecc., 5. Satiro).
II.
La Cappella di Santa Barbara in S. Satiro.
Illustrissimi Principes. Li fidelissimi servitori vicini di la parochia
de sancto Sattaro di questa Vostra Citate de Milano fano intendere a
la Eccellentia Vostra qualiter in essa Ecclesia è una vostra ducale Ca-
pella fondata sotto il vocabolo di Sancta Barbara et dotata di I3 quale
è Capellano presente Jacobo de la Cruce. Et sicut iam uno mense che
è venuto lo dicto Capellano non gli è unqua celebrato missa ne etiam
in altri mesi circa quatro passati, in admiratione de molti, però che non
Arch. Sior. Lomb., Anno XXXII. Fase. V. io
146 VARIETÀ
gli pare conveniente né comportabile che quello Capellano debia gau-
dere la intrata dotale, et non benefitiarla.
Qua de re fi supplicato humiliter per li dicti vicini che se degnano
le Signorie Vostre provedere a tanto manchamento non comportando
che la dota se golda et non se facia il dovero ih beneficiare la dieta
Capella come se debe, et si è creduto essere di vostra bona intentione.
Fuori: Supplicatio Vicinorum parochie Sancti Sattari Mediolani.
(Sezione storica, Vicende di comuni. Milano, Culto: chiese, mo-
nasteri, S. Satiro, sec. XV).
III.
Una Cappella ducale in S. Satiro.
Illustrissimi Principes. Esendo za per spatio de anni xlj vel circa
che la felice memoria de la Illustrissima Madonna Biancha duchesa de
Milano vostra ava dete una capela construta in la giesia de Sancto
Setero {sic) al vostro fedelissimo servitore et horatore de Dio preto
Jachobo da Croce, qual fu fiolo de una servetrice de Sua S. per spatio
de anni più de vinti, et sempre ha habuto li paramenti de dieta capela
a suo piacemento per potere celebrare mesa et da uno poco tempo in
qua Tè zonto una grandissima devocione a dieta giesia et a dicto ca-
pelano per honore de dieta capela et per che li concorre tuto Milano
volea tenere dicto altare hornato per honoro de V. S. quali sono pa-
troni de dieta capela, s'è asaltato una eerta congregatione et non gè
voleveno lasare tore li dicti paramenti per non volere lassare celebrare
et questa matina el dicto capelano l'è handato per celebrare mesa ala
dieta capella li è stato vedato logava (sic) de dicti paramenti e lui ha roto
una cassa dove beri [sic) drento dicti paramenti. E così lo caseto l'è
roto, quali ho serito a fare hordinare a soy spese e fare lo debito suo
a dieta capela.
Prego la V. S. se degno (sic) scrivere al Vicario de Monsignore
arcivescho che manda per li procuratori de prochiano [sic) de Sancto
Setero e per quella congregatione se li astringa a dare dicti paramenti
al dicto capellano et che al possa dire et fare dire mesa a quilli che
volono celebrare mesa e questo è per honoro de V. S. qualH siti pa-
troni, a le quale continue s'aricomanda.
Fuori: Supplicatio presbiteri Jacobi de la Cruce.
(Sezione storica, Vicende di comuni. Milano, Culto: chiese, mo-
nasteri, S. Satiro, sec. XV).
VARIETÀ 147
IV.
Note d'arte e oGGETTr artistici in S. Satiro.
Za « Santa Barbara » del RoltrafRo (1509). — I^* altare « della Pietà ». —
Porte minori della chiesa. — I^a cappella di Santa Caterina. — I,avoTi
eseguiti da Cristoforo da Birago « lapicida ». — Pagamenti al pittore
' Ambrogio da Possano. - Modello della facciata. (1487). — Figure in
cotto levate dal tiburio.
Da un fascicolo di note di spese e di ricordi dal 1502 al 1550
dell'antica Congregazione di S. Maria di S. Satiro (R. Archivio di
Stato di Milano, Fondo di Religione, Cause Pie, Milano: Santa
Maria presso S. Satiro) tolgo i più notevoli accenni relativi a cose
d'arte :
e. I, v. n. n.: MDII. Notta che a di 27 de octobre de l'ano supra-
scripto fu concluso nel Capitolo et ne la Congregatione del Priore et
scolari de domina santa Maria de Santo Satiro de Milano che se dovesse
fare dipingere per maestro Johanne Antonio Boltraffio dipintore de
Milano suso una tavola una figura de sancta Barbara per essere posta
a lo altare de suprascripta sancta posto ne la suprascripta giesia per
honore de dieta sancta et delo altare: et ala dita conglusione sono pre-
senti li infrascritti come de sotto quali tuti fumo contenti de dita con-
clusione.
In prima Domino Filipo da Raynoldi Priore de dieta scola
Domino Gallo Resta
Domino Gasparo Codega
Domino Maffeo de Valnexia
Domino Antogniotto da Meda
Domino Caldino da Seregnio
Domino Lelio da Valle
Domino Angustino da Brasgo
Domino Leonelo del Conte
Domino Nicolò da Gerenzano.
e. 2, r: Al nome de Dio adì 9 aprili 1507. Noeta che adì suprascripto
s'è ordinato in Congregatione che el se voglia fare le infrascripte cose,
videlicet:
Item fare ornare lo altare de la Pietà.
Item vendere una anchona vegia.
Item fare mettere lo aramo sopra ala volta de la giexa.
Item fare la capela de D. Nicolò de Gerenzano per tore uno
loco per metere lo corpus domini
{Omissis)
148 VARIETÀ
id.: Adì II Zugno
Noeta che adì suprascripto s'è ordinato in Congregatione che el se volia
fare le infra scripte cosse videlicet:
Iteni che el se volia fare una protesta de le finestre et uscie (sic)
che guardano sopra antido seu o Corte (i) de la scola de Madonna
Santa Maria de Sancto Satiro facti a nome de D. Andrea de Arexijo
seu a nome de altre in posto a D. Antonio da Medda e a D. Bernar-
dino da Cornerò et dicto uscio che el sia facto con doue sarradure zoè
■una de dentro et una de fora.
e. 6 V.: Ihesus Maria 1514 adì 29 Genaro. Notta de la ordinatione
facta per li diputati seu scolari de la nostra scolla de Sancta Maria de
Sancto Satiro ha stabelito e ordinato per fare una porta appresso a lo
altare de la Pietà simile a quelo ch'è facto appresso ala porta che va
al malcantono. Dieta ordinaiione è facta da eomissione e consentimento
de li infra seripti videiicet:
D. Bernardo Carpano
D. Gallo Resta
D. Leonardo da Hoxijo
D. Lelio de Val
D. Ambrosio da Vimercato •
D. Bernardino da Corneno
D. Gaspar Codica
D. Antoniotto da Medda
D, Dionisio da Roxa
D. Filipo Rinoldo.
e. 7, r.: 1514. Notta adì 29 Genaro è messo a lo incanto per fare la
porta appresso alo altare de la Pietà per farla similli {sic) a quella ch'è
fata de presente appresso a quela che va al malcantono ne la giexia
de nostra Dona dagando li scolari quelo marmoro bastardo che ha li
dicti scolari.
Adì 29 Ginaro 1514 ha comparso in capitulo Magistro Jo. Antonio
de Hogioni p. h. p. Sancto Mabillo e a havocato la dieta porta dagando
li scolari lo dito marmoro bastardo et non altro cossa alchuna salvo
dagando al dicto magistro Jo. Antonio per la dieta porta L. trexento
sive L. 300 e darghe la fuxina pientata e lo dicto Magistro promette de
comenzare e fornire in termino de mexi 6 et darà sigurtà de tuto quelo
che po' inportare lo precio del tuto de dita porta.
e. II, r. : 1517. Richordo come questo di 14 de Septembre D. Am-
broxio de Vimercato priore, D. Jo. Lucha da Cavenago, D. Marcho Caymo
D. Bernardo Carpano, D. Michele Toxo et Bernardo da Meda hanno
(i) Forse: andito seu corte.
VARIETÀ 149
concluso de mandare in montagna per lo marmoro biancho, rosso et
negro et tra lori sono resolti de andare D. Marcho Caymo et lo fatore
et a lori li hanno data ampia et larga commissione de tore tuto quelo
bisogna.
e. 12, V.: Adì primo de Zenaro 1518.
Item li suprascripti scholari hanno comisso a domino Bernardo
Carpano habia lui cura de li magistri a farli lavorare.
Item die 3 Januarij d. lo priore d. Bernardo da Corneno d. Liono
del Conte et d. Michele toxo et lo magnifico d. Baptista di Negri hanno
ordinato se dacha (sic) a Jo. Angelo Picaprede s. 30 in sino a s. 40
sopra al marmoro ch'è a Como.
e. 14, r.: 1518.... De mandare a Mussio li magistri a tore le prede
de le sepolture et mandare a Milano.
e. 14, V.: 1518. Ricordo chomo questo di 12 de Augusto li infra-
scripti scholari sono congregatti a fare la infrascripta ordinatione D. Ber-
nardo da Meda priore, d. Jo. Lucha da Cavenagho, d. Antognotto de
Meda, domino Ambrosio da Vimercato, d. Lionelo da Oxio, d. Michele
Toxo et domino Bernardino de Corneno
hanno deliberato a maestro Mariotto et a maestro Cristoforo de
Birago pichaprede la porta quale se ha a fare per L. 250 dachando (sic)
ben fatto secondo la porta et medio de l'altra porta fatta et fazendo
de meglio Tanno remisso a d. Ambrosio de Vimercato et tuto quelo
comandarà de sopra più che li scholari soni (sic) a darcheli senza al-
cuna exceptione.
s. n. : 1520. Richordo chomo questo dì melcoldì 29 de febraro Re-
verend.mo (?) d. Roffino vicario (?) de lo Reverendissimo Monsignore
Arcivescovo de Milano ha consecrato (?) la capela de Sancta Catelina
constructa in la giexia de Santo Sataro de Milano et dottata per lo
M.co dottore Jacomo da Elio per L. 250 ogni anno sopra a un livelo
che giaxe
s. n.: 7/2<5 7 Jan.
Item ordinant quod Thesaurarius prefate schole det et solvat libr.
quattuor impr. ad ebdomada Magistro Cristoforo de Birago lapicide
prefate scole eo laborante in fabricare pavimentum sive solum prefate
ecclesie et non aliter. Et hoc ad bonum computum donec finita fuerit
dieta opera.
Da alcune copie moderne raccolte dal defunto archivista P. Cos-
sali, unite ai documenti originali nella citata busta in Sezione sto-
rica. Vicende di comuni, Milano, Culto, chiese, ecc., e che sembran
tratte dagli originali ritirati dalla parrocchia, si rilevano, fra le altre,
queste notazioni che credo utile riportare e che si potranno con-^
I50
VARIETÀ
trollare, quando sia possibile rintracciarle e averne visione, con gli
originali relativi :
In una nota delle spese di fabbrica e degli artisti del sec. XV (riti-
rata dal parroco nel 1858) si legge : 17 Agosto. Conto a M.® Amb.® Pos-
sano d.o Borgognono Pentore L. 50
Nel 1487 si pagavano per opere fatte a Maestro Dominico da Roxa,
ad Antonio da Lomazzo ed a M.o Filippo da Pozo, a M Bartholomeo
legnamaro per braccia VII de asse per fare una tabula del desegno de
la Fazada L. Ili, sol. x.
A Dona da Lona per opere 4 s. . . . (sic)
A Cristoforo Panietti (o Panicelo) per opere 4 ... s. . . .
. A Amb.o de farre (o da Cara) per opere 6 s. . . .
A Ant.o de Dexio per opere III .... s
A M. Beltramino da Moirano per opere 4 s
A Dona de Cux.o (Cusago o Cusano) per opere 4 s
A Jacopo de Pavia per opere 5 s. . . .
A Tognino da Brignano per opere 2 s.
A Filippo da Serra per opere 3 (sic)
A Zohane de Pandino per opere 6
A Angelo da Cirnuscolo piccaprede per opere i
A Ottorino da Busti per opera i
Opera una per fare coprire il tiburìo sopra il coro L. — ?.di VI
Per fare penze {sic) la banderola suxo il tibureto suxo le
capele L. — ss.dì xmj
Per una croce dorata posta suxo il tiburieto suxo le capelete
L. VII ... .
A Gabriel di Suaroli per opere 3
Al pentore per penze il tiburieto sopra le capellete L. X
A Pedro del Monte di Brianza per opere 5.
Nel 1521 a M.ro Pazino di Molli picapreda per parte di pagamento di
43 medoni et piode da sepolture de marmoro 6 L. 3.
A M.ro Mariotto picapreda a li suoy lavoranti L, 19.12
A certi carradori per condotta marmoro negro
1532. 7.0 Giugno. Gli scolari di S. Maria pregano Messer Pagano d'Adda a
Vercelli di far fare un disegno di una ferrata da porsi all'altare di S.ta
Maria, simile a quello esistente in una chiesa di Vercelli.
U32- 30 Luglio. L'ing. Cristoforo Lombardo ingeniero della fabbrica
della Chiesa maggiore, stima il solo di marmoro bianco e negro fatto
in S. Satero da Magistro Cristoforo dicto lo Abraichino.
ISSI' 22 Luglio, Contratto per fare il solo, sotto il tiburio cioè dentro
VARIETÀ
151
da li pilastri, di bianco, negro e giallo con M.o Stefano de Osteno e
ring.re suddetto
jjS^- ^^ Dicembre. [Stima del detto ingegnere].
1693. Si è fatta la balaustrata di marmo lustro avanti l'aitar maggiore
dove vi è la miracolosa Imagine di M. V. sopra disegno dell' Ing.re pje-
trasanta.
772^. Si visita dall' Ing. re Gio. Francesco Malatesta la cupola di S. Maria
presso S. Satiro ed opina che sieno levate le 30 figurine di cotto poste
in giro al cornicione di detta cupola come che male assicurate ed in
buona parte rotte e si levano.
1804. Come chiesa monumentale si proibisce dal governo ogni ristau-
razione senza inteUigenza del governo.
1820-1834. Si ristaurò la cupola e l'aitar maggiore con pitture ed altro.
(Ved. Gazzetta di Milano, 5 marzo e 17 ottobre 1820, nn. 65 e 291; e
1834, 13 novembre, n. 317) e Carteggio.
1834 circa. Disegno di porta principale verso la contrada Falcone del-
l'Arch.o Canonica regalato \sic\
1832. Porta d'ingresso dalla parte della contrada della Lupa, del-
l'Arch.o Vandoni.
1857. Scoperta di pitture a fresco del Borgognone di cui il S. Rocco
venduto alla Pinacoteca di Brera nel 1868.
Sec. XV. Distinta della spesa fatta alla Cappella di S. Satiro per la
somma di ducati 2200 per Bartolomeo della Valle, architetto ducale.
1841. Rotonda bramantesca. Ristauri.
152 VARIETÀ
Le séjour à Milan d'Aulo Giano Parrasio.
E début du XVIe siècle fut, en Italie, l'àge d'or des pro-
fesseurs de rhétorique. Aux grands érudits du XV^ siede,
qui étaient pénétrés de l'esprit de l'antiquité classique,
on vit succèder une generation de pédants pour qui les
auteurs anciens devinrent une mine inépuisable de formules com-
modes, de métaphores, de citations, d'allusions mythologiques, pro-
pres à orner leurs discours: la rhétorique commenda d'y sévir. Il
est vrai que ces pédants étaient aussi des hommes violents et que-
relleurs: on retrouve dans leurs tirades ampoulées l'écho de leurs
haines personnelles, et leurs « praelectiones » sont de véritables
pamphlets contre leurs ennerais littéraires.
C'est le cas pour celles d'Aulo Giano Parrasio. Elles ont été
récemment publiées (i) et fournissent des témoignages fort curieux
sur la violence des polémiques qui mirent alors aux prises les meil-
leurs professeurs des écoles milanaises; sans doute, elles ne nié-
ritent pas tonte confiance, mais nous avons d'autres écrits de ce
temps-là qui les complètent ou les réctifient. En s'aidant des uns et
des autres, on peut écrire un chapitre intéressant de l'histoire des
universités italiennes au commencement du XVI« siècle: c'est ce que
j'ai tàché de faire.
(i) Cf. Francesco Lo Parco, Aulo Giano Parrasio, Studio biografico-critico^
à Vasto, chez L. Anelli, 1899. Les discours et les lettres de Parrasio sont réunis
dans un appendice qui occupe les pages 115-184: j'y ren verrai sans cesse au
cours de ce travail et je dois, de ce fait, beaucoup de reconnaissance à M. Lo
Parco. Cependant il me sera bien permis du lui adresser ici quelques critiques.
En faisant un choix dans les lettres et les discours de son héros, M. Lo Parco
en a parfois laissé de coté qui offraient un réel intérét. Il a totalement ignoré
un manuscrit du Vatican qui contient d'autres discours également inédits. Enfin
il n*a pas toujours su tirer de ses documents tout le parti possible, J'ai jugé
inutile d'indiquer tous les points où je me séparé de lui, mais je puis dire qu'à
la première partie de son livre, je ne dois presque rien, sauf quelques citations
d'ouvrages antérieurs.
VARIETÀ 153
I.
Aulo Giano Parrasio (i), originaire d'une vieille famille de Ca-
labre, était né en 1470 (2) et s'était de bonne heure fait une place
assez honorable dans le monde des humanistes napolitains (3). Mais
il encourut la disgràce du roi Frédéric (4) et il vint se fixer à Rome;
il n'y devait rester que peu de temps. 11 était le client des Savelli
et des Caétani, deux familles dont Alexandre VI était l'ennemi mor-
tel. farrasio faillit étre entraìné dans leur ruine. Heureusement il
était l'ami de Tommaso Inghirami, le savant chanoine du Latran;
Inghirami ou Phaeder, comme on l'appelle plus souvent, aurait in-
tercéde pour lui; mais Parrasio crut plus sage de se mettre hors
de l'atteinte du pape: il gagna la frontière et se rendit à Milan (5).
Il y arriva au début de l'année 1499 (6); tout de suite, il cher-
cha à s'employer comme « pédagogue » et c'est ainsi qu'il fit, pour
son malheur, disait-il plus tard, la connaissance d'Alessandro Mi-
nuziano. Celui-ci était depuis longtemps professeur aux Ecoles pa-
latines (7); mais en outre il dirigeait à la fois une librairie et un
(i) Sur l'ensemble de la vie de Parrasio, 011 pourra consulter, outre Lo Parco
le tra vai l très copieux de Cataldo Jannellt, De vita et scriptis Auli latti Par-
rhasii, Naples, 1854. Nous emprunterons aussi plusieurs renseignements à une
apologie de Parrasio qui fut imprimée en 1505 à la suite de ses commentaires sur
Claudien. Nous en reparlerons par la suite, mais voici toujours la description du
volume en question. Au recto du feuillet de titre : a CI. Claudiani Proser-
« pinae raptus cum lani Parrhasii commentariis ab eo castigatis et auctis acces-
« sione multarum rerum cognitu dignarum. Sequitur Apologia lani contra ob-
« trectatores: per Furium Valium Echinatum eius auditorem ». A la suite de
V Apologie, f . k 7 v°, colophon du 28 aoùt 1505.
(2) Parrasio est toujours qualifié de « Consentinus », mais cela peut signi-
fier seulement qu'il était des eavirons de Cosenza. Sur sa naissance en general,
cf. Lo Parco, o. c, pp. 4-8.
(3) CI ìbid., pp. 1 19-123, le discours par lequel Parrasio ouvrit, à Naples,
son explication publique des Silves de Stace.
(4) ibid., p. 142. Parrasio dit, il est vrai : « odio tyrannidis patria cessi »,
mais nous aurons l'occasion de voir qu'il ne faut pas se laisser prendrc à ses pé-
riphrases d'humaniste.
(5) Lo Parco, o. c, p. 30, note r, et V Apologia, f . C 3 v*.
(6) Cf. ibid., p. 33.
(7) Sur Minuziano, cf. la notice de l'abbé Guillon, dans \q Journal de la Li-
brairie, 1820, pp. 517-320, 551-336, 348-352. Pour le fait en question, voir à la
154 VARIETÀ
pensionnat; le temps depuis lequel il était installé à Milan, le nom-
bre et la nature des ouvrages sortis de ses presses, les relations
enfili que nous lui connaissons, tout laisse croire qu'il avait dans
la ville une situation considérable et que ses affaires marchaient
fort bien. Ce n'était pas qu'il fùt, à proprement parler, philologue:
son Horace ou son Tite-Live, par exemple, ne marquent aucun
progrès sur les éditions précédentes (i). Mais cela lui importait
peu; il visait surtout à fournir de livres ses propres écoliers et
éditait de préférence les auteurs qu'il devait expliquer. Ainsi l'école
faisait marcher la librairie (2).
Bien qu'il fùt d'environ vingt ans plus jeune que Minuzi^no,
Parrasio lui était certainement supérieur par le talent et l'érudition.
C'était irne raison de plus pour que Minuziano cherchàt à se l'at-
tacher. Il le fit entrer chez lui comme « hypodidascalos » ainsi
qu'on disait alors; Parrasio devait le seconder dans ses fonctions
de pédagogue; mais il prétend que tout le soin de l'enseignement
retombait sur lui; en méme temps, il travaillait à l' imprimerle
comme correcteur (3); en échange de ses services, il était logé
et nourri avec les pensionnaires qu'il devait instruire; mais, à l'en
croire, on ne lui donnait que des viandes passées, du pain moisi et
une piquette détestable (4).
Pendant quelques mois, Taccord regna entre les deux hommes;
à deux reprises, Parrasio rendit méme à Minuziano un service assez
p. 332. Ces" écoles palatines n'étaient pas, à proprement parler, une université ;
l'universìté du Milanais était à Pavie ; la fondation des écoles fut l'oeuvre de
Ludovic le More; il en est souvent question dans les épigrammes de Lancinus
Curtius; cf. Lancini Curtii, Epigrammaton libri decem, Milan, 1521, ffs. 30-31
du livre II.
(i) L'Horace est de i486; le Tite-Live est de 1495; en 1505, Minuziano en
donna une réimpression dont il sera parie plus loin.
(2) Cf., dans la notice de Guillon, o c, p. 333, l'avertissement mis par
Minuziano à la fin de son édition du de Oratore.
(3) Il assure qu'il collabora très activement à une édition de Virgile que
Minuziano était en train de préparer ; il aurait rétabli quelques vers altérés de la
Ciris ; et c'est lui qui aurait restitué à Donat la biographie de Virgile ordinaire-
ment attribribuée a Servius. Cf. Lo Parco, o. c, p. 36, note 3, et les Comnien-
tarii de Raptu Proserp., f. a i v°. Dans ses Annales Typographici, Panzer men-
tionne une édition de Virgile parue chez Minuziano en i504:jen'ai pu la ren-
contrer.
(4) Lo Parco, o. c, p. 143 : « Meum fuit illud in te beneficium. . », et
p. 144 : « I nunc et confer illa sapidissima tuceta... ».
VARIETÀ 155
important. Pour pi aire aux Mécènes du temps et les incliner à la
munificence, rien ne valait alors une pièce de vers latins bien tour-
nés. Minuziano le savait, mais hélas! il n'était pas né poète: Par-
rasio dut venir à son secours et lui composer des vers; Minuziano
les presenta comme siens à son protecteur et cela lui valut une
pension de 40 écus d'or (i). D'autre part il était en butte aux cri-
tiques et aux railleries d'un de ses collègues aux écoles palatines,
Emilio Ferrari (2). Celui-ci l'accusait d'avoir « déchiré, gate, bou-
« leversé » Cicéron dans l'édition qu'il avait donnée de ses oeu-
vres; il attaquait Minuziano au cours de ses legons; il l'attaquait
encore dans des épigrammes qu'il faisait afficher sur la grand'place
de Milan. Minuziano se trouvait fort empéché d'y répondre de la
méme manière: Parrasio lui préta le secours de sa Muse et le four-
nit d'épigrammes pour riposter à son adversaire. 11 fit mieux en-
core, il vint au cours de Ferrari pour prendre publiquement la dé-
fense de Minuziano; un duel d'éloquence allait s'engager entre les
deux hommes, mais il semble que les partisans de Ferrari empé-
chèrent Parrasio de parler (3).
La querelle continua; mais maintenant c'était pour son compte
que Parrasio forgeait les épigrammes; il s'y eleva sans effort au
(1) Lo Parco, p 143 : « Quid quod mea opera liberalitatem tui Lysonis prouo-
« casti... ». Il faut noter qu'en un autre endroit (p. 133) Parrasio parie d'Etienne
Poncher comme du « successeur de Lyson ». Or on sait que Poncher rempla9a
comme chancelier du duché de Milan Pierre de Sacierges, évéque de Lugon.
Estce celuici qui est Lyson? M. Léon-G. Pélissier me fait remarquer que pour
les Italiens qui appelaient « Rohano » le cardinal d'Amboise, le nom de Lyson
pourrait fort bien représenter l'évéque de Lucon. Cf. infra la note 2 de la
p. 158.
Je dois faire une remarque generale à propos des témoignages que Parrasio
fournira contre son adversaire. C'est qu'ils sont empruntés à des discours pro-
noncés en public au cours de la querelle, et devant un auditoire où les parti-
sans de Minuziano pouvaient étre nombreux. Parrasio ne pouvait dénaturer les
faits dont il parlait sans s'exposer à étre contredit ; je pense donc qu'en l'espèce
son témoignage peut étre accepté.
(2) C'est ce Ferrari qui, en 1490, donnait à Milan une édition d'Ausone ;
cf. Catal. des livres itnprimés de la Bihlioth. Nat., to. V, col. 613. En dehors de
ce qui va étre raconté, on ne sait que peu de chose sur son compte; Tiraboschi
lui consacre seulement quelques lignes. Cf. tome VI, partie IP, de l'édition de
Modène (1790), p. 789.
(5) Cf. Apologia, f. C I r", et Lo Parco, o. c, p. 144. L'édition de Ci-
céron donnée par Minuziano forme quatre volumes qui parurent en 1498-99 ;
cf. Maittaire, Annales Typographici, tome I, p. 687.
156 VARIETÀ
ton qui était de mise dans le gerire des Invectives. Il vomit contre
ses adversaires les accusations les plus grossières; il se défendit
contre celles dont on voulait l'accabler; on l'avait traité de « mé-
u chant pédagogue » ; il répondit fièrement qu'avant de brandir la
ferule, il avait manie l'épée et que de grands personnages de l'an-
tiquité avaient d'ailleurs fait de méme (i).
Gependant les Frangais avaient reconquis le Milanais et ve-
naient de rentrer à Milan (2); en méme temps Ferrari se décidait
à quitter la ville; dans un discours où il attaquait encore Minu-
ziano, il laissait entendre qu'il partait pour fuir la domination
frangaise. Parrasio était de ceux qui l'avaient accueillie avec joie;
il protesta contre ces allusions dans une nouvelle épigramme et
chanta Page d'or que les Frangais venaient de ramener à Milan: ce
fut le dernier épisode de la querelle, le départ de Ferrari y mit
fin pour tout de bon (3).
L'année 1501 apporta dans la vie de Parrasio plusieurs chan-,
gements heureux. Chez Minuziano, il avait eu comme élève le jeune
Catelliano Cotta, dont le pére était à Milan un personnage impor-
tant. Catelliano s'attacha vite à son maitre et voulut l'avoir comme
précepteur. Parrasio vint demeurer chez lui; mais durant quelques
mois, il continua, semble-t-il, de faire la classe dans le pensionnat
de Minuziano (4). Puis il se lassa de ce ròle subalterne et quitta
le vieux pédagogue; à quel moment, nous ne saurions le dire au
juste, mais en 1501, il semble uniquement occupé de ses travaux
philologiques. Le 17 avril, il obtenait de Louis XII un privilège
pour l'impression de commentaires sur le poème de Claudien de
(1) Cf. l'épigramme citée dans V Apologia, f. D iii v°: on y verrà la vio-
lence de cette guerre de piume. Les autres épigrammes composées alors par Par-
rasio ont été recueillies par Jannelli aux pages 188-194 de son ouvrage (Lo Parco,
o. e, p. 39, note 3).
(2) Avril 1500.
(3) Cf. Apologia, f . C 6 v», et Lo Parco, o. c, p. 39.
(4) Cf la dédicace à Catelliano Cotta des Commentar, de Raptu Proserp.^
f. aa 8 r° : « Quom multos omnis ordinis aetatisque discipulos habeam moruni
« gratia carissimos : noster in te tamen amor praecipuus est. ». Plus loin (v°)
Parrasio dédie ces commentaires à Cotta comme « pietatis erga praeceptorem
« tuae... perpetuum testimonium ». On peut compléter ce témoignage par celui
de V Apologia, f D v" : « Habeàs confessum reum : si quod ultimo loco ponis
(( ostendes: ab Alexandre uel unum discipulum abduxisse: praeter Catullianum
« Cottam : cuius hospitio lanus est usus Alexandri permissu : nisi simulata fuit
« eius oratio ». ; -
VARIETÀ 157
Raptu Proserpinae (i). L'ouvrage flit imprimée dans la maison
méme de Lucio Cotta en méme temps que le Carmen Paschale de
Sedulius et que les poèmes de Prudence (2). Ces deux dernières
ceuvres forment un autre volume qui fut dédié au Napolitain Michele
Rizzi, un des membres du nouveau sénat de Milan. Parrasio savait
que ce Napolitain avait l'oreille de Louis XII ; il glissa dans sa lettre
de dédicace un éloge bien senti du roi de France: c'était sur les
Fran^ais qu'il fondait à présent tous ses espoirs de fortune (3).
11 n'attendit pas longtemps pour les voir se réaliser; le départ
d'Emilio Ferrari laissait libre la chaire d'éloquence des écoles pa-
latines; Parrasio la demanda et l'obtint de Georges d'Amboise, par
un acte du 14 aoùt 1501 (4). Mais il fallait encore qu'il fut agréé
par l'ensemble du sénat. Devant tous les sénateurs assemblés et
les personnages les plus doctes de la ville, il improvisa une courte
harangue pour demander au sénat de ratifier le choix du cardinal.
Sans doute, il était pauvre, mais c'était le mérite qu'on recherchait
en lui, et non les richesses. 11 rappela qu'à Rome, il avait déjà
enseigné l'éloquence et il promit de faire tous ses efforts pour que
(i) Cf. la première édition des Conimentarii (Biblioth. Nat., Vélins, 562).
Le prìvilège est reproduit au verso du dernier feuillet. ©'autre part, dans son Hi-
storia typographica mediolanensis, Sassi décrit un exemplaire des Commentarti qui
porterait le colophon suivant: a Impressum Mediolani In aedibus clariss. Viri Lucii
« Cottae, pridie Kal. sextiles MDI dexteritate Guillelmorum le signerre fratrum »
(voir Sassi, apud Argelati, BibJiotheca scriptorum medici anmsium, to. I, par. I,
col. 612).
(2) Cf., à la Bibliothèque Nationale (Vélins, 2130): « Sedulii Carmen Pa-
ce schale. Aurelii Prudentii Poemata ». Au f. P 6 r°, le colophon suivant: « Im-
w pressum Mediolani sumptibus lani : et Catelliani Cottae : dexteritate Guillel-
« morum le signerre fratrum ». Au f. P ii v°, Parrasio expJique que ses Com-
mentaires sur Claudien ont été imprimés, à mesure qu'il les rédigeait, par des
ouvriers engagés exprès. Mais ceux-ci allaient plus vite que lui en besogne : pour
les occuper il leur a fait imprimer en méme temps ces poèmes de Sedulius et
de Prudence.
(3) F. a ii r": « Ciuilis et Pontificii luris consultiss. Insubriaeque Regio
« Senatori domino Michaeli Riccio Neapolitano Patricio lanus P. S. P. D. ».
Au f. a ili r°, éloge de Louis Xll: « qui... tuo Consilio maximis in rebus utitur ».
Ceite lettre-préface est datée du 13 juin 1501, Ce Michele Rizzi, à qui elle est
dediée, Michel Riz pour les Fran(;ais, joua un certain ròle dans la dìplomatie de
son temps; on le voit par celles de ses lettres qui figurent dans le manuscrit 261
de la collection Dupuy ; nous retrouverons son nom dans la suite de ce récit.
(4) Le diplòme dans Lo Parco, o. c, p. 47, note i. Parrasio devait en-
■seigner « cum solito salario ». D'après V Apologia, (f. B ii v°) ces appointements
s'élevaient à 150 écus d'or.
158 VARIETÀ
les Milanais n'eussent pas à se repentir de lui avoir confié leurs
enfants (i).
Il est probable que Minuziano n'avait pas vu sans envie les
succès de son ancien sous-maitre; nous avons dit qu'il était lui-
méme professeur aux écoles palatines; il se dit sans doute qu'il
allait étre exposé à des comparaisons fàcheuses pour son amour-
propre; les élèves délaisseraient ses legons pour courir à celles de
Parrasio; peut-étre y eut-il aussi des raisons politiques qui l'exci-
tèrent contre son jeune rivai; toujours est-il que brusquement il
lui déclara la guerre. Nous ne pouvons dire avec précision com-
ment les hostilités débutèrent; voici pourtant ce que l'on croit de-
viner. En pleine chaire, Minuziano se fit Taccusateur de Parrasio;
il dit les griefs qu'il avait contre lui, raconta tous les bienfaits dont
Parrasio lui était redevable et lui reprocha son ingratitude; il alla
plus loin; si Parrasio a quitte Naples, disaitil, c'est qu'il s'y était
rendu coupable de meurtre qualifié et qu'il voulait échapper à la
justice de son pays. Quelques jours après, Parrasio ouvrait son
cours: il consacra sa première le^on à se défendre de ces attaques.
On l'avait dissuade, disait-il, de répondre à Minuziano sur le ton
injurieux que celui-ci avait employé, il ne parlerait donc pas de sa
vie privée; il laisser^ait de coté ses meurtres, ses vols, ses rapines,
enfin ses vices honteux. Puis, comme entraìné par le tour de son
discours, il disait avec plus de précision ce qu'avait fait Minuziano ;
il lui reprochait d'avoir servi d'espion à ce haut fonctionnaire qui
venait justement d'étre condamné pour concussion (2); il s'étonnait
(i) Lo Parco, o. c, pp. 137-139.
(2) Ibid ,, o. e, p. 142: « Hic est ille... qui nostrum prae>uleiu, le-
ce petundarum nuper damnatum, in nostras doraos, in nostras fortunas, in no-
ce stras ceruices incitabat, etc. ». Cf. encore, p. 133 : « Non est amplius uulpi
ce locus,... nusquam Lysonis excussor emissarius, iacet cruentus ille delator, in
c( ade linguae qui necem gerebat ». Dans le premier de ces passages, Parrasio
ne nomme pas cet évéque dont Minuziano se serait fait l'agent, mais dans le deu-
xième, celui-ci est nettement accuse d'ètre a l'espion et le pourvoyeur de Lyson ».
Le prélat, condamné pour concussion, serait donc Lyson lui-méme, c'est-à-dire,
très probablement (cf. supra la note i, p. 155) Pierre de Sacierges, évèque de
Lu^on. En attendant que des documents d'archives viennent confirmer cette hy-
pothèse, voici encore une raìson qui me semble l'autoriser. Le deuxième des pas-
sages cités vient immédiatement après un développement où Parrasio chante les
louanges de Poncher qui avait, nous l'avons dit, succède à Sacierges comme
chancelier du duché de Milan. Il est donc vraisemblable qu'au présent il oppose
le passe et le bonheur dont jouissent maintenant les Milanais à la terreur qui
pesait sur eux du temps de Sacierges.
VARIETÀ 159
enfiti qu'un pareli homme l'accusàt. Habile transition pour passar
à l'apologie personnelle qui faisait la deuxième partie du discours (i).
Nous ne connaissons pas la réponse de Minuziano ; mais il est pro-
bable qu'il s'y montrait aussi violent que la première fois. Parrasio
releva cette nouvelle attaque, avec plus de modération cette fois:
u Je ne suis pas venu, disait-il, pour répondre aux calomnies, aux
« chicanes et aux injures que cet homme, le pire des animaux
« à deux pieds, a déversées hier contre moi »>, et il continuait un
peu plus loin: « Pourquoi donc s'applique-t-il ainsi à vous empé-
u cher de venir m'entendre? C'est qu'il veut vous entretenir plus
« longtemps dans l'admiration de sa propre personne » (2).
Le ton méme de ces paroles nous montre que Parrasio avait,
dès lors, cause gagnée: en dépit de Minuziano, les élèves venaient
à lui et savaient apprécier son mérite. Mais Tannée suivante, quand
rouvrirent les cours, la lutte reprit encore entre les deux adver-
saires. Parrasio, sur maintenant de son public, le prit de haut avec
son ancien protecteur. Il conseillait à ses élèves d'aller entendre
u cette bete brute,... pour apprendre à faire la difFérence du chant
« d'Apollon et du chant de Marsyas ». Qu'ils fassent l'épreuve;
ils verront, dit Parrasio, que Minuziano est un plagiaire sans ver-
gogne; l'autre jour, il n'a fait que reprendre, presque dans les
mémes termes, une de mes le^ons de Fan passe (3). Voilà ce que
vaut le professeur, mais que dira-t-on du citoyen? Pourquoi n'est-il
pas venu encore présenter ses hommages à Poncher, le nouveau
président du Sénat de Milan? « C'est qu'au fond il le hait, comma
« le successeur de son cher Lyson : en public, il feint de l'aimer, il
u le loue à haute voix, mais il y met si peu de conviction qu'il a
« l'air d'un homme pleurant sur le tombeaude sa belle-mère » (4).
On voit assez à quoi tendaient ces paroles où se cachait une dé-
nonciation; pourtant elles n'atteignirent pas leur but. Est-il donc
vrai qu'on pùt trouver à redire au « loyalisme " de Minuziano?
En tout cas, Poncher ne le pensa pas, car on ne voit pas qu'il ait
fi) Pour tout ce qui précède, cf., dans Lo Parco, o. c, pp. 140-145, toute
VOratio 5^ in Aìexandrum Minutianum. Dans le manuscrit de Naples, nous avons
là le premier des discours contre Minuziano ; puis viennent le deuxième et enfin
le premier discours du recueil Lo Parco. A les lire attentivement, on se con-
vainc que cet ordre-là est le bon, et que l'éditeur a eu tort de l'intervenir.
(2) Lo Parco, o. c, pp. 135-136.
(3) Ibid., pp. 15 I-I 32. Si la querelle a commencé en 1501, ce discours-ci
doit étre de 1502 : « quae... nos anno superiore... uobiscum communicauimus ».
(4) Ibid., pp. 133, en bas. Sur Etienne Poncher, cf. infra note 3, p. 162.
l60 VARIETÀ
tenu Minuziano en disgràce. Ce fut méme lui, l'année suivante, qui
engagea Parrasio à faire la paix. Celui-ci n'eut garde de s'y refuser;
dans une le^on d'ouverture, il annonga à ses élèves qu'il s'était
réconcilié avec Minuziano, et il enumera tous les Romains célèbres
qui avaient, avant lui, renoncé à leurs haines personnelles. Il ajou-
tait naivement que les élèves y gagneraient, car leur temps ne se
passerait plus à écouter les injures qu'il se devait de lancer contre
son adversaire (i).
II.
Ainsi se termina la querelle (2). Pendant les deux années
qu'elle avait dure, Parrasio se fit connaìtre comme philologue par
de nouvelles publications. En 1502, parut à Milan une édition de
l'opuscule de viris illustribus. Elle était donnée comme l'oeuvre
de Catelliano Cotta, mais celui-ci, dans sa préface, avouait la part
qu'y avait prise Parrasio et qui était évidemment très grande (3).
Un peu plus tard, Parrasio publiait en son nom, cette fois, une
(i) Lo Parco, p. 147. A la fin de cette legon préliminaire à l'explication de Perse,
Parrasio rappelle que l'année précédente il a expliqné les Silves de Stace. Or, à la
fin du discours que nous avons cité plus haut (p. 1 59, note 3), il déclare (Lo Parco,
o. e, p. 134) qu'il va passer à l'explication de Stace, sans doute à celle des Silves.
Le discours étant de 1502, la praefatio in Persiutn, doit étre de l'année 1303. On
y lit d'ailleurs une phrase qui semble confirmer cette dernière date : « Minutia-
<( nus... annis abbine duobus, an tertius agitur, ex hospite factus hostis ».
(2) A la fin de 1502, les adversaires devaient méme étre déjà réconciliés.
L'Ambrosienne conserve un petit poème, intitulé Sirmio, dont la dédicace est
datée du 31 octobre 1502. L'auteur, Stephanus Dulcinus, y célèbre les poètes "mi-
lanais et il nonime, còte à còte, Parrasio et le « docte Minuziano », « cui par
« ingenium eruditioni » (f. e 6 r»).
(3) Cf. Sassi apud Argelati, Biblioth. script, mediol, to. I, par. \, col. 427 :
« Interea uiros illustres... sub titulo Cornelii Nepotis emittemus, et illos quidem
<( multis in locis a me castigatos, ipsius ope lani... » On discutait déjà, à l'epoque,
pour savoir qui était l'auteur de De viris illustribus. Tandis que Parrasio, et
Cotta après lui, le donnait à Cornelius Nepos, d'autres l'attribuaient à Suétone
cu à Pline le Jeune. En 15 io, il en paraissait à Strasbourg une édition dont voici
l'intitulé : Suetonii de Viris illustr. Vrhis Romae : quos qui Cornelio Nipoti uin-
dicant maxime falli Alexander Minutianus praeceptor luce clarius prohauit (Graesse,
Trésor). Ainsi Minuziano s'était più à reprendre le travail de Parrasio, et sans
doute qu'en paraissant le critiquer, il en avait fait son profit : on verrà que, plus
tard, il procèderà de la méme fagon.
VARIETÀ l6l
édition de l'opuscule de regionibus urbis Romae qu'on attribuait
alors à Publius Victor (i). Chaque année enfin, il expliquait à ses
auditeurs des textes nouveaux et difficiles (2).
Ce labeur incessant fut mal récompensé : en 1502 les profes-
seurs des écoles palatines ne furent pas payés de leurs appointe-
ments, suivant un procède d'économies qui était courant à l'epo-
que. Parrasio suspendit ses cours et vécut chichement, nous dit-il,
des quelques le9ons qu'il donnait; il ne remonta en chaire qu'après
s'ètre fait assurer un traitement effectif (3). Mais bientòt la peste
qui avait déjà ravagé Rome, arriva à Milan et y répandit la ter-
reur. C'était alors un fléau périodique, auquel on pouvait toujours
s'attendre. Dès qu'il avait fondu sur une ville, la vie normale y
était suspendue, les écoles étaient licenciées. C'est sans doute ce
qui arriva à Milan; Parrasio interrompit ses le^ons et ne les reprit
qu'au début de l'autre année scolaire (4). Il semble, dès lors, les
avoir continuées sans encombre pendant plusieurs années de suite
et nous savons qu'il eut beaucoup de succès. Son nom tient une
place d'honneur dans ces poésies latines de l'epoque qui sont
comme un journal de la vie milanaise (5). Un prétre qui était lui-
méme pédagogue, abandonna l'école qu'il avait fondée en dehors
de la ville, et rentra loger dans Milan pour suivre plus assidùment
(i) Cf. Marini, Gli atti de' fratelli Arvali, to. II, p. 619; au début du
volume se trouvait une épigramme de Parrasio à Etienne Poncher. La réimpies-
sioii de l'opuscule qui fut faite à Venise, en 1505, contient une préface où l'on
pcut lire l'éloge de Parrasio (L. Preller, Die Regionen der Stadi Rom, p. 47).
On peut donc accepter la date de 1503 que Lo Parco , o. e, p. 55, donne
pour ce travail, sans que d'ailleurs il la justifie.
(2) Cf., dans Lo Parco, o. c, p. 56, la liste des auteurs latins auxquels
sont consacrés les commentaires manuscrits conservés à Naples. Il est vrai que
tous n'ont pas été rédigés pour les cours faits à Milan. Mais V Apologia nous ap-
prend (f. A 4 v**) que Parrasio y expliqua notamment Valerius Flaccus, Florus,
les Silves de Stace, la « Poétique » d'Horace. Au point de vue surtout de l'età-
blissement du texte, certains de ces auteurs étaient alors fort difficiles.
(3) Lo Parco, o. c, p. 151 e 152.
(4) Ibid., p. 156. Sur la peste qui ravagea alors l'Italie, cf. Rosmini, Storia
di Milano, to. Ili, p. 290.
(5) Cf., outre le recueil déjà cité de Lancinus Curtius, les Opuscules poé-
tiques de Giovanni Biffi (Biblioth. Nat., Réserve mYc 668). C'est de Biffi que
l'Apologia (f, A 5 r°) raconte le trait que je cite ici. Il fut, ses vers l'attestent,
un des plus chauds partisans de Parrasio, et sans doute un de ses meilleurs élèves
car le maitre, un peu plus tard, se fit suppléer par lui ; voir le 5* des Opuscules,
f. AA 4 r°.
Ardi. Star. Lomb., Anno XXXII, Fase. V. "
j62 varietà
es cours du professeur en vogue. Parrasio possédait aussi ramitié
de Démétrius Chalcondyle et bientòt il devenait son gendre. Il an-
non9a la nouvelle à ses auditeurs au début d'une legon d'ouverture
et il ajouta qu'en faisant choix d'une femme, il avait surto ut visé
leur intérét: il s'était allié à un homme fort savant dont le com-
merce le ferait chaque jour avancer un peu plus dans la science;
et sa femme ne le dérangerait nullement de ses travaux, pas plus
que jadis Martia ne troubla ceux d'Hortensius, Calpurnia ceux de
Pline, Argentarla ceux de Lucien, Claudia ceux de Stace et Pu-
dentilla ceux d'Apulée (i).
Ces succès et ces amitiés n'étaient rien encore; il fallait à Par-
rasio la faveur et les largesses du gouvernement fran^ais. Nous
l'avons vu, dès l'arrivée des Franc^ais à Milan, se déclarer leur
chaud partisan et plus tard dénoncer Minuziano comme gallo-
phobe. Pour conquérir la faveur des grands seigneurs fran9ais il
ne dut épargner aucune platitude. Nous avons conserve les louanges
grandiloquentes qu'au début d'une legon il adressait à Trivulze,
venu pour y assister; elles sembleraient plus sincères, s'il n'avait,
plus tard, fait resservir le méme discours pour un haut person-
nage de Vicence (2). Son effort dut tendre surtout à s'assurer les
bonnes gràces de cet Etienne Poncher que nous avons nommé plus
haut (3). Les hautes fonctions qu'il occupait à Milan faisaient de
(i) Lo Parco, o. c, pp. 149-150. Une épigramme de Curtius, au f. 80 r°
du livre 16, a eté composée pour les noces de Parrasio. Sur Chalcondyle méme,
on consulterà la notice de Legrand, Bihliogr. helUn., to. l, pp xciv-cr.
(2) Les deuK discours sont conservés dans le Vat. latin 5233 qui contient
plusieurs morceaux de Parrasio restés jusqu'a présent inédits. Le premier discours,
au folio 176- r°, est intitulé : « Praefatio ad Caesa. Commentarla in Laudem Io.
« laco. triuuicii ». Voici un specimen des louanges que Parrasio dècerne à Tri-
vulze : « a seruitute exemptam patriam... suis auctoribus Gallis aduinxisti, Ita-
(( lìae iam fatiscenti pacem reddidisti, quodque feliciter et tranquille uiuamus
« (absit uerbo inuidia) tuum munus est ». A l'exceptìon de quelques phrases ap-
propriées à Trivalze, comme celle-ci, tout le discours se retrouve dans le méme
raanuscrit, au foHo 137 r°. Il n'y a de changé que le nom du haut personnage
devant qui parie Parrasio et les allusions faites à sa famille et à sa carrière. Ce
haut personnage s'appaile Moro (Maurus) et ce qui est dit de lui nous permet
de l'identifier avec Gabriele Moro, de Vicence, qui fut ambassadeur à Ferrare
auprès du due de Bourgogne et en Espagne (Marino Sanuto, / Diarii^ to. VI) ;
oa verrà que Parrasio, après qu'il eut quitte Milan, s'en alla enseigner à Vicence.
(3) Cf. p. 159. Etienne Poncher était devenu évéque de Paris le 3 fé-
vrier 1502 (Gaìlia christ., to. VII, col. 158). Vers le méme temps, il avait été
nommé président du sénat de Milan et chancelier du duché (cf. supra les remar-
ques sur la date des discours de Parrasio contre Minuziano).
VARIETÀ 163
lui le Mécène désigné de tous les gens de lettres. Poncher se préta
de bonne gràce à ce ròle qu'on voulait lui faire jouer: on le voit
par les vers qui célèbrent ses mérites; on le voit encore par les
dédicaces nombreuses qui lui furent alors adressées, et dont Fune
a Minuziano pour auteur (i).
Parnasio est de ceux qui se comptent parmi les intimes du
prélat. C'est Poncher qui lui avait assuré un traitement régulier;
il le comblait de présents; il lui confia, pour l'instruire, son neveu
Francois Poncher (2). Enfin il s'intéressait à ses travaux et lui fit
avoir ce manuscrit inédit des grammairiens latins que Parrasio pu-
blia en 1504 (3). Lui-méme se sentait attiré et séduit par cette
antiquité que les Fran^ais trouvaient partout en Italie et qui avait
pour eux l'attrait de l'inconnu et de la nouveauté; mais il était
trop vieux pour se remettre sur les bancs de l'école. Parrasio dut
étre pour lui comme un dictionnaire vivant qu'il se plaisait à feuil-
leter sans cesse. Nous voyons notre érudit composer pour son pa-
tron un petit travail sur les usages de la table chez les Gaulois et
chez les Espagnols de l'antiquité (4). Parfois méme il dut lui préter
(i ) Lanciaus Curtius lui a consacré plusieurs pièces (op. cit., livre 13, f. 31 r^',
v° des ffs. 35, 36, 37, f. 42 r»). Le livre que lui offrit Minuziano est son édi-
tion des Comnientaires et Lettres de Jacopo Ammannati, parue en 1 506, quand
Poncher avait déjà quitte le Milanais. Parmi les auteurs qui lui ont dédié leurs
ouvrages, on peut citer Battista Spagnoli {Gallia chrisL, ibid., col. 159), et le
secrétaire royal Tristanus Chalcus, qui l'appelle « son Mécène » (Biblioth Nat.,
ms. latin 8785, feuillet du titre). Cf. encore, à la Bibiioth. Nat., le ms. latin 8391
dont la dédicace est adressée à Poncher « patrono literatorum optimo ».
(a) Lo Parco, o. c, p. 133, et aussi, à la p. 152, le passage auquel nous
avons déjà renvoyé. Le fait que le neveu de Poncher fut l'élèvj de Parrasio nou«?
est attesté par un autre témoignage. Une editici des Métamorphoses d'Ovide,
parue à Milan en 1503, est dédiée à Francois Poncher, et, dans sa lettre-prétace,
I E'Tiilio Merula l'appelle « assiduutn lani auditoreni » Janelli, op. cit., p. 37,
note I, et p. 60, note 3). Des termes de cette préface, on ne saurait conclure que
Parrasio alt été, au sens moderne, le précepteur du jeune homme. Mais celui-ci
I fut au moins un assidu de ses cours.
(3) Cf. Keil, Grammat. lai., to. I, pp. vii-ix, et surtout to. IV, pp. viii-x
I où l'édition est décrite et presque tonte la préface reproduite. Je relève ce membre
de phrase : « Quippe quorum [operum] uix e media Bibliothecarum strage quani
« geticus dedit furor, unicum quod extabat exemplar erutum sit auxilio Patris
« Amplissimi Stephani Poncherii luteciae parisiorum pontificis indulgentissimique
a mei patroni ».
(4) Vat. lat. 5233, f. 131 r" : « Ampliss. patri... Stephano Poncherio... lanus S.
a Quoniam Demetrius tibi noster, ex auctoribus graecis in latinum transfert in-
164 VARIETÀ
le secours de son éloquence; il y a dans ses manuscrits un discours
destine au Sénat de Milan; pour qui fut-il compose sinon pour
Etienne Poncher? (i).
Poncher fut rappelé en 1504 et remplacé par Jeffroy Charles,
président du parlement dauphinois et membre du Sénat de Milan
depuis son institution par Louis XII (2). Tout de suite, on vit les
lettrés se tourner vers ce nouvel astre de qui dépendait leur for-
tune. Charles suivit l'exemple de son prédecesseur, et il leur fit
bon accueil. Au reste, il était lui-méme fort curieux de géographie
et il n'épargnait rien pour devenir plus savant en cette science (j).
Il achetait beaucoup de livres anciens et les prétait aux humanistes
de ses amis (4): sur l'un de ses manuscrits, on lit encore: « Est
« genitos hispanorum gallorumque niores, et quales in rep. utrique se gesserint,
« ingrntum me facturum tibi non arbitrar, si pariter ipse tibi cxpressero, quain
« uitae rationem piiblicis et priuatis in epulis iidein sectabautur, quantumque inter
« utriusque elegantiani differat... ;).
(i) Le discours se trouve à la Bibliothèque Nationale de Naples, dans le
manuscrit mème et à la suite des discours contre Minuziano (Manoscr. V. D. 15);
en voici l'incipit : « Non auderem profecto CoUegae Car.mi... ». Jannelli^ qui l'a
connu, pense que Parrasio l'a prononcé lui-méme devant ses collègues (op. cit.,
p. 68). C'est ce qu'on ne saurait soutenir sérieusement, après une lecture atteu-
tive du discours. Ainsi l'orateur donne plus loin à ses « collègues « le nom de
a patres optimi ». Il s'adresse donc aux sénateurs, et, dès lors, on comprend
cette phrase : «. Nam quom diuina mens Reuer. domini Cardinalis buie ordini nos
« praeesse uoluerit ». C'est le président du sénat qui parie; au cours de sa ha-
rangue, il promet d'ètre accessible à tous, chez lui, comme au tribunal. Dans la
bouche de Parrasio, cette promesse n'aurait aucun sens. Au reste, ce n'est pas, dans
le manuscrit de Naples, le seul discours qui ait été prononcé pour Etienne Poncher.
(2) Sur Jeffroy Charles, on consulterà Piollet, Étudg historique sur Geofroy
Charles^ Grenoble, 1882, ou encore, à défaut de cette brochure difficile à re-i-
contrer, le quatrième volume de V Heptaméron dans l'édition Anat. de Montai-
glon : il s'y trouve, pp. 293-299, une notice très complète sur notre personnage.
On rencontre son nom orthographié de diverses manières, mais il avait l'habi-
tude de signer Jeffroy Charles. Le manuscrit 261 de la collection Dupuy con-
tient cinq lettres des lui à Florimond Robertet (L. Dorez, Catal. de la colìeclìon
Dupuy, to. r, p, 261).
(5) Cf., dans VIUnerarlum Portugalhnsium e Lusitania in Indiam, imprimé
à Milan en 1508 (Biblioth. Nat., Réserve G 457), la lettre de dédicace, de Ma-
drignano à Jeffroy Charles, f. A il r°. Elle est à lire tout entière pour la pré-
cision des détails qu'elle renferme sur les études géographiques du chancclier.
C'est lui d'ailleurs qui avait commandé cette traduction à Madrignano.
(4) Cf l'édition que Ioannes Maria Catanaeus a donnée, en 1505, des oeu-
vres de Pline le Jeune. La réimpression qui en fut faite, en 1533, par Josse Bade
VARIETÀ 163
« communis Carolo cum amicis w (i). Il y avait toujours à sa table
des poètes, des savants, des professeurs de l'Académie (2); Aide
Manuce y dina plus d'une fois (3). Minuziano s'empressa d'oftrir
au nouveau Mécène un ouvrage sorti de ses presses: en 1505, il
lui dédiait une nouvelle édition de Tite*Live (4).
III.
Ce volume fut l'occasion d'une nouvelle querelle avec Parra-
sio. 11 y avait deux années pleines que celui-ci expliquait à ses
cours publics les livres de Tite-Live sur la guerre de Macédoine,
et il y avait fait d'innombrables corrections; Minuziano s'arrangea
pour en avoir connaissance, et, dans son Tite-Live, il les publia
comme siennes. Tout de suite Parrasio s'émut, et puisque le pla-
giaire semblait mettre le fruit de son larcin sous la protection de
Jeffroy Charles, lui aussi s'adresserait au président. du Sénat et
i«
et Jean de Roigny reproduit la lettre de dédicace à Jeffroy Charles où se trouve
le détail en question. J'en extrais encóre ce passage (f. a iiì v") : « Plinius doctos
« ueaerabatur. Tu imdique cónquiris, et inuentos stipendiis publicis, sacerdotiis
« honestissimìs, de tuo muneraris, eruditorumque conspectu libentissime frueris ».
(i) Ce manuscrit est à la Bibliothèque Nationale et porte, dans la collection
Dupuy, le numero 454.
(2) Dans la lettre-préface dont il vient d'ètre question, Madrignano raconte
quc Charles le retint un jour à dìner ; « aderant enim philosophi : poetae, astro-
« logi : et oratores: ... aderat et Alexander Minutianus huius urbis decus : qui
« sua doctrina prope innumeros patritios reddidit clariores » (op. cit., f. A 8 r").
Lancinus Curtius, qui, ce jour-là, était aussi au nombre des convives, a d'ailleurs
une épigramme qui célèbre ces diners (op. cit., lib. 18, f. 105 r°) : « De mensa
« praesidis «.
(3) Cf. la lettre de dédicace de l'Horace paru chez Aide ei 1509; elle a
été réimpriniée dans Schelhorn, Amoenttates histor., to. Il, pp. 620-622 ; en voici
un passage intéressant : « sic me uidisti libeater, ut saepe eti;im... conuiuam
tuum esse uolueris, cum multi una cenarent familiares, iidetnque Academici, et
« doctissimi uiri, qui ad te ut olim doctissimi quique ad Mecoenatem, frequentes
« concurrunt atque confugiunt ».
(4) Biblioth. Nat., lav. Rés , J 198. Le recto du premier feuillet est blanc.
Au verso cominence la lettre de dédicace à Jeffroy Charles, elle est datée du
13 septembre 1503. Oh là trouvera tout entière dans le Tite-Live de Draken-
BORCH, to. VII (1746), pp. 257-259: elle contient beaucoup de détails fort in-
téressants pour la biographie de Charles, et confirme, sur certains points, les té-
moignages précédenti.
l66 VARIETÀ
dénoncerait cette manoeuvre. 11 s'occupait justement de réimprimer
ses commentaires sur Claudien. 11 les fit precèder d'une lettre-pré-
face où il lui exposait ses griefs et qui parut trois mois après celle
de Minuziano (i). De plus, il y joignit V Apologia que son élève
Furius avait composée pour lui (2). Furius y répondait aux « In-
« vectives » de Panatus et de Nauta où Parrasio était couramment
appelé « par asino » ou bien: « àne d'Arcadie » (3). Il reprénait
point par point leurs accusations; il en montrait le néant et relevait
avec pedanterie toutes les fautes de grammaire échappées à ses
(i) Elle est datée du 12 décembre et se trouve au f. aa il r" des Com-
mentaires sur Claudien, édition de 1505. Le passage auquel j'emprunte les dé-
tails précédents est reproduit par Drakenborch, ibid., p. 552. Nous désirerions,
sans doute, étre renseignés sur cet incident par un autre que l'interesse lui-mème ;
mais le récit de Parrasio semble très vraisemblable. Nous avons de lui une « Prae-
« fatio in Liuium de bello Macedonico ». (Vat. lat. 5253, f. 170 r°) ; il y fait
allusion au profìt que ses élèves ont tire de Tite-Live l'année précédente (ibid.,
(f. 174 r°). Cette explication de Tite-Live succèda elle mème à celle de Florus
(Lo Parco, o. c, p. 155) qui date de 1502. Ainsi il est vrai qu'en 1505, Par-
rasio s'était déjà occupé beaucoup de Tite-Live. Au contraire Minuziano ne donne,
dans son édition, que le texte de son auteur, sans le moindre commentaire, sans
aucune note; c'est qu'il était incapable, sans doute, de justifier des corrections
qui étaient l'oeuvre d'autrui.
(2) Cf. supra, la note i, p. 153.
(3) L'opuscule est conserve à la bibliothèque Ambrosienne ; le feuillet du
titre manque ; au f. a ii r° se trouve la préface, dont voici l' intitulé : « Rolan-
« dini Panati Laudensis ad illustrem marchionem Pallauicinum praefatio in
« inuectiuas contra lanum Parrhasium asinum archadicum ». A la suite de ces
Invectives, Panatus en publie une autre, de son maitre Nauta (f. e v**), et à la
fin de l'opuscule (f. e ii v"), il réimprime plusieurs épigrammes de ce méme
Nauta, toutes dirigées contre Parrasio. Cette publication ne porte pas de date,
mais tous les faits qui y sont mentionnées concernent la première querelle avec
Minuziano ou méme la querelle avec Ferrari ; elle doit ètre à peu près de l'année
1502, et par suite V Apologia, qui dut la suivre de près, serait antérieure à l'année
1505. D'aìlleurs il suffit de lire le passage du f. B iii r^ où Furius parie de
Poncher ; on verrà qu'au moment où il fut écrit, celui-ci n'avait pas encore été
remplacé par Charles comme président du Sénat. De mème Furius dit ailleurs
(f. C 3 v®) que Parrasio est parti de Naples depuis bientót cinq ans. Or il semble
prouvé (Lo Parco, o. c, p. 27) qu'il quitta cette ville en 1498 au plus tard ;
cela mettrait à l'année 1502 la composition de V Apologia, Il est vrai qu'il s'y
trouve (f. B 5 v°) une allusion au Tite-Live de Minuziano. Mais on peut ad-
mettre que l'ouvrage, compose en 1502, regut des additions au moment d'ètre
employé par Parrasio dans la querelle du Tite-Live.
VARIETÀ 167
adversaires. Heureux temps où quelques solécismes suffisaient à
déshonorer un homme!
Cependant, on ne s'en tenait pas toujours à ces assauts d'in-
jures et de gros mots, et Parrasio l'éprou'va. Un soir qu'il revenait
de dìner chez un sénateur, une pierre Tatteignit à la téte et lui fit
une blessure assez grave. Une enquéte fut ordonnée qui, sans
doute, n'aboutit pas, et Parrasio resta persuade que Minuziano
avait arme la main d'un agresseur. C'était là de quoi l'inquiéter,
mais, comme il l'écrivait à l'humaniste Pio, il gardait la sympathie
des grands personnages de la ville (i). Charles sans doute n'avait
pas encore pris parti entre les deux adversaires: s'il avait été net-
tement hostile à Minuziano, Parrasio, dans cette méme lettre, n'au-
rait pas manqué de nous le dire.
Il changera bientòt d'attitude sans que l'on puisse dire pour-
quoi. Parrasio, il est vrai, a parie plus tard de la baine tenace que
Charles lui avait vouée (2). Mais nul témoignage n'est ici plus
suspect que le sien. Pour célébrer le président du sénat milanais,
il avait, jadis, épuisé toutes les ressources de sa rhétorique; il était
mal venu maintenant à le traiter d'homme cruel et de brute gros-
sière. Surtout, il était de mauvaise foi, en accusant Jeffroy Charles
d'avoir voulu le faire assassiner: au moment de l'agression, c'est
Minuziano, on l'a vu, qu'il en rendait responsable. On ne peut non
plus accepter sans réserves les deux raisons qu'il donne de sa dis-
gràce soudaine. Charles, nous dit-il, s'était brouillé avec Michele
Rizzi, ce Napolitain passe au service de la France dont nous avons
déjà parie ; il voua dès lors une baine mortelle à tous les Napoli-
tains, et surtout à Parrasio qui avait, à deux reprises, loué Rizzi
dans des lettres-préfaces (3). Puis il prétendit installer dans Fècole
(1) Cf. les deux kttres à Pio publiées par Jannklli, o. c , pp. 167-170. Dans
la p emière Parrasio raconte brièvetnent l'agression. C'est seulement dans la deu-
xième lettre qu'il en rend Minuziano responsable : « Incidi iam in suspicionem...
« ab eo [Minuziano] immissum in me sicarium, cum uideret me uiuo furta sibi
« non impune cessura... Habemus adhuc integra principum studia ». Cette lettre
qu'on trouvera tout cntière dans Janelli, a suivi de très près la réimpression du
Claudien; car Parrasio y écrit de son livre : « Sub incudem reuocatus in
« manu nunc est ».
(2) Cf., dans Lo Parco, o. c, pp. 166-171, toute VOratio ad municipium
Vicentinum.
(5) Lo Parco, o. c, p. 167. La ^première de ces lettres-préfaces est celle
du Sedulius (cf. supra^ p. 157, et la note 3). M. Lo Parco note que la deuxième
l68 VARIETÀ
de Parrasio quelques enfants savoyards qu'il protégeait; il voulut
méme, pour leur faire place, obliger Parrasio à renvoyer plusieurs
fils de Milanais et il lui garda rancune de n'avoir pas consenti à
le faire (i). Une telle fermeté est bien étonnante chez un homme
aussi plat que notre rhéteur. Il est plus vraisemblable qu'il y eut à
sa disgràce des raisons politiques. 11 faudrait, pour les pénétrer, con-
naìtre toutes les intrigues qui se tramaient contre la domination
fran^aise, savoir si Parrasio n'était pas l'ami de Milanais suspects
au président du Senat. Cela put faire naìtre des soup^ons que
Minuziano se chargea sans doute d'exploiter. Bref, Parrasio sentii
qu'il n'était plus en faveur; il songea à quitter Milan pour retourner
dans son pays. Ce fut, dit-il, Etienne Poncher qui l'en dissuada (2).
Il resta, et à l'automne de 1506, il continuait d'occuper sa chaire
et d'étre inscrit pour deux cents écus d'or au budget de l'État de
Milan; l'hostilité de Charles, si tant est qu'elle fut réelle, ne se
montrait pas encore par des actes (3).
Cependant, quelques mois plus tard, Parrasio avait quitte Milan
et enseignait à Vicence. On devine comment la chose dut arriver.
Il avait connu à Milan un jeune noble Vicentin qui venait étudier
le grec chez Démétrius Chalcondyle, c'était Trissino, le futur auteur
figure ea tète d'un ouvrage de Rizzio lui-méme, intitulé : De Regibus Hispaniae^
Hierusalem, Galliae... bistorta; elle serait datée du ler octobre 1505, epoque à
laquelle Parrasio possédait encore la faveur de Charles ; la baine que celui-ci lui
voua plus tard aurait don- été toute rétrospective.
(i) Lo Parco, o. c, p. 167: « lUud autem nullo pacto ferre potuit, me
« sua causa noluisse quorundatn Meiiolaaensiuni liberos a nostris aedibus extur-
« bare, quo uacuus apud me contubernio locus AUobrogibus esset suis ». Ce texte
est précieux ; il indique que Parrasio, en mème temps qu'il faisait des cours pu-
blics, avait chez lui une « pédagogie ».
(2) Poncher avait quitte Milan pour partir en arabassade, mais il y revint
sans doute, en passant, dans le courant de l'année 1506.
(3) Lo Parco, o. c, p. 170: « Extat ecce diploma.... senatus eiusque [Ca-
« roli] decreto factum, quo decernuntur annua mihi ducenta, optioque datur, ut ex
a animi mei sententia Mediolani uel Ticini profitear ». On remarquera que Par-
rasio pouvait, à son gre, enseigner à Milan ou à Pavie. Pour comprendre ce dé-
tail, il faut savoir qu'un édit du 7 septembre 1506 enjoignit aux étudiants mi-
lanais d'aller étudier à l'Université de Pavie (Léon-G. Pélissier, Documents pour
Vhistoire de la domination fran^aise dans le Milanais, Toulouse, 1891, p. 148). Il
va de soi que les professeurs de Milan durent, tous les premiers, se transporter
à Pavie. Le diplòme qui autorisait Parrasio à n'en ricn faire doit étre contem-
porain de l'édit en question.
VARIETÀ 169
de la Sophonisbe (i). 11 vit que Parrasio était dégoùté de Milan et
cherchait à quitter la ville; il tàcha sans doute de Tattirer à Vicence
et dut lui servir d'intermédiaire auprès du municipe vicentin. Mais
peut-étre que Charles prit ombrage de ces négociations; il rappela
Parrasio qui s'était rendu à Venise et lui interdit sans doute de
quitter de nouveau Milan {2). Parrasio, devenu suspect, dut at-
tendre, pour gagner Vicence, une occasion favorable. 11 y arriva,
semble-t-il, dans les premiers mois de Tannée 1507 (3).
Où était Tenthousiasme avec lequel, sept ans plus tòt, il célé-
brait la venne des Fran^ais en Italie? 11 n'avait plus que baine et
mépris pour « ces barbares stupides » et il satisfit sa rancune dans
le discours inaugurai qu'il adressa aux Vicentins. Au moins, ils
étaient dignes, eux, que l'on cherchàt à leur plaire; « aux Fran^ais
il ne demandait que le pain de sa vieillesse » (4), mais il se sou-
ciait peu d'emporter leurs suifrages. Quant à Charles, ce n'est plus
l'homme éclairé, le généreux protecteur des lettres qu'il célébrait
jadis; ce Savoyard est la pire des brutes, c'est aussi un imposteur,
un malhonnéte homme. 11 a tout fait pour se venger de Parrasio.
Ce sont des hommes à lui qui Font attaqué dans la rue, mais le
coup ne réussit qu'à demi ; Charles voulut alors le faire empoisonner
par le chirurgien qui soignait sa blessare. A présent, il veut le
perdre dans l'esprit des Vicentins; il va lancer contre lui des ac-
cusations terribles, mais il les tient encore secrètes, voulant ainsi
l'empécher de préparer sa défense. Pour les réfuter, Parrasio at-
tend de les connaìtre: les preuves ne lui manqueront pas; les faits
(i) Cf. les lettres de Parrasio à Tri^sino dans RoscoÈ, Vita e pontificato
di Leone X, trad. par Bossi, to. X, p. 161 sqq. La première, où Parrasio prie
son ami de lui prèter trois écus d'or, est datée « de la maison de Démétrius, le
« 14 octobre 1506 ».
(^) Lo Parco, o. c, p. 169: a Ostentare impotentiam suam... ».
(3) Dans son discours aux Vicentins, Parrasio fait allusion à une recente
victoire des Fran^ais (Lo Parco, o. c , p. 166). Ce ne peut étre que la prise de
Génes, qui est d'avril 1507. Parrasio serait arrivé à Vicence peu de tenips après.
Il n'y parvint pas sans encombre; dans un discours inédit qui fut prononcé à Vi-
cence, il disait en pirlant de ses tribulations : « Quintus iam mensis est: ex quo
« male feriatus bine illuc: illinc huc erro bellumque musis indixi » (Biblioth. Nat.
de Naples, uis. V. D. 15, 5^ f. r° d'un discours intitulé : Praefatio in Liuhim.
Vicentiae).
(4) Cette phrase est extraite du discours inédit cité dans la note précédente
(6® f. r") ; tout le reste ne fait que résumer VOraiio ad tnunicipium Vicentinumy
publiée par Lo Parco.
170 VARIETÀ
eux-mémes, la vie qu'il méne enfin diront aux Vicentins s'il est
rhomme que représentent ses calomniateurs. i
Parrasio n'eut pas, setnble-t-il, à faire cette démonstration; on
n'a gardé de lui aucun discours qui formule avec précision et qui
réfute formellement les calomnies dont il se disait la victime. On
devine cependant quelles elles pouvaient étre; c'étaient celles qu'il
avait lui-méme exploitées contre Minuziano et qui reviennent dans
toutes les « Invectives » d'humanistes; on avait attaqué ses moeurs,
on l'avait accuse d'amours contre nature; il est vrai que cette ca-
lomnie était devenue un lieu commun de l'invective, mais cela
méme nous force d'admettre que la vie des pédagogues ou plutòt
les moeurs du temps semblaient souvent l'autoriser.
Notre intention n'est pas de suivre Parrasio à Vicence; il y
passa deux années qui furent encore troublées par des polémiques
et assombries par des besoins d'argent (i); après la bataille d'A-
gnadel, l'approche des troupes ennémies le for9a de quitter la ville;
il se réfugia à Venise, puis enseigna quelque temps à Padoue, mais
la guerre l'empéchait de se fixer nulle part; au début de l'année
151 1, il quitta l'Italie du Nord pour retourner dans son pays (2).
étai reste à Milan sept années entières, sept années qui fu-
rent peut-étre les plus laborieuses et aussi les plus agitées de son
existence. Ce sont celles de ses meilleurs travaux, celles aussi de
ses polémiques les plus vives. En l'étudiant pendant cette période,
on peut se flatter de le connaitre tout entier et l'on apprend à
connaìtre en méme temps l'esprit et la condition des professeurs
de son epoque. Ce sont 'de pauvres hères qui vivent au jour le jour
et qui souvent sont exposés à mourir de faim. Pédagogues ou pro-
fesseurs publics, ils sont toujours à attendre leurs honoraires ou
leur traitement. Ils dépendent uniquement du caprice des « Mécènes »
qui les entretiennent, et, pour se les rendre favorables, les prières
et les flatteries ne leur coùtent jamais rien. Ils n'ont pas de dignité;
en revanche ils sont pleins d'orgueil. Ils sont fiers de leur science
du latin et surtout ils sont fiers de leur érudition; ils en font pa-
rade dans leurs le9ons d'ouverture, ils en éblouissent leurs audi-
teurs et leurs élèves. Mais la concurrence est trop apre; les rivaux
moins heureux s'agitent; des polémiques s'engagent; de gros mots
sont échangés. Finies, ces belles attitudes imitées de l'antiquité,
l'homme du XVI<= siècle reparaìt avec ses passions à fleur de peau.
(i) Cf. RoscoÈ, o. et 1. e.
(2) Lo Parco, o. c, pp. 76-80.
VARIETÀ
171
avec son tempérament querelleur et violent; ces guerres de piume
se terminent souvent par des coups d'épée.
Quelques-uns de ces rhéteurs étaient des hommes fort médio-
cres, mais Parrasio fut au moins un bon ouvrier qui fit de la be-
sogne fort utile. Il s'attacha avant tout à l'épuration des textes an-
ciens; il rechercha les bons manuscrits des auteurs classiques et en
I forma une collection importante. Il a joui, en son temps, d'une re-
nommée incontestée; qu'on juge de celle qu'il dut avoir parmi les
Fran^ais plus grossiers qui suivirent ses le^ons à Milan. L'impres-
sion qu'ils en emportèrent acheva de les conquérir à la cause de
l'humanisme (i); et ce ne fut pas, sans doute, le moindre resultai
du long séjour que fit à Milan notre Parrasio.
Louis Delaruelle.
(i) Ceci n'est pas une simple hypothèse; ce mème Poncher, qui fut le Mé-
cène de Parrasio, essaiera, un peu plus tard, d'attirar Erasme en France.
172 VARIETÀ
Un'edizione ufficiale di storici milanesi.
L culto che mólte città italiane, grandi e piccole, ebbero
per la raccolta e la conservazione delle memorie patrie,
la municipalità di Milano cominciò a nutrirlo relativa-
mente tardi. L'occasione che prima il comune avrebbe
potuto cogliere per dare incremento agli studi storici milanesi, si
presentò nel 1598, quando Giacomo Filippo Besta, con una supplica
a stampa, chiese al consiglio generale un sussidio per la pubblica-
zione della sua opera in tre volumi, intitolata Descrizione e mera-
viglie della città di Milano e delle imprese de* suoi cittadini. La sup-
plica fu messa all'ordine del giorno per la tornata del 18 settembre
di quell'anno, e il consiglio de' LX conferi al Tribunale di Prov-
visione il mandato di eleggere una commissione per « visitare »
il manoscritta e riferire (i); ma, a quel che pare, non se ne fece
nulla, e l'opera del Besta rimase ed è tuttora inedita (2). Né miglior
sorte dovette avere il progetto di un' edizione corretta del Corio,
per la quale, nel 1601, il vicario Fabrizio Bossi e i XII di Prov-
visione officiarono direttamente il signor Giovanni Antonio Tas-
sani (3).
La prima deliberazione, destinata effettivamente a dotare la
città di una collana storica municipale, fu quella presa dalla Came-
retta molti anni più tardi, e proprio nel 1622. Il benemerito vicario
di queir anno, Gio. Batta Brivio, nell' adunanza del 6 settembre
parlò della cosa a' LX del consiglio con vero amore se non con
grande eloquenza. Egli mise in rilievo ; dice il verbale, « che già
u che le antiche memorie delle grandezze di questa città per l'in-
(i) Arch. stor, civ. di Milano, Dicasteri, Cameretta, e. 121; v. pure nella
biografia premessa alla 2.* edizione del Giulini, Memorie, Milano, 1854, la nota
a p. XV del voi, I.
(2) I tre volumi autografi, e una copia del 2." voi,, fatta eseguire dallo stesso
autore, sono in Trivulziana (Codd. 180-83). L'Ambrosiana possiede un volume
di Frammenti (P. 258, sup.) e una copia del 2." voi. (P, 276, sup).
(3) Porro, Della necessità di correggere il Corio, in (\uQst^ Archivio, IV, p. 852.
VARIETÀ 173
« giuria de' tempi andavano perendo e consumandosi, era ben ra-
« gione che si procurasse almen di conservar V opera di quegli
« auttori, che le attioni memorabili e gloriose de' nostri antenati
« avevano alla posterità trasmesso negli annali e componimenti
« loro. De' quali perché alcuni erano scritti, et altri seben alla stampa
a da principio furono dati, nondimeno per 1' antichità rarissimi si
« trovavano di presente, et erano in breve per smarrirsi a fatto,
« veneva raccordato per cosa sommamente convenevole e neces-
« saria al servizio e splendor publico il far una scelta delle più
u degne historie di Milano, e darle alla stampa a spese d' essa
« città, col deputar persone che di tal impresa prendessero parti-
« colar cura, e cercassero di effettuarla in quel miglior modo che
« fosse possibile » (/).
La Cameretta, « approvato e commendato » a unanimità il
" raccordo » del vicario, deliberò di affidare la cura della stampa
al dottore Paolo Ro, regio avvocato fiscale, con l'incarico di aggre-
garsi alquanti collaboratori. Il Ro, che nel 1622 era de' LX, scelse
nel seno di questo consesso tre colleghi di lavoro nelle persone del
marchese Giovanni Maria Visconte e de' conti Antonio Visconte e
Massimiliano Attendolo Bolognino. Ma costui mori presto, e il Ro,
distratto da altre cure, fu assente da Milano per più di due anni,
sicché il lavoro rimase in gran parte a carico degli altri due (2).
I delegati dal comune per la stampa delle storie si rivolsero
f^jnaturalmente alla nota tipografia regia e camerale de' Malatesta,
citata anche dal Manzoni, come quella alla quale, nel settembre del
1612, fu commessa da don Giovanni de Mendozza la stampa della
u solita grida, corretta ed accresciuta ad esterminio dei bra-
« vi » (3). I Malatesta furono una vera dinastia di tipografi, il cui
albero genealogico, con 1' elenco de' numerosi privilegi non senza
contrasto ottenuti, si conserva nell'Archivio storico civico di Mi-
lano (4), dove, con la cortese assistenza del dott. Ettore Verga, ho
senza fatica rintracciato i documenti inediti che formano l'appen-
dice di questo scritto.
Fu Melchiorre Malatesta quegli che fissò con la municipalità
di Milano i patti per l'edizione ufficiale degli storici cittadini; ma,
venuto egli a morte nel sessennio che trascorse fra la delibera-
(i) Arch. stor. civ., Dicasteri, Cameretta, e. 131.
(2) Ved. le relazioni premesse a' due volumi che della collana vennero alla luce.
(3) Promessi sposi, cap. I.
(4) Stampatori, e. 891.
174 VARIETÀ
zione della Cameretta e la pubblicazione del primo volume, l' im-
presa fu effettivamente compiuta da' suoi due figli ed eredi Gero-
lamo e Paolo Landolfo Malatesta. Nella supplica indirizzata ap-
punto da costoro al governatore di Milano nel 1628 (quando cioè
era imminente la pubblicazione del primo volume) per conseguire
il diritto di esclusività nella stampa e nelia vendita delle storie
milanesi edite e inedite, appare uno degli obblighi assunti da' con-
traenti, e cioè « che dalla città si mantenesse un correttore, et
« dall'impressore un altro ». Il Motta, a cui dobbiamo la pubblica-
zione di questo documento (i), dice che il correttore municipale
fu « evidentemente » quel G. A. Tassani, incaricato, come abbiara
detto, molti anni prima, di correggere il Corio; ma a noi questa
sembra una congettura arrischiata, perché, fra l'altro, crediamo
che i correttori di cui si fa parola nella supplica, dovessero com-
piere un ufficio assai più umile di quello per il quale il Vicario e
i XII di Provvisione avevano scritto direttamente al Tassani nel
1601 (2). I delegati stabilirono inoltre con i tipografi camerali il
formato dell'edizione, che fu fatta in folio, e fissarono, come ri-
sulta da' documenti che pubblichiamo, il prezzo d'ogni foglio di
stampa in L. 9, senza l'incisione e l'impressione de' rami.
Per quanto l'opera si dovesse compiere a cura e spese della
città, a' Malatesta non sfuggi il beneficio morale e materiale che a
loro ne sarebbe potuto venire, e però invocarono tutti i fulmini
della legge contro i concorrenti, che già cominciavano ad apparire
sul mercato librario milanese. Difatti la pubblicazione ufficiale delle
storie non era stata per anco intrapresa, che il tipografo Bidelli
nel 1625 dava alla luce i Rerum patriae lib. IV dì Andrea Alciato.
I Malatesta quindi: « perché non siano defraudati da qualche emuli
« et invidiosi », desiderano un « privilegio perpetuo, a fine che
u ninno lìbraro, né stampatore, né di qualsivoglia conditione, che
« non abbi causa de detti heredi possa stampare, né tener venali
« in questa città, né in qualsivoglia luogo del dominio di Milano i
u detti libri, né parte di quelli, sotto pena della perdita de' detti
« libri, che si troveranno o stampati o introdotti contro forma d'esso
a privilegio, e de scudi 500, ed altre pene arbitrarie » ecc., ecc. Il
governatore Gonzalo Fernandez de Cordova, di manzoniana me-
(i) E. Motta, Briciole bibliografiche, Como, 1893, pp. 36-7.
(2) Questi avrebbe dovuto rivedere la Storia del Corio « et correggerla de-
« gli errori che dentro vi sono sparsi et ridurla in stile più ornato e più con-
ce forme a' tempi », Ved. quest'' Archivio, IV, p. 854.
VARIETÀ 175
moria, « dal Campo sopra Casali, a' 15 maggio 1628 », concesse
il privilegio, ma limitò di molto le pretese de' fratelli Malatesta, ri-
ducendo la durata del diritto di esclusività a soli dieci anni, e i
500 scudi di multa a 100, quante volte però si fosse trattato di
u opera nuova et non più data in luce da altri ». Sicché il Bidelli,
avvalendosi di questa restrinzione, che lo metteva in grado di fare
la concorrenza a' tipografi camerali, l'anno appresso si accinse a
pubblicare, e pubblicò in un volume, che gareggia con le edizioni
malatestiane per il formato, i tipi, le incisioni, il De bello inussiano
di Galeazzo Capella, e le Historiae cisalpinae del Puteano. I Mala-
testa allora fecero buon viso a cattivo gioco: gelosi di conservare
la privativa di fornitori comunali, si accordarono col Bidelli, e, in-
cettata r edizione, riuscirono a venderla tutta intera al comune,
come se fosse stata fatta da loro, a L. 9 il foglio di stampa, oltre
la spesa per l'incisione e l'impressione di due rami (i).
Con la pubblicazione delle Historiae cisalpinae il Bidelli era
venuto ad attraversare il disegno de' delegati del comune, perché
questi le avevano comprese nel piano della collezione ufficiale (che
vogliamo ritenere incompleto, per giustificare, fra le altre omis-
sioni, quella gravissima del Corio) insieme con le Historiae insu-
bricae dello stesso Puteano, i dieci libri del Merula, il De rebus
gestis prò restitutione Francisci Sfortiae del Capella, le Vitae vi-
scontee del Giovio (v. doc. I), e due opere affatto inedite: i venti
libri di Tristano Calco e la Vita Philippi Mariae di P. C. Decembri.
Ma non tutti questi scritti ebbero la stessa sorte, perché la stampa
delia collana si arrestò a' due primi volumi, l'uno consacrato al
Calco, e l'altro al Merula, al Giovio e al Decembri.
Preparata la materia, e spinta a buon punto la composizione
tipografica, il delegato Giovanni Maria Visconti, che più degli altri
(i) Questi due rami sono i « ritratti del Medichino » e le a Imprese del
« Medichino » del doc. IV. Dal quale si rileva la eccessiva condiscendenza degli
amministratori verso i Malatesta, che facevano addebitare al comune (e il comune
pagava) parecchie spese di lavori eseguiti dall'incisore nel loro esclusivo interesse.
Difatti l'edizione di quattro operette del Bescapé, che vide la luce nel 1628, essi
la stamparono per loro conto, addossando al comune le spese de' frontespizi. Cosi
pure VEpitome Historiae Mediolanensis Tristani Calchi fu edita da' Malatesta nel
1627 (e non già senza anno, come dice il Predari, Bibliografia enciclopedica mi-
lanese, Milano, 1857, p. 126) per farne un presente a' signori P. Ro, G. M. Vi-
sconti, e A. Visconti; ma il comune pagò le spese delle incisioni, se non il re-
sto. Gli omaggi personali fatti col pubblico denaro non sono quindi una inven-
zione del sec. XX!
176 VARIETÀ
si spese per tradurre in atto la volontà del consiglio generale,
pensò di provvedere a' disegni e alle incisioni de' frontespizi, de' ri-
tratti e de' fregi necessari, perché 1' opera riuscisse degna del co-
mune milanese. I disegni, chi avrebbe saputo tracciarli meglio del
Cerano, nonostante la sua tarda età? La fama di Gio. Batta Cre-
spi, detto il Cerano dal nome del suo borgo natio, empiva allora di
sé tutto il dominio, e volava anche lontana. Reduce da Roma e da
Venezia, nelle cui scuole aveva studiato pittura, architettura e pla-
stica, egli si distinse sùbito a Milano, dove il cardinale Borromeo
gli commise un gran numero di opere, e lo chiamò a insegnar pit-
tura nell'accademia fondata da lui. 11 modello e la direzione de' la-
vori per il colosso di S. Carlo sopra Arona, le statue e le scul-
ture ornamentali compiute per le porte del Duomo lo avevano reso
da molto tempo popolare, quando G. M. Visconti si rivolse a lui,
settantenne, per l'illustrazione delle storie cittadine. Dev'essere in-
fatti del marchese Visconti una traccia di frontespizio (doc. II) de-
ferentemente inviata al Crespi nell'ottobre del 1627.
L'artista accettò di buon grado l'incarico, e disegnò non solo
il frontespizio e un'arma di Milano per il primo volume della col-
lezione, ma anche i frontespizi per VEpitome del Calco e per il
secondo volume, oltre i dodici ritratti de* Visconti inseriti nelle
Vitae del Giovio, i quali, pur non essendo firmati, non si possono
attribuire che a lui.
Questi disegni, notevoli tutti per il loro valore intrinseco, fu-
rono fra le ultime manifestazioni artistiche del Cerano, morto, com'è
noto, nel 1633, e meritano perciò di non essere trascurati dagli
studiosi dell'arte. Il frontespizio per il primo volume fu eseguito
scrupolosamente sulla traccia proposta da' delegati: in alto, l'arma
di Milano fra due figure simboleggianti la Virtù e la Gloria; sotto
r arma, la figura di Milano in veste di giovine guerriero, che ha
nella destra lo scettro e la corona, e nella sinistra altri simboli di
sovranità; a' lati, Marte e Mercurio; nella parte inferiore, una targa
rettangolare recante il titolo dell'opera contenuta nel volume (Tri-
stani I Calchi \ Medio lanen. \ Historiae \ patriae 1 libri \ XX) ^ fian-
cheggiata dalle personificazioni dell'Adda e del Ticino che ofi'rono
pesci alla città. L' « invenzione della machina », per dirla con la
frase ufficiale, cioè la composizione e la disposizione delle parti,
in questo frontespizio a tema troppo obbligato, è abbastanza felice;
il disegno rapido e senza smancerie nell'insieme, ha però un poco
di quell'ampollosità e quella pesantezza, specialmente ne' nudi, di
cui il Cerano non sempre si seppe liberare.
Più armonico forse, ma non men grave di elementi ornamen-
VARIETÀ 177
tali è il frontespizio disegnato per il secondo volume: in alto, lo
stemma de' Visconti sostenuto da due putti uscenti dalle bocche di
due angui attorti; sotto, una targa col titolo del libro (i), sorretta
da un' aquila e da due figure che sembrano l'Adda e il Mincio in-
catenati. La grande arma di Milano in mezzo a due putti, che tro-
vasi nel secondo foglio del primo volume, e il piccolo frontespizio
per V Epitome del Calco, costituito in gran parte da una targa col
titolo dell'opera, sormontata dall' insegna di Milano « con bam-
u bozzi », rivelano pure la mano esperta del Crespi, che non di-
sdegnò di firmare questi lavori di minor conto, come soleva : Cer-
ranus delin,
Cotesta sua buona consuetudine mi ha fatto dapprima dubi-
tare che i dodici ritratti anonimi de' Visconti non fossero opera
sua; ma, in séguito a un attento esame delle incisioni, ogni dubbio
è completamente scomparso. Ne' dodici ritratti tutte le eccellenti
qualità del Cerano appaiono armonizzate: la franchezza del dise-
gno, r eleganza del tocco, e, più di ogni altro, alcune caratteristi-
che botte di scuro ne' fondi, con le quali egli sapeva rendere ani-
mate e luminose le figure; mentre i suoi difetti di maniera e di
grazia affettata ritornano nelle cornici, che chiudono i ritratti con
motivi ornamentali ricordanti l'autore de' frontespizi.
D'altronde non si saprebbe spiegare perché mai il comune, con
imperdonabile e irriverente leggerezza, pensasse di affidare al Ce-
rano la sola parte decorativa dell'edizione, e a un anonimo la parte
veramente artistica; e come mai il Cerano, lungi dall'adontarsene,
accettasse di buon grado la parziale e modesta commissione con-
feritagli. Ma su questi ritratti viscontei del Crespi, e in genere su
tutti quelli che servirono ad illustrare le diverse edizioni delle
Vitae del Giovio, io mi propongo di parlare un' altra volta, men
rapidamente, rilevando parecchie inesattezze nelle quali si è in-
corsi finora (2).
(i) Questo frontespizio fu adoperato due volte nel secondo volume; prima
col titolo: Georgi Merulae Alexandrini antìquitatis Vicecotnitum libri X, e poi con
l'altro: Duodecim Vicecomitum Mediolani Principum Vitae auctore Paolo Jovio
Episcopo Nucerino. La Vita Ph. Mariae del Decembri fu stampata in fondo a
questo stesso volume senza frontespizio.
(2) Il D'Adda, per dirne una, nelle sue Indagini storiche, artistiche e biblio-
grafiche sulla libreria visconteo-sfor^esca di Pavia, Milano, 1875, p. XLIX, chiama
il ritratto di Filippo Maria Visconti, contenuto nell' edizione pari^na del 1 549
delle Vitae di P. Giovio, esatta riproduzione della nota medaglia di Vittore Pi-
sano, che in verità è tutt'altra cosa.
Arch. Star. Lomb., Anno XXXII. Fase. V. 12
178 VARIETÀ
Il marchese G. M. Visconti, ottenuti i disegni dal Crespi, ne
commise l' incisione a Cesare Bassano, uno de' migliori bulini del
seicento. Della precisione e dell' eleganza di quest' artefice si po-
trebbe convincere sùbito anche un profano, raffrontando il nitido
frontespizio che egli incise per 1' edizione del Calco, con quello
sciatto e sgarbato che suU' identico disegno esegui nel 1644 un
L. P. Bianco per il Theatrum mediolanense di Salvatore Vitale.
Il lavoro di preparazione, il disegno, l'incisione, l'impressione
de' rami e la stampa del testo non richiesero meno di cinque anni;
e quindi solo nell'adunanza camerale del dicembre 1627 il vicario
dottor Fabio Dugnani potè comunicare a' signori LX « che in cou-
rt formità di quello che fu stabilito a gli anni passati circa il dar
« alla stampa le Historie di Milano, i sigg. Delegati a tal impresa
« non havevano mancato d'ogni cura e diligenza possibile, e che
« finalmente s'era stampato Tristano Calco nella forma che si po-
« teva vedere dal libro quivi essibito, di cui doppo le feste si man-
« derebbe copia a ciascuno di loro sigg., e che tuttavia da i me-
« desimi sigg. Delegati si proseguirebbe il rimanente dell'impresa,
« col procurare che si mandino in luce l'altre bistorie » (i). Ma il
libro non fu effettivamente pubblicato che dopo il maggio del 1628,
come si deduce dalla Summa privilegii che trovasi a tergo del se-
condo frontespizio, e che altro non è se non la parte essenziale del
documento edito dal Motta, redatta in latino.
Non risulta dagli atti che il Vicario annunciasse egualmente la
compiuta stampa del secondo volume, il quale però dovette veder
a luce nel 1630, nonostante che la relazione premessavi da' delegati
rechi la data de' 13 agosto 1629. Difatti a'ia fine delle Vitae vi-
scontee si legge: « Mediolani. Apud her. Melchioris Malatestae Im-
pressores Reg. Due. et Civit. M. DCXXX ».
Dopo quest'anno, la collana non ebbe più séguito, almeno nella
forma e con gl'intenti iniziali. Il comune e i delegati per esso mi-
sero da parte le storie degli scrittori passati a miglior vita, e si mostra-
rono solleciti esclusivamente de' vivi, ora incoraggiandone l'opera
con l'acquisto di molti esemplari (v. doc. VI), ora assumendosi in
tutto o in parte le spese di stampa (2), ma più specialmente isti-
tuendo la carica di storiografo municipale, che primo occupò il Ri-
pamonti nel 1635. Cosi che i delegati non si dissero come una volta
(i) Arch. stor. civ., Dicasteri^ Cameretta, e. 132.
(2) Ved. nell'Arch. stor. civ. gli atti della Cameretta sotto le seguenti date:
24 novembre, 1639; 3° dicembre, 1649; ^ aprile, i^joj 30 dicembre, 1654; 24
gennaio, 1656.
I
VARIETÀ 179
« per la stampa », ma « sopra il far scrivere le storie di questa pa-
« tria w (t); e alla carica di storiografo aspirarono spesso più cac-
ciatori d'impieghi, che persone degne dell'ufficio. La ressa fu
tale nel 1645, che il comune incaricò il signor Gerolamo Legnano
e il marchese Vercellino M. Visconti di assumere le dovute infor-
mazioni « sopra il concorso de' soggetti pretendenti di continuare
« la storia di Milano » (2).
Una vera appendice a' due volumi pubblicati tra il '28 e il '30
vide la luce quattordici anni dopo, sotto il vicariato di Giulio Du-
gnano, fratello di quel Fabio Dugnano che nel 1627 aveva tenuto
a battesimo l' impresa del comune, e fu la raccolta de' Residua di
Tristano Calco (3), tratti per opera del Puricelli da un codice pos-
seduto da L. A. Cotta, e preventivamente esaminato dal Legnano
e dal Visconti summentovati. Tutte le altre pubblicazioni storiche
ufficiali e semi-ufficiali che furon fatte poi, non si possono consi-
derare come atti esecutivi della deliberazione presa dalla Cameretta
il 6 settembre del 1622, perché non rispondono allo spirito, diciamo
COSI, di conservazione, e non di produzione, che l'aveva informata.
Prima di chiudere però questi appunti bibliografici, possiamo
rivolgerci due domande: Quanto costò la stampa de' due volumi
alla municipalità di Milano? Il denaro fu bene speso?
I documenti che pubblichiamo, e che forse non riusciranno
inutili per la storia economica delle arti grafiche, ci consentono di
rispondere facilmente alla prima domanda. 11 comune spese per la
stampa de' 248 fogli che compongono i due volumi (4) L. 2232, e
per l'incisione e l'impressione de' rami altre L. 1758; in tutto
L. 3990; e poiché di ciascun volume si tirarono 250 copie, ogni
copia venne a costare quasi L. 8 (5). Occorrerebbe conoscere il
(1) Cameretta, 5 aprile, 1653.
(2) Ibid., 23 dicembre, 1645.
(•{) Tkisiami Chalci mediolanensfs historioeraphi Residua e Bihliotheca Pa-
tricij Nobilissimi Ludi Hadriani Cottae, nunc primo prodeunt in Iticem, studio et
opera Joannis Pe tri Puricelli, Sacrae Theol. Doctoris et Laurentianae Basilicae
Archipresbyterij qui suos etiam iìlis Indices et Epitomas adiecit. Mediolani, apud
Ioannem-Baptistam et lulium-Caesarem fratres Malatestas, Regio- Camerales et Ci-
vitatis Typographos, MDCXLIV, in f., pp. 120.
(4) Le pagine stampate sono 471-I-8 n. n. nel i.° voi., e 326 1 139-1-40+3
n, n. nel 2.°; le rimanenti sono bianche.
(5) In questa cifra non é compreso però il valore de' disegni di G. B. Cre-
spi, che non sappiamo se, e in qual misura fu ricompensato ; né il prezzo de'
libri a stampa e manoscritti, di cui si servirono i tipografi, che ci è noto solo
in parte (ved. doc. I).
l8o VARIETÀ
prezzo della mano d'opera, della carta, e moltissimi altri elementi
d'indole economica per poter giustamente valutare queste cifre;
però, data l'ingordigia de' Malatesta, non crediamo di apporci male
ritenendo che a uno speculatore accorto l'impresa sarebbe costata
molto di meno.
Infine, se spese troppo, spese bene il comune? Non vorremmo
esser tacciati di severità verso i delegati preposti all' esecuzione
dell'opera; è un fatto però che essi non presero nessuna elemen-
tare cautela nella scelta e nella revisione de' testi. Certo, da due
valentuomini del secolo XVII, orecchianti di studi storici e lette-
rari, non si potrebbe pretendere ciò che oggi dicesi un' edizione
critica, ma un tantino di circospezione, di prudenza e di diligenza,
si. Essi invece buttarono nelle mani de' tipografi il primo Giovio
o il primo Decembri che capitò loro fra' piedi, senza dar nem-
meno un' occhiata al nome dell' editore o dell' amanuense. Si che,
per esempio, la lezione della Vita Philippi Mariae edita dal co-
mune, è talmente guasta, da non poter reggere il confronto con
nessuno de' codici che dell' opera di P. C. Decembri sono a mia
conoscenza. Eppure uno di questi, il Trivulziano 1273, è dovuto a
Giovan Giacomo Chiesa, noto copista milanese, e, per giunta, se-
gretario, come suo padre, della municipalità di Milano (i); il quale
lo trascrisse proprio nel 1625, quando cioè l'edizione affidata a' de-
legati non aveva ancor visto la luce.
Giuseppe Petraglione.
(i) Ved. Teatro genealogico delle famiglie illustri e cittadine di Milano, ms.
Trivulziano, fondo Belgioioso, non ancora collocato.
VARIETÀ
l8l
DOCUMENTI
(Archivio storico civico di Milano, Storici milanesi).
I.
1628^ A di II agosto.
Communità de Milano deve dare per V infrascritti libri :
Dati al Sig.
Sen.re Ro
in occa-
sione del-
le Histo-
' rie che si
dovevano
stampare
Hist. di Giorgio Merola in fol. datta che
hanno adoperata per copia da fare
ristampare L. 24
Hist. Cesaip'tna del Puteano, in 4° . . . „ 6
Hist. Insubria del Pateano, in 8°. . . . „ 4:10
Hist. Galeatij Capette de Restitut. Francisci
Sfortiae Mediolani Ducis, in 8° . . . „ 3
Vite Illustrium Virorunt Pauli Jovij cum
figuris in fol. allemagna speso . .
» 24
(0
L. 1155:17:6
E più deve dare n. 250 Vita Philippi Mariae Vicecomes (sic)
Mediolani Ducis è fogli undeci a L. 9 il foglio . . L.
99
L. 1254:17:6
E più n. 250 Hist. Cesalpina Puteano, fol. 22 a L. 9 ii
folio L. 198
L. 1452:17:6
Si detrano dalla suddetta lista centonovanta due e soldi
due . . L. 192: 2
Resta in L. 1260:15:6
Gio. Batta Arcimboldo, Delegato.
(i) Omettiamo, perché estranei al nostro argomento, i titoli de' non pochi
altri libri, in gran parte riguardanti la peste, forniti da' Malatesta al comune
sino a' 27 gennaio del 1632.
l82 VARIETÀ
li.
Al Sig.f Gio. Baila Crespi Cerrano.
I principali soggetti che si desiderano sulla prospettiva de* libri delle
Historie di Milano sono questi :
Nella parte superiore TArma della Città fra due figure rappresen-
tanti runa la Virtù e l'altra la Gloria.
Milano in figura di giovane robusto nella forma che V. S. giudi-
cherà, havuto quel riguardo che le parerà alle descrittioni 'di lui fatte
in occasione delle venute et essequie Reali.
Ai lati di Milano due figure, l'una di Marte e Taltra di Mercurio.
Nella parte inferiore, due fiumi, il Ticino e TAdda.
Nel rimanente e quanto all' inventione della Machina, alla disposi-
zione delle figure, a gli abiti, e simboli loro, a i trofFei^ et ogni altro
ornamento, il tutto si rimette al giudicio et al valore di V. S., bastando
haverle accennato questo poco, piuttosto per soddisfattione di lei, che
bisogno dell'opera. Nostro Signore conservi e felici[ti] V. S. come de-
sidera.
Milano, li 2'j ottobre i62y.
III.
i6j2, Alti 7 maggio.
Intagli fatti in rame da Cesare Bassani per le Historie di Milano
stampate sin a questo giorno di ordine de' SS." Delegati dal Consiglio
Generale de'- SS." LX per li quali intagli si è accordato e stabilito il
prezzo col detto Bassani nelle somme infrascritte dal Sig/ Marchese
Gio. Maria Visconti uno di essi Sig." Delegati.
L'intaglio della prospettiva ééiV Historia ài Tristano Calco, scudi
trentacinque D. 35
L'Intaglio deìVHistoria di Giorgio Merula, e delle Vite de' XII
Prencipi Visconti, scudi trentacinque w 35
Un'arma grande della Città con bambozzi che sostengono la co-
rona e diversi trofei di libri et armi, scudi undeci . . . . „ 11
Un'altra arma mezana con gl'istessi bambozzi, scudi otto. . . „ 8
Un'altra arma con diversi trofei pendenti, scudi sette . . . . „ 7
Due armette della Città piccole scudi sei „ 6
Da riportarsi D. 102
i
VARIETÀ 183
Riporto D. 102
Quattordeci ritratti con suoi ornamenti attorno, cioè dei XII Prin-
cipi Visconti, de' quali uno si è fatto due volte, et uno di Gio.
Jacopo Medici nell' Historia De Bello Mediceo, a ragione di
scudi nove per ciascuno, sono in tutto scudi cento ventisei. D, 126
Una impresa del detto Medici, scudi tre „ 3
Intaglio posto a gli epitomi di Tristano Calco, scudi sei ... „ 6
Nei suddetti prezzi si è avuto riguardo alli intagli fatti
di alcune delle suddette Armi della Città.
E per le spese fatte nella stampatura di tutti i suddetti Intagli,
come per la lista a parte in somma di Lire trecento trenta
sei, che sono », 56
D. 293
Sono in tutto scudi ducento novanta tre, che fanno lire mille set-
tecento cinquantotto.
Gio. M. Visconti.
IV.
NOTTA DELLE SPESE FATTE DA CeSARE BaSSANO PER FAR
STAMPARE GLI InTAGLIJ FATTI PER LA CiTTÀ.
Per la stampatura di 250 principij del Tristano Calco a
L. 4 il cento L. io, ss. —
Per la stampatura de 400 armi della Città con li duoi
puttini a L. 4 il cento „ 16, ss. —
Per la stampatura de 400 principij dell'epitome a L. 4 il
cento ^^ 16, ss. —
Per la stampatura de 250 principij del Bascapé a L. 4 il
cento „ IO, ss. —
Per la stampatura de 250 ritratti del Medichino . . . . „ io, ss. —
Per la stampatura de 250 imprese del Medichino . . . „ io, ss. —
Per la stampatura de 250 armi con li duoi puttini . . . „ io, ss. —
Per la stampatura d'altre 250 armi con li duoi puttini . „ io, ss. —
Per la stampatura di 400 armette della Città per porre
sopra le liste de SS." Sessanta . „ 16, ss. —
Per averli consignato cop. 250 Monti Etna a ss. cinque
l'uno „ 62, ss. IO
Da riportarsi L. 170 ss. io
184 VARIETÀ
^
Riporto L. 170 ss. IO
Per la stampatura de 150 armi nel principio del Roccona
delle pubbliche allegrezze L. 6, ss.
Per la stampatura de 250 principij di Giorgio Merula. . „ io, ss.
Per la stampatura delli dodeci Visconti havendone fatto
stampare cop. 250 per sorte, che in tutto fanno la
somma di retratti 3000 a L. 4 il cento „ 120, ss.
Per 250 principij dell'opera de 12 Visconti » io, ss.
Per 250 principij di un altro libro del Basgapé . . . . „ io, ss.
Per 250 principij di un altro libro del Basgapé . . . . „ io, ss.
L. 336, ss. IO
Gio. M. Visconti.
V.
Ordine a favore di Cesare Bassani Intagliatore in rame.
i6}2^ Alli X maggio,
I Sig." Gio. Batta Rainoldi Vicario di Provvisione e Conservatori
del Patrimonio della Città di Milano, congregati etc.
Vista la nota degl'Intagli fatti in rame da Cesare Bassani per le
Historie di questa Città di ordine de SS." Delegati fatte stampare in
essecutione dell'ordinatione de' SS." LX del Consiglio generale delli
6 Settembre 1622, con la quale fu stabilito che si facessero stampare
quelle Historie di Milano cosi manoscritte che già stampate altre volte,
che fossero parse degne della stampa. I quali Intagli sono poi stati ac-
cordati dal Sig. Marchese Gio. Maria Visconti, uno de suddetti Sig." De-
putati, in scudi ducento novanta tre, da lire sei per scudo in tutto, com-
putata la spesa di fargli stampare, come distintamente si vede dalla
lista del tenore che segue.
Hanno ordinato che si spedisca un mandato al Tesoriere della Città,
che paghi al suddetto Bassani Lire novecento cinquanta tre Imperiali,
le quali, computate altre lire ottocento cinque, già pagategli a buon
conto in diverse partite, fanno il saldo et intiero pagamento delli sud-
detti scudi 293, che importano gl'intagh e le stampe loro contenute nella
lista di sopra inserta.
Raynoldus v[icarius] Cesare Visconte
Meltius Giov. Batta Arcim[bol]do
H[iERONiMus] ADv[ocArus] Carlo Visconte.
VARIETÀ 185
VI.
i6jOj Lunedi a gli XI febr.o la sera.
Congregati i Sig." Francesco Landreani Vicario di Provvisione e
Conservatori del Patrimonio della Città di Milano nel loro Tribunale etc.
Propose il S.r Vicario, che il S.r Senatore Re, al quale da SS." LX
fu raccomandata la cura dell'impressione delle Historie di Milano, haveva
fatto ufficio ed istanza con Ericio Puteani Historico Regio e già publico
lettore in questa Città, che adesso dimora in Lovanio, acciò finisse e
dassi alla stampa THistoria deirinsubria.
Il che avendo egli fatto, era parso al medemo S.'" Senatore, che per
trattarsi nell'opera di molte cose appartenenti alla Città e provincia
nostra, e per essere uscita da persona di quel valore e forma, che è il
Puteani, fossi bene, che di là se ne mandasser cento copie, parte per
dare a' SS." LX, e parte per riporsi nell'Archivio. E però aveva voluto
darne parte a lor signori, acciò fossero serviti dar ordine che si sbor-
sassero ducente scudi, che tanto importa il prezzo e costo d'essi libri.
Sopra di che hanno stabilito che il negozio si rimetti ad esso Sig. Se-
natore, et a' SS." Marchese Gio. Maria Visconti e Co. Antonio Visconti,
che insieme hanno questa Impresa, acciò proveggano come loro parerà
con auttorità di far pagare il danaro richiesto.
F. Landrianus
Meltius
Gio. Pietro Negroli (?)
Odoardo Croce
Antonio Rainoldi.
BIBLIOGRAFIA
D. Johann Graus, S. Maria im Ahrenkleid und die Madonna cum cohazono
vom Mailander Dom (La Vergine dall'abito a spighe eia Madonna
del Coazzone del Duomo di Milano), estratto dal Kirchenschmuck^
Graz, 1904, pp. 20.
Il titolo stesso dell' opuscolo mostra come l'argomento abbia inte-
resse anche pei milanesi; infatti si tratta della relazione tra una serie
di rappresentanze tedesche della Vergine sotto sembianze assai singo-
lari e una statua del nostro Duomo, ora nel Museo del Castello, che
offre le medesime caratteristiche. Tali rappresentanze l'A. aveva già
studiato in alcuni articoli del Kirchenschmuck; qui egli riassume la que-
stione e cerca risolverla col sussidio di nuovi elementi e traendo par-
tito dagli articoli del Sant'Ambrogio sull'argomento pubblicati néìì'Arte
e Storia, nella Rivista pavese di scienze storiche e nella Lega Lombarda.
L'opuscolo è corredato di parecchie buone illustrazioni.
Queste singolari raffigurazioni della " Vergine dell'abito a spighe „,
sparse in numero di trenta circa, in Baviera, a Salzburg e in Tirolo,
di cui la pila antica risale al 1400 circa, hanno per caratteristica comune,
salvo lievi varianti : l'aspetto giovanile, le mani giunte in atto di pre-
ghiera, le lunghe chiome sciolte scendenti fin quasi alle ginocchia, la
veste seminata di spighe e stretta alla cintura da un nastro, di cui un
lembo scende sul davanti fino a terra, e un raggiante intorno al collo.
Alcune di esse portano un'iscrizione in cui si dice che l'immagine rap-
presenta la Vergine prima delle sue nozze e che è dipinta anche nel
Duomo di Milano, oppure in una città " Olana „ , " Osana „ o " Osan-
na „ nello stato di Milano. Ciò aveva dapprima fatto sperare all'A. di
poter trovare una traccia dell'originale a Milano o a Olona (Corte Olona,
Castiglione Olona), ma le sue ricerche riuscirono vane, finché ebbe no-
tizia d'una statua, proveniente dal Duomo e ora nel Museo del Castello,
raffigurante una Vergine assai simile a quella in questione e giudicata
dal Sant'Ambrogio il ritratto della duchessa Caterina Visconti, moglie
di Gian Galeazzo, la quale è costantemente ritratta coU'abito a spighe
e la radia araldica al collo.
BIBLIOGRAFIA X87
L'A. crede invece che la presenza del motto biblico " Electa ut sol,
" pulchra ut luna „, letto dal Sant'Ambrogio sul nastro infranto della
statua (el....t luna) basti a rivelarla per un'immagine di Maria Vergine,
e ne rileva la perfetta rispondenza colle rappresentanze tedesche, e
insieme certe differenze, per cui quelle non possono esserne copie
I; dirette.
Infatti dagli Annali del Duomo, si ricava la notizia di un'antica
immagine d'argento della Madonna del Coazzone, assai venerata dai
*f tedeschi, sostituita poi da un dipinto di Cristoforo De Motti nel 1466
.td infine da una statua di Pietro Antonio Salari nel 1485, la quale sa-
prebbe, secondo il Sant'Ambrogio, quella appunto del Castello.
L'A. nota che la denominazione antica di " Madonna del Coazzone „
caratterizza assai meglio le rappresentazioni tedesche della Vergine
che non le altre caratteristiche, dell' abito a spighe, ecc., e condivide
l'opinione del Sant'Ambrogio che quelle siano derivate dal dipinto del
De Motti del 1466.
Abolito poi da San Carlo il culto della " Madonna del Coazzone „,
la statua fu tolta dall'altare e deposta nei magazzeni della Fabbrica;
così se ne spense non solo la divozione, ma anche il ricordo, mentre
sopravvisse tra i tedeschi e vi si diffuse mediante numerose riprodu-
zioni. Neir^/Zas Marianus di Gumppenberg del 1673 si parla d'una
celebre e miracolosa immagine della Vergine nel Duomo di Milano,
per la quale Gian Galeazzo avrebbe fondato una nuova cattedrale.
Nelle iscrizioni di due rappresentanze di Budweis e di Salzburg
si legge, tra altri miracoli, quello della rosa bianca colta dalla duchessa
di Milano davanti all'immagine della Vergine e portata nel suo palazzo,
ma riapparsa al mattino seguente al luogo primitivo. Riguardo alla
caratteristica dell'abito a spighe, l'A. la fa derivare col Sant'Ambrogio
da quello della duchessa Caterina, quale appare sempre, senza ecce-
zione, nei ritratti che ce ne rimangono nella^Certosa di Pavia, fondata
per voto fatto da lei avanti il parto del secondo figlio, Filippo Maria ;
per gratitudine alla Vergine, che aveva esaudito il suo voto e verso
la quale aveva una speciale devozione, di cui son parecchie e signifi-
canti le prove, la duchessa avrebbe adottato per sé l'abito col simbolo
della fecondazione e fatto rappresentare con tale abito la Vergine stessa:
tale intima relazione tra la persona della duchessa e l'originale delle
rappresentanze tedesche sarebbe confermata anche dalla leggenda della
rosa bianca e dalla radia ducale intorno al collo della Vergine, divisa
per la quale l'A. conclude col ritenere un'istituzione dei Visconti l'ori-
ginale perduto della u Madonna del Coazzone „ e come data del mede-
simo la fine del XIV secolo.
Arturo Frova.
l88 BIBLIOGRAFIA
Enrico Casanova, Dizionario feudale delle Provincie componenti Vantico
stato di Milano air epoca della cessazione del sistema fendale {Ducato
di Milano, principato di Pavia di qua dal Po, contado di Como, con-
tado di Cremona, contado di Lodi) — {i796\ — Firenze, stab. tip.
- Giuseppe Civelli, 1904, in-8, pp. xii-124.
Nelle vecchie biblioteche familiari milanesi si possono tuttora rin-
tracciare parecchi volumoni, per lo più rilegati in pergamena, e che
portano od il titolo significativo di Nobiltà smascherata, come il più noto
di essi, od altro consimile. Queste pubblicazioni, che circolarono, più o
meno discretamente, manoscritte, rimontavano, ove si voglia ricercarne
Torigine, alle pazienti investigazioni di qualche patrizio autentico, un
po' schizzinoso ed un po' burlone, come quel Pusterla che è ritenuto
autore del più reputato di tali lavori. Essi ebbero, e possono avere
tuttora, un certo sapore di scandalo col semplice raccontare fatti sicuri
naturalissimi, neppur disonorevoli, ma così rapidamente e forse voluta-
mente posti in oblio! Non si contentavano di porre in chiaro la sepa-
razione genetica fra i Crivelli, antichissima prosapia milanese, ancor
oggi superstite in tre rami, ed i nuovi Crivelli del Lago Maggiore, o di
lumeggiare altre notizie storiche quasi volgari. Ma, in un' epoca, che
dallo spagnolismo derivava i funesti pregiudizi contro i commerci, un
tempo vanto della nostra nobiltà, ed in contrapposizione ai genealogisti
adulatori o falsari, si compiacevano di rievocare le umili professioni dei
prossimi ascendenti di molti titolati contemporanei. Senza troppo adden-
trarsi nell'esame di tali lavori, sarà agevole il constatare come la cosi
detta " nobiltà diplomatica „ ne abbia fatte costantemente le spese.
La bufera rivoluzionaria eguagliatrice e, forse in un grado ancor
maggiore, il carattere esotico, che volle, questa volta, assumere il regime
austriaco alla restaurazione del 1814, cancellarono dalle leggi e quasi
dai costumi ogni vetusta distinzione fra i membri della nobiltà lombarda
ammessi agli onori di corte. Appena sopravissero, né si potrebbero an-
cora affermare scomparse, talune diffidenze ed una certa riserva verso
i maggiori finanzieri della fine del settecento, celebri per le loro ric-
chezze conseguite colle " ferme „. Ma, ancora all'agonia dell'antico re-
gime, e, per essere precisi, ai ricevimenti della corte arciducale di Milano
nell'inverno del 1796, vigevano le norme rigorose in odio ai nobili di-
plomatici. Là dove gli alti magistrati ed i canonici delle maggiori col-
legiate erano accolti senza riguardo alla loro nascita, i nobili diploma-
tici potevano entrare, ma come semplici spettatori, poiché era loro
vietato giocare, ballare e sedere, e le loro mogli, fossero pur discese
da schiatte di nobiltà " generosa „, perdevano il diritto di essere rice-
vute a corte. E vi è memoria di laboriosissime pratiche che furono
imposte alla discendente d'una delle più chiare famiglie del patriziato
civico per poter continuare ad essere ricevuta a palazzo dopo il suo
matrimonio con un semplice.... feudatario.
BIBLIOGRAFIA 189
Parole queste che sembrerebbero incomprensibili in altri paesi che
posero il possesso di un feudo quale criterio precipuo delle distinzioni
araldiche. Invece l'egemonia del patriziato cittadino di fronte ad ogni
altra classe privilegiata fu vittoriosamente affermata in Milano durante
lunghi secoli, e per avventura i maggiori della sua storia, quelli di cui
permangono più dirette la ripercussione, la traccia nella nostra vita
moderna. Non si deve, per altro, dimenticare che dalla nobiltà diploma-
tica delle epoche tarde, che comperava i feudi dalla Regia Camera, e
presentava quindi le caratteristiche, sempre poco pregiate da noi, di
un'origine prettamente censitaria e di un conferimento d'un potere so-
I vrano straniero, era ben diversa la feudalità più antica.
Non occorre neppur risalire alle più remote investiture, affini a
quelle inglesi che ci diedero il germe delle libertà parlamentari, così
ìonfigurate, che i feudi si perdevano ove i vassalli non intervenissero
Ralla Dieta. (Secondo si legge per esempio in Ottone di Frisinga). Dopo
i capitani costretti a patto nel duecento coi patrizi cittadini, vennero i
gentiluomini investiti dai Vicari imperiali indigeni, dai nostri illustri
\. principi, i Visconti e gli Sforza. Vi è una profonda differenza, non solo
fj fra i poteri affidati fin dall'alto medio evo ai da Carcano ed ai conti
|di Biandrate e quelli derivati per esempio agli Arbona dall'acquisto
dei 105 fuochi di Agrate per rogito notarile, ma anche fra l'investitura
i del feudo di Sant'Angelo concessa dal duca Francesco I al castellano
u Attendolo Bolognini e tante altre del periodo spagnuolo, nelle quali
campeggia, per usare la frase del C, " la vendita degli effetti camerali
" alienabili „.
Pare a chi scrive che in tanta trasformazione d'istituti e di costumi
il significato del feudo siasi venuto alterando così da non rimanere
costanti che alcuni elementi della figura giuridica ed il nome. Ora, il
Dizionario feudale, lavoro accurato e prezioso del compianto Enrico
Casanova, basato sopratutto sulle scritture che rimangono più ampie e
numerose per i tempi recenti, di maggiore rilevanza per il fisco, con-
sidera tutte quante le investiture dello Stato di Milano, ma in molto
maggior numero quelle di età tarda. E la demarcazione non è nep-
pure tentata fra i feudi di diverso tipo, fatta eccezione di quelli impe-
riali, che in numero di tre sono mandati innanzi alla serie degli altri.
Sarebbe d'altro canto ingiusto ed avventato il muoverne censura al-
l'autore, ove si ponga mente al carattere frammentario di quest'opera,
che viene, pur troppo, postuma alla luce. Altri lavori dovevano seguire
nel pensiero del valente studioso e tali da ricevere dal criterio crono-
logico una maggiore chiarezza nella disposizione dei feudi. Così come
è, il diligentissimo Dizionario feudale segna un gran progresso in con-
fronto al passato, quando dovevamo contentarci di vecchi cataloghi
sparsi negli archivi. Si paragonino l'elenco del Benalio (i) od il breve
(i) Elenchui familiarum in Mediolani dominio feudis, iurisdictionihus iituli-
sqiie insignium (17 14).
190 BIBLIOGRAFIA
catalogo dei titolati che non giunge oltre l'epoca spagnuola ed è Tunico
accenno di tal natura che si possa rintracciare nel volume del Calvi
intorno al patriziato milanese, e le colonne fitte di notizie, di riferimenti
ad innumerevoli atti notarili, che costituiscono quest'opera. Ha per og-
getto precipuo quella serie copiosa di feudi che la regia camera disse-
minò per tutto il milanese negli ultimi due secoli dell'antico regime. In
proposito noi abbiamo qui una vera miniera, utile, indispensabile ad
ogni ricerca che vi si connetta. Ma ho già detto come non siano deli-
beratamente omessi dal C. i richiami ad un tempo più antico, anche se
possano parere scarsi al nostro desiderio. Per verità l'introduzione,
molto succinta ed al tempo stesso notevole per un abbozzo di storia
del feudo, tace delle fonti a cui furono attinti gli elementi del ponde-
roso lavoro ; e non possiamo sapere, solo in parte intuire nella defi-
cienza di indicazioni altrettanto precise, la cagione per la quale i feudi
più antichi sieno stati dunque meno sistematicamente studiati. Piuttosto
un altro motivo ci appare derivante dal disegno di un lavoro che, non
privo di qualche scopo pratico attuale, ha in vista specialmente lo stato
dei feudi alla vigilia della morte dell'istituto. È fatto cenno di terre ri-
tornate al demanio prima della rivoluzione, ma generalmente non sem-
bra si siano elencate quelle comunità che, astrette a vincolo feudale in
altri tempi, non lo siano più state alla fine dell'antico regime. Sarebbe
ozioso che io qui insistessi nell'espressione del vivo rammarico per
questi limiti cronologici del lavoro. Quanto a quelli di spazio, fissati
dall'autore stesso al principio dell' introduzione, anche qui ci sia con-
cesso dolerci di non aver incontrato una maggiore larghezza. Le ces-
sioni delle pingui terre d'oltre Po e d'oltre Ticino alla monarchia sa-
bauda avvennero così tardi, nell' ultimo secolo dell' antico regime, che
la loro storia è tutta lombarda ed istintivamente si corre al dizionario
per cercarvi taluno, di quei " numerosissimi feudi „ , secondo riconosce
lo stesso Casanova, che però ci rimanda genericamente ai lavori del
barone A. Manno sul patriziato subalpino, opera preziosa, che nulla
però avrebbe perduto ad essere alcun poco accompagnata per via dalla
degna sorella. Non solo invece le ragioni pratiche connesse colla ripar-
tizione del lavoro delle nostre commissioni araldiche, ma anche la se-
parazione secolare giustificano l'esclusione decisa dal C. per i feudi della
terraferma veneta poi divenuta lombarda. Sta bene d'altra parte che
nel mantovano non si riscontrassero che alcuni feudi imperiali; pre-
scindendo dalla questione dei beni di casa Zanini da molti ritenuti sem- m
plicemente enfiteutici; nondimeno perchè tacerli quando si parla di '
Maccagno e di Retegno ? I rami secondari dei Gonzaga meritavano di
stare accanto ai Mandelli, ai Borromeo ed ai Trivulzio, e sarebbero
anzi state preziose notizie sistematiche intorno a quegli staterelli. Se si
vuole poi por mente alla condizione attuale delle circoscrizioni araldiche,
i feudi mantovani avrebbero dovuto, parmi, aver posto nell'elenco degli
altri di Lombardia. Né avrebbero potuto mancare quelli della Valtel-
lina che non si sa altrimenti come elencare. Il C. accenna alla scarsa
BIBLIOGRAFIA I9I
fioritura feudale di quelle montagne. E sia ; non si contendano, neppur
nel ramo di Zizers divenuto cosi italiano, i Salis ai nativi Grigioni, ma
come cancellare dalla nostra storia l'importante e vetusto feudo di Chia-
venna e quelli di Mazzo e di Villa, nerbo della potenza dei Venosta ?
E poiché sono a parlare della ripartizione topografica, mi sia concesso
di additare il grandissimo vantaggio che verrebbe a lavori come questo
da una carta che ritraesse con suggestiva evidenza la collocazione e
Testensione dei feudi. Il Darmstàdter ne unì al suo interessante vo-
lume (i), per molti lati affine a quello che abbiamo alle mani, intorno
al Reichsgut nella Lombardia.
Apparirebbero meglio allora le notevolissime disuguaglianze per
ciò che riguarda l'ampiezza dei feudi che sono fra le constatazioni che
prime si impongono a chi esamina con ordine e con cura il libro di
cui discorriamo. L'A. richiama l'attenzione dello studioso sui beni feu-
dali estesissimi dei Gavazzi alla Somaglia e degli Attendolo-Bolognini
a Sant'Angelo. Entrambi questi feudi furono fra i più antichi dei super-
stiti sino alla fine del regime. Nicorolo Gavazza ebbe l'investitura della
Somaglia e terre annesse da Bernabò Visconti il io luglio 1371. Nel
corso del secolo seguente i beni feudali della Somaglia furono tempo-
raneamente perduti per i Gavazzi, sui quali era scesa la vendetta del
duca Filippo Maria, che li riteneva complici del ribelle Gabrino Fondulo.
Allora la Somaglia mutò in breve tempo molti, e tutti illustri signori,
dei quali fu il Garmagnola ed ultimo Nicolò Piccinino, quando Filippo
Maria, come narra il Godo " quasi li havea dato tutto il Governo de
" la Republica „. Ma i Gavazzi, strettisi con Francesco Sforza, ripresero
colle armi il loro feudo sì che, pur essendo tanto mutati i tempi e la
forma e la ragione del possesso, si può dire che se lo tengono oggi
ancora. L'investitura ai Bolognini rimonta al 1452, ma non vi fu alcuna
soluzione di continuità nel dominio di quelle terre e di quel castello
che è tuttora nelle loro mani. La Somaglia e Sant'Angelo Lodigiano
abbracciavano vasti e ricchi territori, ma non gran numero di villaggi;
vi furono invece, sovratutto nei tempi piìi antichi, feudi che si compo-
sero di moltissimi paesi ed anche di tutta una pieve. Tali furono i
feudi della pieve di Brebbia data per più lungo tempo ai Visconti Bor-
romeo, di quella di Dairago degli Arconati e poi dei Lossetti, d'Incino,
antico possesso dei Dal Verme, di Nesso, regalata da Lodovico il Moro
a Lucrezia Grivelli, di Seveso divisa fra i Carcassola e gli Arese, di
Vimercate, per trecent'anni dei Secco Borella, di Agliate, Angera, Ar-
cisate, Leggiuno e Rosate. Due pievi insieme raggruppate. Cariate ed
Oggiono, costituirono un feudo comprato dai d'Adda a mezzo il secolo
sedicesimo. Infine le ultime terre dello stato verso il confine svizzero,
lungo le rive del lago di Gomo, erano riunite nel feudo detto per an-
tonomasia delle tre pievi, di Dongo, Sorico e Gravedona. Il feudatario
ne fu sovente potentissimo e basterà citare i nomi di Gian Giacomo
(i) Pubblicato a Strasburgo, Trùbner, 1896.
192 BIBLIOGRAFIA
Medici e di Tolomeo Gallio. Non pieve ma contado vastissimo fu quello
di Melzo, più lungamente infeudato ai Trivulzio che non ai Marliani,
ai Cotta, ai Fieschi di Lavagna, agli Sforza, agli Stampa, ai de Leyva,
che tutti ne godettero i pingui redditi per breve tempo. Il destino di
così grandi territori era quello di non restare, generalmente, infeudati
quale complesso unico né per lungo tempo. Così fu smembrato in vario
modo il contado di Melzo, e simil cosa accadde dei due altri celebri
feudi che ebber nome di vicariati: Belgioioso, che dal 1500 non uscì
mai più dalle mani degli eredi estensi, e Desio composto della pieve
omonima e di quella di Bollate, alienato via via a frammenti dagli
investiti marchesi Manriquez de Mendoza. Questo processo di smem-
bramento dei maggiori feudi nel seicento e nel settecento è ben chia-
rito dal Casanova, che lascia per altro n^l'oscurità la fine di raggrup-
pamenti più antichi non meno importanti, quali la pieve di Incino, che
non si capisce quando né come abbia cessato di appartenere ai Dal
Verme.
Il Dizionario del C. registra un piccolo numero di terre come in-
feudate ai loro signori " ex immemorabili possessione „. Sono verosi-
milmente quelli i cui titoli d' investitura rimontano ad un tempo ante-
riore al limite (che non è, non capisco come, precisato) al quale
si arrestano le fonti del nostro dizionario. Consistono in alcuni pochi
feudi di enti morali, in un bel gruppetto di dominii viscontei e nel feudo
di Campomorto, giuridicamente devoluto ad un ente ecclesiastico, ma
praticamente sempre in possesso della famiglia Mantegazza, poiché era
un membro di tale famiglia l'abate commendatario in forza di un diritto
di iuspatronato antichissimo, che, come è noto, il Giulini fa risalire al-
l'undecimo secolo (i). Inverno nel contado di Pavia era pure stato ab
antiquo feudo dei cavalieri gerosolimitani, ma fu appreso dal demanio
alla fine del settecento per ordinazione del senato della quale il Casa-
nova tace il motivo ; mal vezzo in cui incorre altre volte.
La Valsolda, che, colla Val Bodia, la Val Cuvia, la Valsassina, la
Val d'Intelvi e la Valtravaglia (dalia quale furono staccate nel 500 le
così dette" quattro valli), offre l'esempio di un altro tipo di feudo a larga
estensione, era anch'essa sempre stata, salvo due piccolissime interru-
zioni, feudo dell'arcivescovo di Milano. Beni feudali infine dei Visconti
« ex immemorabili possessione » appaiono esser stati : Agnadello, Be-
snate, Crenna, Jerago, Moncucco e Pissarello (spettanti al ramo di Fon-
taneto) e Somma. Accanto al feudo dei Gavazzi alla Somaglia il C. ne
elenca ben pochi altri che rimontino al quattordicesimo secolo ; epoca
per la quale si può cominciare a riferirsi a rogiti notarili, ed a partir
dalla quale il C, sulle tracce del Benalio, cessa di parlare generica-
mente d'immemorabile possesso. Un numero ancora minore di questi
giunse superstite fino a tempi più recenti. Lodovico il Bavaro aveva
(i) Memoria per servire alla storia di Milano^ ecc., lib. XXIII, voi. II della
ediz. del 1854.
BIBLIOGRAFIA 193
ncesso fin dal 1329 il feudo di Vidigulfo ai Landriani che poi molto
se lo suddivisero fra le loro linee. Angera, la quale, prima che da im-
peratori e duchi veniva infeudata, non è detto per qual ragione, dalla
Santa Sede, fu appunto data nel 1350 da Clemente VI a Caterina Vi-
sconti, in attesa di divenire celebre feudo di casa Borromeo. Questa
terra aveva il privilegio di ricevere investiture da differenti poteri ed
il conte Vitaliano Borromeo fu appunto investito dal consiglio generale
della comunità di Milano.
L'esempio mostra come sarebbe opportuno che codesti dizionari
facessero precedere, agli elenchi di atti e rogiti in ordine cronologico,
qualche notizia sulla natura del feudo. É proprio troppo sibillino il ve-
dere senz'altro indicato che una stessa terra sia stata infeudata in non
più di cent'anni, una volta da un papa, un'altra da un imperatore, una
terza da un duca di Milano, ed una quarta, secondo si è detto, da corpi
civici rappresentativi. Al 1359 rimonta la donazione di Bernabò Visconti
a fondazioni ospitaliere conglobate più tardi nell'Ospedale Maggiore,
beni questi che finirono poi per perdere ogni carattere feudale. Lo
stesso Bernabò investì i Cagnola del feudo di Tormo rimasto a quella
famigha fino al principio del XVIII secolo. Il nostro A. ricorda quindi
due soli altri feudi che rimontino sino al secolo XIV : Maccastorna
(1385) sul lodigiano, che i Bevilacqua tennero poi per tutta la durata
dell'antico regime, e Castel Visconti in territorio di Cremona infeudato,
salvo una breve interruzione nel quattrocento, al capitolo di Santa Ma-
ria della Scala in Milano. L'esame molto istruttivo delle dotte pagine
del Dizionario ci rivela come non siano sopravissute a lungo molte
delle investiture ch'ebbero luogo nel secolo XV. Ne ho contato in tutto
una trentina oltre i feudi più vasti di cui si è già parlato. Li indicherò
in ordine cronologico :
Melzo e Rosate (entrambi infeudati il Ì2 luglio 1412) ; Castel Pon-
zone (1416); Besozzo (1417); Carimate (1434); Bissone (1447); Bere-
guardo (1448); Laveno (1449).' Codogno (1450); Sant'Angelo (1452);
Venegono Superiore (1454); Brignano (1470); Motta Visconti (1473);
Lacchiarella (1475); Cantù (1475); Antignate (1480); Orio(i48i); Ospe-
daletto (1482) ; Villanova sul Lodigiano (1482) ; Maleo (1483) ; Mettone
(1484); Lonate Pozzolo (1490); Trigolo (1496).
Non ho tenuto conto di qualche investitura precedente per le me-
desime terre che abbia avuto una durata troppo breve. Questi rapidi
rilievi avranno forse potuto servire a mostrare quale copiosissima
messe di preziose osservazioni per la storia lombarda ci sia recata
dal lavoro del Casanova. Qualche esempio avrà pure potuto iniziare il
lettore al metodo seguito nel Dizionario Feudale ed anche a documen-
tarlo rispetto ad alcune mende che possono richiedere una correzione.
Non si è, naturalmente, inteso qui con iattanza inopportuna di racco-
gliere il materiale pazientemente adunato dall' A. secondo altri criteri
Arch. Stor. Lontb., Anno XXXII, Fase. V. 13
194 BIBLIOGRAFIA
che quelli da lui prescelti, ma piuttosto si ebbe di mira l' indicazione
della convenienza di completare in determinati sensi Topera già così
imponente.
Bene fece l'autore dichiarando col titolo stesso, che forse per isvi-
sta è alterato dall'editore là dove stampa : « estratto dall'Opera : Il pa-
" triziato lombardo », e fin dalle prime parole dell'introduzione che l'opera
sua non riguarda direttamente le nostre famiglie patrizie. Ne cerche-
reste infatti invano talune delle più chiare, come gli Alciati, i Piola e
perfino i Menclozi, nomi che invece ricorrono ad ogni tratto negli elenchi
dei decurioni. Non è superfluo il porre in luce ancora una volta questo
indice di una efi"ettiva distinzione fra la classe dei feudatari e quella
dei patrizi civici, distinzione non cancellata dal ritrovarsi, col procedere
del tempo, un numero crescente di patrizi investiti di feudi, ed anche,
sebbene con molta maggior parsimonia, di casate feudali ammesse fra
le patrizie milanesi.
Chi prenda poi in esame la celebre matricola degli Ordinari, vetusto
libro d'oro milanese, quale si trova nel codice del Castelli nella bibho-
teca Ambrosiana, subito rileva gran numero di quelle schiatte, esempio
tipico di nobiltà generosa, che mai ricorrono sfogliando le pagine del
Dizionario feudale. Cito i saggi più significativi. Né Amiconi, né Appiani,
né Caponago, né Ghiringhelli, né Martignoni, né Scaccabarozzi appaiono
investiti di quelle concessioni feudali che il C. elenca così diligentemente.
Il metodo adottato nell' opera che esaminiamo consiste essenzial-
mente nell'elencare in ordine alfabetico i feudi, sovra tutto, come ho già
avuto occasione di rilevare, quelli superstiti verso la fine dell' antico
regime, e nel riferire per ogni singolo feudo i relativi provvedimenti
in ordine di data. La serie si apre naturalmente, salvo per i pochissimi
casi già accennati d'immemorabile possesso, coU'investitura e si chiude
coll'apprensione da parte del fisco, se la linea investita venga ad estin-
guersi ; ma sovente la colonna del Dizionario deve proseguire alcun
poco registrando gli strascichi di liti tra il fisco ed i pretendenti legati
da parentela all'ultimo investito. Molte volte poi la regia Camera riinfeu-
dava la terra a scopo di lucro. Il C. indica quasi costantemente, desu-
mendolo dai rogiti notarili, che appaiono essere stati la spina dorsale
del suo lavoro, il prezzo delle infeudazioni onerose; indica pure di re-
gola i conseguenti conferimenti di titoli agli investiti ed il numero di
fuochi di ciascuna terra, indicazione quest'ultima di qualche rilevanza
statistica. Tra l'investitura ed il termine dell'infeudazione vi era campo
per non pochi avvenimenti interessanti lo storico ed il giurista. Il C.
annota un buon numero di refute, di permute, di vendite, di transazioni,
sì da comporre notevoli frammenti di storia locale, per non parlare
delle confische e d'altre interruzioni violente. Meno facilmente si può
seguire il processo di divisione fra gli agnati od il trapasso in linea
femminile, là dove queste mutazioni fossero consentite dalla natura del
feudo. Mi pare sarebbe utile (né 1' ho sin qui taciuto) il premettere,
all'elenco cronologico degli atti sovraindicati, un breve cenno della legge
BIBLIOGRAFIA I95
jdel feudo, indicante i limiti del trapasso, se questo sia ammesso per i
soli maschi od anche per le femmine ed in quale misura, se per tutti
I gli agnati, per i legittimati, ecc. Del pari opportuno sarebbe V indicare,
ove si abbia, l'esistenza di statuti della terra, di Jura curiae. Come è
noto, furono numerosi nel milanese gli statuti promulgati nelle piccole
terre del contado, anche se infeudate.
Attenendosi ad uno sguardo complessivo, si dovrà riconoscere che
le notizie offerte dal C. sono molto ineguali, variando in una propor-
zione che dipende non tanto dall'importanza della voce del Dizionario,
quanto dalle opportunità presentatesi per il compilatore di utilizzare
antichi documenti, come per esempio le informazioni assunte in vista
|. dell'apprensione parziale per il feudo di Albizzate per la morte del car-
dinale Federico Visconti, che si chiarirono tali da rendere ricca di inte-
ressanti dettagli la notizia del C. riguardante quella terra. É ovvio che
codeste disparità nella trattazione si debbano imporre quasi fatalmente
al primo saggio, tentato dopo lungo e fortunoso intervallo, di una ela-
borazione sistematica della materia. Certamente in un'auspicata nuova
edizione, che la nostra Commissione araldica ci vorrà ben regalare in
un tempo non troppo lontano, l'edilìzio così onoratamente avviato dal
compianto genealogista avrà modo di essere completato in ogni sua
parte.
Pare a molti che, dopo le leggi della Cisalpina, abolitive di ogni
diritto feudale, qualsiasi portata pratica ed attuale di lavori intorno ai
feudi debba essere ormai esclusa. Pure non si può trascurare il fatto
che, sessant'anni più tardi, alla vigilia della legge del regno d'ItaUa
che tolse via le superstiti vestigia patrimoniali del regime feudale, i
beni ancora vincolati in base a quelle vetuste leggi sommavano ad
almeno un centinaio. Si veda in proposito l'elenco molto istruttivo pub-
blicato dal consigliere Angelo Decio nel 1860, nel suo hbro: Notizie
sulla situazione di fatto e di diritto dei beni feudali in Lombardia. Ed
ancora la legge 1887 intorno alle decime aveva di fronte resti della
feudalità contro cui partire in guerra, secondo dottrine care alle scuole
politiche prevalenti nel secolo testé spirato.
Questa tenacia di resistenze ha pure il suo significato: non si can-
cellano a colpi d'articoli di codice istituti secolari, sieno pur divenuti
in gran parte vieti, senza che ne rimanga un solco profondo nella vita
della nazione. Oggi ancora in quasi tutta la Lombardia si hanno esempi
del sussistere di rapporti di clientela, sovente adorni di simpatiche ca-
ratteristiche patriarcali, fra i terrazzani ed i discendenti dei loro antichi
signori feudali, tuttora proprietari a titolo semplicemente allodiale di
tenute un tempo rette da altre e più rigide norme. Ora ciò si osserva
anche ai nostri giorni, e forse in maggiore misura per feudi non recen-
tissimi, tenuto sempre fermo ciò che spero aver già lumeggiato e cioè
per un lato che " carattere fondamentale delle usanze lombarde.... si è
" che i feudi si considerano piuttosto dal punto di vista patrimoniale,
" anziché sotto l'aspetto militare e politico, quale predomina nel feudo
196 BIBLIOGRAFIA
u franco „ (i); e per altro canto il prevalere in Milano del patriziato
civico, in confronto, se non degli antichi " capitani „, certo della tarda
" nobiltà diplomatica „. Osservazioni queste del resto appena accennate
che io ho inteso precisamente a rilevare l'importanza della pubblica-
zione del benemerito don Enrico Casanova, a mostrarne lo svolgimento,
a trarne un saggio dei contributi che ne verranno alla storia della no-
stra regione.
Giuseppe Gallavresi.
Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, cose vedute sapute
{1847-1860), Seconda ediz., Milano, tip. editr. L. F. Cogliati, 1904, in-8,
pp. 610.
Questo bel libro viene a tenere degna compagnia a quella schiera
numerosa di " memorie „, " ricordi „, " note „ e " noterelle „, che pul-
lularono su dall'età del nostro risorgimento, tanto ricco e denso di fatti
e di sentimenti svariati, e che offrono ed offriranno materiali preziosi,
come al critico, così all'artista della storia : materiali tanto più preziosi,
quanto meglio frangono la visione sintetica de' grandi avvenimenti nelle
osservazioni analitiche di que' fuggevoli casi, di quelle incerte opinioni,
onde l'animo nostro entra in diretto immediato contatto con la realità
dell'evoluzione storica. E nella schiera numerosa, questo libro, che ha
meritato già la fortuna di una seconda edizione, occupa un posto singo-
lare per alcune sue qualità caratteristiche, come la intimità del racconto,
la obiettività serena anche tra i più acerbi dolori pubblici e privati, la
continua varietà della materia, che rende talvolta troppo spezzettata
la tela della narrazione, la sottile vena di umorismo, con qualche sprazzo
di riso lievemente beffardo anche in mezzo a fatti della più dolorosa
gravità. Integrano le caratteristiche accennate una facilità ed una cor-
rettezza di parola e di frase, una tranquillità di stile lontana da ogni
nervosità, .da ogni scatto, una decenza e compostezza di materia e di
forma, che vi fanno pensare spontaneamente all'efficacia che su questa
può aver esercitato la prosa del gran Lombardo. E tali belle qualità
tutt'assieme concorrono, più che a far di questo un libro superiore, a
staccarlo nettamente dal fondo comune, a renderlo davvero non volgare
opera di lettura dilettevole e sana.
Il movente intimo dell'autore è tutto familiare ed educativo. 11 libro
egli lo ha dedicato alla consorte donna Laura D'Adda Salvaterra, che
con la più felice e sicura memoria femminile gli è più volte venuta in
(i) A. Lattes, // diritto consuetudinario delle città lombarde, Milano, Hoepli,
1899, cap. X, § 43.
BIBLIOGRAFIA I97
soccorso " or completando i fatti „ ora risvegliando " la commozione „
che quei fatti già suscitarono. Lo ha scritto per i nipoti, i figliuoli di
Emilio Visconti Venosta: ai quali volle far dono di tutto un tesoro di
notizie domestiche, di piccoli ricordi ed aneddoti, di impressioni e giu-
dizi, inquadrati nella cornice del grande rivolgimento storico, tra il 1847
e il 1859, non senza qualche rapido accenno alle memorie precedenti
di casa Venosta e della Valtellina, né senza qualche occhiata fuggitiva
al 1860.
In questo mondo del passato l'autore rivive, e fa rivivere, con la
compiacenza di chi ebbe a soffrire o godere, con i suoi, nel grande
palpito del risorgimento, di chi molte cose vide e notò, ed una piccola
pietra cementò ancor egli del comune edificio ; né vuole che tutto que-
sto sia perduto, anche per insegnamento altrui. Ma V intimo movente
familiare ed educativo, se trapela qua e là, non soffoca per questo la
composizione. La quale procede senza preoccupazioni organatrici, così
a frammenti, a mosaico di note e ricordanze più o meno brevi, e non
tanto collegate quanto accostate l'una all'altra, con un aspetto di veri-
dicità, con una fedeltà al reale, che si sarebbero perdute qualora fosse
intervenuta Topera di fusione. Queste pagine di " cose vedute e sapute „
mi somigliano tanti pastelli dalle mille figure e dai mille colori svaria-
tissimi fortemente sovrapposti.
Ma alla raccolta delle memorie ed alla narrazione serve di guida
e di lume una veduta superiore di psicologia storica, che dalle prime
pagine alle ukime si può dire abbia" accompagnato l'autore. L'opera si
apre così : " Nel leggere i libri di storia ho avuto più volte la curiosità
" di sapere che cosa facesse, che cosa dicesse, durante i principali av-
" venimenti, tutta quella parte di pubblico che non ha l'onore di es-
" sere ricordata nei libri (i) „ : e prosegue : " Non è una storia com-
" pietà di quei tempi, ^che io vi scriverò.... Vi dirò quello che ne ho
" veduto io, e quello che ne ho sentito dire, e le 'impressioni che me ne
« sono rimaste, vi condurrò in mezzo ad alcuni fatti grandi e a molti
" fatterelli ; vi farò conoscere qualcuna delle persone che ho conosciute
" allora, gente d'importanza o gente oscura, qualche parente, qualche
" amico ; insomma, cercherò di darvi un' idea dell' " ambiente „ in cui
" sono vissuto a quei tempi (2) „ : si chiude con tali parole : " Questa
" non é una storia, ve lo ripeto, è una " cronaca „ di cose vedute o
" sapute da me : é .una cronaca, oltre che dei fatti, delle impressioni
" e delle opinioni che correvano nei tempi in cui quei fatti si svolge-
" vano. Molte delle opinioni e dei giudizi d'allora saranno forse corretti
" dal tempo, ma riferendoli quali erano nella comune opinione, la^quale
" reggeva alla sua volta e determinava i fatti, sono anch'essi " docu-
" menti „ di cui la storia un giorno dovrà pur tenere conto „ (3).
(i) Gap. J, p. 2.
(2) Gap. I, p.3.
(3) Gap. XXXVir, p 608.
I
198 BIBLIOGRAFIA
Ora, per il filosofo della storia nulla v'ha di più interessante che
poter assistere al rimescolio di quelle molecole di fatti e di opinioni,
la cui risultante sia poi un grande rivolgimento. Dai personaggi e dalle
azioni che appaiono sul davanti della scena, passando allo sfondo av-
volto nel buio, se si rovescia, per dir così, il palcoscenico, non si ro-
vescia per ciò la storia ; essa anzi ci si rivela in tutta la verità vivente;
e par che ci si viva, ci si respiri in mezzo.
In tal guisa, con questo libro, ci è offerta l'imagine intera dell' ari-
stocrazia lombarda e di parte della borghesia, quando si preparava la
unità, rindipendenza. Peccato che uno specchio simile manchi per le
altre regioni, e per la " plebe „ lombarda : su cui, per altro, qui si get-
tano ogni tanto sprazzi di luce.
Dato il carattere dell'opera, riesce difficile, per non dire impossi-
bile, tentarne un riassunto tale, che se ne conosca in breve tutta la
materia e se ne misuri tutta l'importanza. Ciò non di meno, procedendo
per linee sommarie, ricorderò che, di trentasette capitoli, sette sono
consacrati al fortunoso " quarantotto „ , quattro al disgraziato " cin-
" quantatre „, dieci interi all'avventurato " cinquantanove „, tre al " ses-
" santa „ : agli altri anni sono assegnati uno o due capitoli, in propor-
zione della loro gravità e ricchezza storica.
Precede, nel capitolo I, una breve notizia di casa Visconti Venosta
e del loro mescolarsi alle sorti e alle vicende della Valtellina, quando
questa, prima da Napoleone, poi, premente la popolazione medesima,
annuente il plenipotenziario sardo, ottenne nel Congresso di Vienna di
essere staccata dai Grigioni e annessa alla Lombardia (i). Dagli ultimi
anni del Settecento, attraverso il bisnonno, il nonno (2) e il padre, l'au-
tore ci trasporta ai suoi primi anni d' infanzia, ed a quelli della prima
adolescenza, schizzando un quadretto dell'educazione che s'impartiva
nelle famiglie lombarde prima del quarantotto, e presentandoci una
serie di particolari atti a spiegarci come a poco a poco spuntasse e si
radicasse, nelle compagnie dei giovani e nella scuola, l'avversione al-
l'Austria. Questa specie di preparazione alla prima grande rivoluzione
italiana l'autore termina al settembre del 1846, quando gli morì, meno
che cinquantenne, il babbo.
Segue il preludio al quarantotto (3). I fratelli Emilio, Gino, Enrico,
sono affidati per istruzione alle cure di Cesare Correnti, che li dirige,
ma assai piìi per le vie della politica. Il giovinetto osserva quel che
(1) Il Diario, ms. dei plenipotenziari della Valtellina, si trova presso l'autore.
(2) Fu benemerito raccoglitore di documenti antichi valtellinesi, che si con-
servano in casa Venosta.
(5) Gap. II.
BIBLIOGRAFIA I99
vede, tende l'orecchio a ciò che sente dire, sui funeraH del Gonfalonieri,
su l'elezione dell'arcivescovo Romilli, sui primi furori pio-noniani, sui
primi tafferugli e le dimostrazioni pacifiche, ma efficaci, come quella,
dell'astensione dal fumare. Il preludio si chiude con gli aumenti di guar-
nigione nel Lombardo- Veneto, con la coraggiosa proposta di G. B. Na-
zari, rappresentante di Bergamo, alla Gongregazione centrale delle Pro-
vincie. Le autorità cercavano il bandolo della matassa, il " Gomitato
segreto „ che doveva dirigere tutto, e che viceversa non esisteva.
Eccoci al '48. Il capitolo III comprende dal primo di gennaio al 18
marzo. Gon l'autore, assistiamo al convulso agitarsi di coloro che pre-
paravano gli eventi, ai dibattiti tra le varie opinioni: entriamo nelle
case, nei caffè, conosciamo la condotta dell* aristocrazia milanese. Si
chiedono riforme con una dimostrazione pubblica : scoppia il vero moto
rivoluzionario d'azione : sentiamo e vediamo quel che potè vedere e
sentire, nella prima giornata, il giovinetto quattordicenne.
Dalla seconda alla quarta giornata (i), la scena è per noi ristretta
al quartiere di casa Visconti, tra via della Gerva, Monforte, Burini e
poco attorno: ed è inquadrata entro una cornice di altre notizie tutte
interessanti, fino alla presa del palazzo del genio per l'atto eroico di
Pasquale Sottocorno. La quinta giornata (2), la presa di porta Tosa,
l'aspetto magnificamente terribile della città nella notte tra il 22 e il 23
di marzo, l'esultanza ed anche un po' il patriottismo della sesta gior-
nata, le notizie dei paesi insorti e degli ostaggi, la ritirata degli ^au-
striaci, si chiudono con la formazione del battaglione lombardo guidato
da Luciano Manara ; la sola cosa seria che, dopo la vittoria, facessero
gli spensierati e fiduciosi milanesi. Dalla partenza degli austriaci a Gur-
tatone e Montanara (3); l'opinione pubblica dei milanesi, la guardia
nazionale, la palestra parlamentare, dove s'addestravano a discutere e
legiferare in reboanti e dissennati discorsi, il formarsi di associazioni
e di partiti prò e contro la fusione con il Piemonte, i giornali pullulati
subito dopK), le agitazioni vane, disperditrici di energie, offrono l'agio
a vere pagine di psicologia storica, per cui intendiamo perfettamente
come si corra alla catastrofe. E questa fu precipitata (4) dal rifiuto che
il governo provvisorio opponeva alla pace al Mincio offerta dal ministro
Wessemberg. Nell'ambiente milanese non si poteva forse pensare né
rispondere diversamente; al campo piemontese era ben altra cosa: ma
Garlo Alberto non potè che elogiare con tristezza ironica il rifiuto, di-
cendo solo: " La risposta del governo provvisorio è degna della città
" delle Ginque Giornate „ ; e piegò il capo e sostenne rassegnato il
disastro. A Milano si preparavano, in una specie di convulsione, difese
(i) Gap. IV.
(2) Gap. V.
($) Cap. VI.
(4) Gap. VII.
200 BIBLIOGRAFIA
impossibili e vane, contro gli Austriaci che avanzavano rapidamente.
Emilio Visconti Venosta si arrola con Garibaldi; la mamma con i fra-
telli minori parte in Svizzera, per Bellinzona.
Durante il viaggio (i), l'autore potè osservare l'atteggiamento mi-
naccioso dei contadini lombardi contro i signori, a Bellinzona le ire
tristi, rabbiose degli emigrati contro Carlo Alberto. Gustavo Modena
furoreggiava tra subissi di applausi recitando 1' " esecrato Carignano „
del Berchet. A Lugano, dopo un viaggio avventuroso traverso le mon-
tagne, il giovanetto Gino ritrova Emilio, in una stalla, sdraiato sulla
paglia, ravvolto nel cappotto, febbricitante, sfinito dagli ultimi scontri,
dalle lunghe marce, per sfuggire e sbandarsi. Il Mazzini, o Pippo, come
lo chiamavano confidenzialmente gli emigranti, si trova là a tener desto
l'incendio, a rinverdire le speranze, a provocare colpi di mano in Val-
tellina e in Val d'Intelvi : tutto riuscito a vani sacrifici di vite preziose.
La famiglia Visconti Venosta {2), mentre Emilio parte per Genova e
Pisa, vuol ritrarsi a Tirano, ma deve passare prima per la capitale
lombarda. Tutto è occupato militarmente; le case dei signori, in ogni
città o paese, devono servire di alloggio ai croati. Lo squallore della
Lombardia, l'irritazione, la nausea della compagnia, del contatto insul-
tante sono descritte con evidenza mirabile. Che impressione fa sull'ani-
mo giovinetto lo spettacolo della patria calpestata dallo straniero, e
che lezione per l'avvenire ! (3). Sul finire del decembre tornano in città
per gli studi. Università e Licei erano chiusi ; si permettevano soltanto
lezioni private, ma non mai a gruppi di scolari più numerosi di dieci!
Vengono i primi mesi, tristi ed angosciosi, del '49 (4); i milanesi as-
sistono alla partenza dei croati per i campi di Novara : i croati vanno
e sicuri come a lesta. Luciano Manara, sposo di fresco, parte con i lieti
volontari per Roma: " Noi dobbiamo morire „ egli diceva " per chiu-
" dere con serietà il quarantotto. Affinchè il nostro esempio sia efficace,
" noi dobbiamo morire „ (5).
E poi tornano alla spicciolata i reduci, da Roma, da Venezia, tri-
sti, malconci, mutilati : il 18 agosto, la festa dell'imperatore, procura
bastonate a sangue ad uomini e donne. 1 nostri tornano a Tirano, e
quivi devono subire l'occupazione militare, e la famiglia è punita per
aver mancato di rispetto ad un attendente croato devastatore di mo-
bili ! Nello squallore dello stato d'assedio (6), reso più che mai duro e
crudele durante il 1850, tra i primi tentativi dei comitati mazziniani,
che lanciano le cedole del prestito nazionale, tra le prime condanne a
(i) Cap. VIIL
(2) Cap. IX.
(3) Cap. IX, p. 150.
(4) Cap. X.
(5) P- 168.
(6) Capp. XI e XII.
i
BIBLIOGRAFIA 20I
morte, spuntano a Milano i germi di quella resistenza, attiva e passiva
insieme, che segnò nella storia una pagina meravigliosa di eroismo meno
appariscente, ma in sostanza più difficile e meritorio ; resistenza " ad
ogni costo „ che, separando completamente il paese dallo straniero,
facendo trattare i dominatori come un'orda passeggiera di occupanti,
forse salvò davvero la causa nazionale. " La vita giornaliera di questo
rigido programma doveva riuscire ben dura; ma fu vissuta e non si
piegò mai „ (i).
Quasi tutti si astengono dai divertimenti ; i giovani studiano più
che altro la scherma. Carlo Tenca fonda il Crepuscolo, che non parlò
mai dell'Austria né dell' imperatore ; Clara Maffei crea, si può dire, il
" salotto „ famoso; Cesare Giulini torna di Piemonte (2) " convinto „
come diceva " di poter meglio servire il suo paese vivendo in patria
" che nell'esilio „.
Nel 1851 (3), le Università rimangono chiuse ancora; si studia presso
i professori di Pavia, privatamente. Mentre le cedole del prestito na-
zionale, i libri ed i manifesti incendiari mandano alle forche il sacerdote
Orioli, il Dottesio e lo Sciesa; i giovani si riscaldano di patriottismo
e si educano alla politica tra le fide mura dei loro insegnanti : iniziano
la serie dei duelli con gli ufficiali austriaci, di cui prima vittima cade
l'animoso Luigi della Porta. La venuta dell' imperatore alle manovre
offre ai municipii di Milano e di Como l'occasione di mostrarsi con fie-
rezza indiff'erenti e inossequenti. I comitati mazziniani (4) sono scoperti;
cominciano i processi di Mantova del '52 e del '53: dolore e terrore
occupano l'animo dei milanesi; gli- austriaci, stupidamente feroci, sca-
vano sempre più profondo l'abisso tra loro e il popolo lombardo con
il bastone e con le prime forche di Belfiore.
L'anima del patriottismo lombardo (5) nel '53 era tuttavia Giuseppe
Mazzini. Questi vuole un'insurrezione ad ogni costo; non ascolta né
consigli né ragioni contrarie ; la parte più ponderata ed aristocratica
si tira in disparte, sta a vedere. Il Piolti De Bianchi si volge alla bor-
ghesia ; il Brizio di Assisi arrola dei popolani. Il 6 febbraio persuade
della vanità dell'impresa. L'autore, gli amici, Carlo De Cristoforis atten-
dono trepidanti ; nessuno credeva che finisse così presto e così misera-
mente. La cittadinanza ne rimane disgustata; qualcuno osa presentarsi
a Giulay per scagionare la città: la severità repressiva aumenta; Carlo
De Cristoforis deve fuggire, riesce a mettersi in salvo; i processi rin-
crudiscono a Mantova. Il Lazzati scampa alle forche per la memore
gratitudine del generale Wratislaw : ma in vece sua è giustiziato il Gra-
zioli. Che dramma nell'intimo del Lazzati, quando lo seppe ! Giuseppe
(i) p. 189.
(2) p. 188.
(3) Cap. XIII.
(4) Cap. XIV.
(5) Capp. XV-XVI.
202 BIBLIOGRAFIA
Mazzini cerca nuovi capi e nuove fila al partito repubblicano unitario;
ma questo in Lombardia si sfascia.
" Io non fui mai in relazione col Mazzini; ma ero tra gli intimi
del salotto Maffei e del gruppo del Crepuscolo, ove il M. aveva avuto
gli amici più autorevoli in Milano (i). Le impressioni mie che ho qui
esposte sono l'eco fedele dei discorsi che ho udito, e di ciò che ho ve-
duto svolgersi in quel tempo. L'anno 1853, che doveva segnare l'apogeo
di Mazzini e il trionfo della sua idea, ne principiò invece in Lombar-
dia la decadenza e il suo rapido tramonto..,. E mentre l'astro di Mazzini
impallidiva, cominciavano in Piemonte ad apparire quei primi albori di
una luce nuova, che presto doveva diffondersi in tutta l'Italia „.
Dal lugho al settembre del '53 (2) Emilio e Gino fanno un viaggio a
Roma, a Napoh, in Sicilia; lieta e istruttiva diversione dal triste anno. Le
condizioni reali dello stato pontificio e borbonico sono dipinte con una ve-
rità, che talvolta fa sorridere, ma di un riso amaro. Alla dogana pontificia
sequestrano loro, e non restituiscono più, un Machiavelli, un Molière, ogni
libro : a Roma osservano il dispregio in cui erano tenuti i preti qui a pa-
ragone di quelli di Lombardia. A Napoli ottengono il passaporto per la Si-
cilia, ma solo in riguardo alla " bandiera austriaca „ : in Sicilia si trovano
come divisi moralmente e materialmente dal mondo civile : perfino le
comunicazioni epistolari erano vietate o inceppate : si stava molto me-
glio sotto l'Austria ! Governi stupidamente tiranni, inferiori a quello
austriaco, ancora in parte di altri tempi, giustamente ritenuti tra i
peggiori del mondo civile, conchiude l'autore parlando de' governi del
papa e del re Borbone (3).
Alla fine del settembre (4), a Genova, sentono notizie gravi della
Valtellina e tornano a Milano, dove sanno dell'eroico capitano Calvi e
della prigionia di Ulisse Salis, che non compromise però né Emilio né
altri. L'anno 1854 (5) non occupa gran parte del racconto, e questo si
restringe a mettere in rilievo lo sfacelo del partito repubblicano, l'evo-
luzione del salotto Maffei, l'opera del Giuhni. L'Austria istituisce la
leva obbligatoria: chi la scansa fuggendo, chi ungendo qualche commis-
sario con bei marenghi : l'autore si esercita a fare il pompiere. E poco
si dedica anche al '55 (6). Laguerra di Crimea, la partecipazione del
Piemonte, il nome delle armi italiane associate a quelle europee nella
vittoria, l'esposizione di Parigi, la cessazione dello stato d'assedio fanno
allargare un po' il cuore ai patriotti. I due Venosta vanno a Parigi
, per divertirsi e per studiare le opinioni: e là si comincia a intuire e
(i) p. 259.
(2) Gap. XVil.
(3) P. 283.
(4) Gap. XVI II.
(5) Cap. XIX.
(6) Cap. XX.
BIBLIOGRAFIA 203
precorrere con la speranza il futuro: onde una forte ripercussione nel
salotto Maffei.
Nel '56 (i) il patriottismo italiano, e specialmente quello lombardo,
prende un nuovo e più sicuro indirizzo. 11 Crepuscolo dé[ Tenca, il sa-
lotto Maffei ed i salotti minori, Dandolo, Carcano, Manara fanno eco
alla voce di Cavour al congresso di Parigi. Le signore milanesi, dette
" le oche „ dalle austriacanti, pochine, perchè volevano salvare la pa-
tria, contribuiscono anch' esse a rianimare la vita cittadina, a tener
fermo nella resistenza. Dalle feste sono sempre esclusi gli ufficiali au-
striaci. I duelli spesseggiano : tra questi famoso il duello tra Manfredo
Camperio e il capitano Schònhalls, dal Camperio stesso descritto in
una lettera qui riprodotta. Da Torino si promuove una sottoscrizione
di cento cannoni per la fortezza di Alessandria, e a Milano si vuole
che ogni città lombarda dia un cannone. Si preannunzia la visita del-
l'imperatore : si organizza l'astensione e la contro-dimostrazione. Difatti,
la miglior società milanese e la popolazione, d'accordo, non ostante gli
sforzi della polizia, non partecipano per nulla alle feste imperiali; pro-
prio nel momento in cui Francesco Giuseppe entra in città, 15 di gen-
naio 1857, gira tra il suo seguito la fotografia del monumento all'eser-
cito piemontese, donato in quel giorno dai lombardi alla città di Torino.
Il ricevimento a corte fallito, la figura buffa e decorativa del conte
Archinto, scialacquatore vanitoso, chiamato' a proporre riforme, l'amni-
stia, il collocamento a riposo di Radeztki prenunziano la nomina a vi-
ceré di Massimiliano.
Seguono due capitoli (2), tra i più interessanti a documentare la
gravità del pericolo corso dal patriottismo e dalla politica piemontese,
l'energia audace con cui il pericolo fu scongiurato. Massimiliano era
troppo abile e troppo colto e nobile d'animo per non fare un po' di
breccia nella migliore società milanese. " Combattere Massimiliano in
" ogni modo e ad ogni costo „ fu la parola d'ordine. Tra i numerosi
episodi ed aneddoti di questa lotta campeggia il duello con il D'Adda
che aveva abboccato all'amo di un invito dell'arciduca. Il duello si fa
a dispetto della polizia : e questa, quando era già avvenuto, non ne
sapeva nulla ancora. 11 Cavour, d'accordo con Giulini ed Enrico Dan-
dolo, già agli ultimi mesi di sua vita, promove una sottoscrizione per
mandare i coscritti lombardi a servire nell'esercito piemontese. Non si
riuscì a questo : ma incominciò l'esodo dei giovani, atti alle armi, che
si offrivano volontari al Piemonte : e furono diecimila ! Tutti passano
il confine, di nascosto, con varie vicende e tra mille pericoli. " A que-
" sta intesa parteciparono persone d'ogni classe e d'ogni paese nelle
" Provincie lombarde e nelle venete. Tale occulto lavorìo durò quasi
" tre mesi : noto a molti, vi parteciparono pure, com'era naturale, vet-
(i) Capp. XXI-XXIII.
(2) Capp. XXIV-XXV.
204 BIBLIOGRAFIA
" turali, contrabbandieri, barcaioli : la polizia n'era sulle tracce, ma
" non riuscì ad impedirlo : nessuno tradì „'^(i).
Gli eventi precipitano. Ecco l'anno meraviglioso, il Cinquantanove,
quando l'alta Italia visse la vita d'un secolo. Soltanto a quello che tocca
più da vicino l'autore, egli consacra ben nove capitoli (2). Incomincia
l'esodo dei volontari, dal gennaio. Ai funerali di Enrico Dandolo av-
viene la più solenne e degna manifestazione patriottica. Ricercato, come
uno degli organizzatori, dalla polizia, l'autore fugge via, quasi di tra
le unghie dei birri, e passa il Ticino sotto il naso di un commissario,
che a lui, creduto ingegnere ferroviario facilita la via, raccomandandogli
per un impiego il figliolo. A Torino s'imbatte con Emilio, scappato an-
cora lui sotto le oneste spoglie di un mercante di formaggi.
A Milano intanto si imbastiscono processi insulsi per i funerali :
un grazioso interrogatorio avviene, ed è qui riferito, tra il giudice Fluk
e la contessa Ermellina Dandolo a proposito della magnifica corona
tricolore levata trionfalmente ad ornare la bara (3). L'autore, arrolatosi
tra i volontari, una mattina alle cinque, facendo anticamera presso Ca-
vour vide Garibaldi che entrava dal ministro, di soppiatto. Poco dopo
fu creato il corpo dei cacciatori delle Alpi. Emilio Visconti Venosta è
mandato commissario civile a fianco di Garibaldi. Cavour voleva subito
dar ordine ai paesi occupati ; e nel tempo stesso intendeva che i paesi
lombardi fossero dai francesi trovati già in piena rivolta contro lo stra-
niero. L'ufficio di E. Visconti Venosta fu davvero delicatissimo e diffi-
cilissimo: egli così lo definiva al fratello: " Il mio incarico è quello di
servire da guanciale tra l'ordine e la rivoluzione, tra il governo regio
e Garibaldi, tra i volontari e i paesi da cui passiamo „ ved. p. 517.
L'autore, mandato ancor egli presso Garibaldi, passa il Lago Mag-
giore con Nievo, Griziotti e quattro cannoni, e va in Valtellina com-
missario regio.
Qui ci si apre una breve storia particolareggiata della Valtellina,
insorta, lasciata sola con pochi soldati, a contatto con le truppe au-
striache. Che succedersi di spionaggi, di piccole reazioni, e che periodi
di ansie, incertezze, pericoli, fu quello per la Valtellina, dopo la batta-
glia di San Fermo e prima di Solferino e San Martino! Il commissario
va a Bergamo presso il quartiere generale di Garibaldi, dove assiste
a scene interessanti e dove ottiene 1' occupazione stabile della sua re-
gione ed una più accurata difesa. Assiste allo scontro ed alla presa di
Bormio. Piomba la pace di Villafranca: egli lascia l'ufficio e se ne viene
a Milano, dove già si formano i partiti, si fonda la Perseveranza e in-
comincia l'immigrazione veneta, di carattere patriottico allora, più tardi
economico.
(0 p. 415.
(2) Capp. XXVI-XXXIV.
(3) pp. 452-4.
BIBLIOGRAFIA 205
Negli ultimi tre capitoli (i) l'autore ci offre alcune bricciche stori-
che e letterarie di importanza locale e nazionale. Come si formò il
primo municipio di Milano, come si assestò la sicurezza pubblica in
quel subbuglio, come si diportò il D'Azeglio, primo governatore e il
Beretta, primo sindaco; e le feste gaie, e la vita novella del paese, e
il contegno del generale Vaillant, e lo spuntare dei partiti e dei gior-
nali politici, e Crispi che, pertinace, insinua l'idea della spedizione sici-
liana ; e tanti e tanti altri fatti ed aspetti della vita milanese, ci sfilano
innanzi come in un caleidoscopio. Un capitolo è consacrato interamente
alle memorie ed alle notizie sul Manzoni, della cui familiarità egli inco-
minciò a godere, appunto nel sessanta. Un ricordo del Manzoni mi
sembra conchiuda degnamente il libro : " Di questi guai e di queste
" noie se ne passarono in rassegna, quella sera, parecchie „.
Il Manzoni ascoltava e taceva; e poi, a guisa di conclusione, prese
a dire: " Tra qualche anno, e forse tra pochi mesi, di tutti questi pic-
" coli guai che ora ci preoccupano tanto, chi si ricorderà? D'una cosa
" sola ci ricorderemo tutti, e per sempre : ci ricorderemo che in questi
" due anni si è fatta l'Italia „ (2). Accanto a queste parole stanno degna-
mente quelle con cui si chiude il libro : " Possano questi sentimenti e
" questi fatti testimoniarvi parimenti la fede che animava i giovani d'al-
" lora, e se i tempi nuovi saranno fiacchi o immemori del passato, con-
" servate negli animi vostri tanto più salda l'antica divisa : Tutto per
" la patria e la patria al disopra di tutto „ (3).
Questa rapida corsa attraverso la materia del libro servirà a mala
pena a farne indovinare tutta l'estensione e tutto il valore. A chi in-
tendesse approfondirlo, il libro off'rirebbe agio ed argomento per bel-
lissime questioni storiche. Una delle dimostrazioni storiche di maggiore
importanza cui tende l'autore evidentemente, riguarda l'opera di Cavour.
La maggior parte delle pagine che precedono immediatamente alla
narrazione del '59, e quasi tutte quelle che la comprendono e la seguono,
espongono una serie di fatti e di considerazioni traverso le quali, con
una specie di rigidità matematica, si arriva a tessere tutta la tela del
risorgimento nazionale, per quello che ebbe di effettivo, attorno un solo
centro, l'opera del Cavour. " Bisogna „ dice l'autore, " essere vissuti a
" quei tempi, bisogna aver seguito quei fatti ansiosamente giorno per
" giorno, per avere la profonda convinzione che Cavour tutto mosse
" e diresse e che il grande artefice del nuovo regno d'Italia fu lui „ (4).
(i) Capp. XXXV-XXXVII.
(2) p. 607.
(3) P- 608.
(4) P- 413.
206 BIBLIOGRAFIA
E senza dubbio, dove si voglia tener conto che fu il suo genio ad al-
lacciare la Francia e Napoleone III nelle spire della politica propria, a
preparare e movere il Piemonte e Vittorio Emanuele, a disciplinare la
rivoluzione e Garibaldi ; dove si aggiungano i documenti venuti or ora
in luce e specialmente i Ricordi dell'Hilbner, e si vogliano ricostruire
gli enormi ostacoli che governi, diplomazia, opinione pubblica ergevano
sulla nostra strada, tutti abilmente e potentemente superati da lui, senza
dubbio viene spontanea la domanda : si sarebbe fatta l'Italia, se Cavour
non era ? Chiunque, assistendo agli spettacoli storici ne' libri del passato
e ne' moti del presente, si sarà accorato alla vista di tante idealità, sen-
tite e volute da migliaia e pure miseramente infrante, perchè non sorse
né l'occasione di attuarle né l'uomo capace di afferrarla; chiunque creda
che senza la forza effettiva nulla si ottiene in realtà, alla domanda ri-
sponderebbe : Se Cavour non era, l'Italia non sarebbe fatta.
Ma guai ad applicare, nell'assoluta integrità della risposta, un tale
semplicismo storico al risorgimento nostro, come ad ogni altro profondo
mutamento politico o sociale. Cavour trovò predisposti i cuori e gli
intelletti delle migliaia, per non dire dei milioni. Se così non fosse stato,
la sua forza pratica ed esecutiva, nella doppia forma, diplomatica e
militare, non avrebbe avuto su che esercitarsi, nulla da eseguire. La
prima proposizione è vera, ma non è men vera l'altra : Cavour non
avrebbe fatto nulla, se prima l'Italia non fosse stata.... per esempio,
mazziniana.
Questo io dico per una certa ruggine che, contro il Mazzini e l'o-
pera di lui, traspare qua e là nel libro del Visconti Venosta. Che que-
sta ruggine si sia depositata sull'animo dell' autore dopo i miseri moti
del *53, é umano, è spiegabile. Ma una superiore serenità storica vuole
che non ci lasciamo abbagliare dal successo soltanto, che si riconosca
anzi la necessità dell'opera mazziniana. Quanti sarebbero divenuti pa-
triotti, i giovani specialmente, senza gli scritti ardenti, le follie generose
del Mazzini? Ecco quello che l'autore stesso ci attesta di sé e di tanti
altri giovani nel 1854 : " Le discussioni politiche seguivano di solito la
" falsariga delle idee e dei precetti di Mazzini; i suoi assiomi ci sembra-
" vano verità; il suo patriottismo mistico intransigente ci esaltava : le sue
" formole Dio e il Popolo, Pensiero ed Azione, ci dispensavano dal pen-
" sare e ci spronavano ad agire „ (i). Era appunto quello che ci voleva
per la moltitudine, per i giovani. Ogni freddo raziocinio avrebbe di-
strutto ciascuna di quelle " utopie „ che animavano persino quel terri-
bile loico che era il Manzoni, che in casa Correnti diceva, come ne
riferisce il Visconti Venosta medesimo : " Oggi tutto é utopia; ma tra la
" utopia bella dell' unità e quella della federazione, sto per l'utopia
" bella „ (2).
il) p. 204.
(2) p. 586.
BIBLIOGRAFIA 2< 7
Così, de' moti inconsulti eccitati dal Mazzini, delle condanne, dei
martirii d'ogni genere sofferti dai suoi affiliati non si può giudicare
soltanto in linea assoluta di convenienza pratica o di idealismo umani-
tario. La relatività del giudizio qui si impone : tutto serviva a scavare
sempre più profondo l'abisso tra oppressi ed oppressori : guai se si
fosse escogitato un mezzo termine, se si fosse costruito un ponte di
passaggio! E lo spettacolo di chi sfida la morte è d'una suggestione
incommensurabile. Certe aspirazioni a idealità contrastanti con la realtà
non diventano solo per forza propria necessità psicologiche, prepotenti
motrici d'azione negli animi dei più. Dello spettacolo educativo del sa-
crificio altrui, hanno bisogno uomini d' ogni classe, dell' aristocrazia e
del volgo.
Ma lasciamo stare le questioni di giudizio e di apprezzamento :
sono molto elastiche ed irriducibili ad elementi scientifici. Ciò che me-
glio importa nel libro presente, pare a me l'esattezza dell'informazione
storica generale, la precisione del ricordo particolare (i). Ogni qual volta
occorre di comparare con altre fonti attendibili quanto il Visconti Ve-
nosta afferma, non lo si può cogliere in fallo. Cito, ad esempio, quanto vi
ha di comune tra questo libro e il Mezzo secolo di patriottismo del Bonfa-
dini, quello che si narra del Cattaneo a raffronto delle dichiarazioni inserite
dal Cattaneo stesso néìY Archivio triennale; e la guerriglia della Valtellina
a raffronto della relazione del Carrano; e le notizie attinenti ai pro-
cessi di Mantova riscontrate negli studi ben noti del Luzio. Il che ci dà
pieno affidamento per tutti gli aneddoti caratteristici, per tutti i piccoli
avvenimenti, per tutte le piccole cause efficienti e concomitanti dei
grandi effetti. Molte volte, anzi, si riportano a prova passi altrui ri-
cordi inediti : ovvero lettere di altri a documentazione infallibile. Così il
Camperio descrive egli stesso ne' minimi particolari il duello avuto col
capitano Schònalls : l'ingegnere Guy narra come avvenisse, per suo
mezzo, la fuga di Emilio Visconti Venosta ; la contessa Ermellina Dan-
dolo riferisce l'interrogatorio sostenuto dal consigliere Fliik : e il ban-
chiere Costantino Garavaglia attesta come, due o tre giorni prima che
Garibaldi salpasse da Quarto, egli fu chiamato in tutta fretta dal D'Aze-
glio, governatore di Milano, e dalle preghiere sue, che gli faceva da
parte di Cavour, fu indotto a racimolare in giorno di festa trecentomila
lire in oro, che consegnò sulla parola al capitano garibaldino Chiassi (2).
Così che, anche dove manchi o il documento o il termine di raffronto,
noi possiamo indurci a prestare pienissima fede all'autore : tanta, del
resto, è la sincerità e la sicurezza del racconto, del ricordo : tanta
(i) Un Grtola per Grioli, a p. 209, dev'essere semplice svista tipografica.
(2) Cfr. pp. 585-7.
2o8 BIBLIOGRAFIA
schiettezza e veridicità traspare da ogni pagina. Né ultima cagione di
sicurezza storica ci porge la stima personale di cui gode il gentiluomo
lombardo.
Premesso questo, s' intende bene quanto preziosa riesca questa
nuova miniera aperta ai ricercatori d'ogni specie. Lo storico della let-
teratura vi troverà notizie di grandi e piccini, assai interessanti. Del Re-
vere, ad esempio, saprà che parecchi sonetti scrisse in casa Visconti
Venosta; del Berchet, che la fama e l'ammirazione era indiscussa e
generale in Milano, ed i versi sonavano sulle labbra di tutti avanti il
'48: del Mazzini, che gli scritti erano molto discussi prima del '48,
ma dopo, fino al '54 almeno, regnarono sovrani nella letteratura pa-
triottica ed educativa. Lo Stoppani gli apparirà, nel '48, giovine chie-
rico, alla testa dei seminaristi dirigendo la costruzione e la difesa di
una barricata : e Giuseppe Rovani, nel '57, si vanterà di una pelliccia
nuova che dirà di dovere all'imperatore; ed all'autore dichiarerà una sera,
mezzo brillo : " So perchè lei non mi saluta, ma devo dirle ch'io era
" una buona ed eletta fanciulla.... ma che ho finito male „ (i).
Ecco il Montanelli, tra i cacciatori degli Appennini mandati in Val-
tellina, che " col modesto cappotto del soldato seguiva umilmente il duca
" di San Donato, il quale pomposamente precedeva a cavallo un batta-
" glione di cui era maggiore „ (2). Belle, interessanti pagine riguardano
il Manzoni, sebbene non tutto riesca nuovo, massime dopo l'ultima pub-
blicazione del Fabris: si può dire che gran parte del secondo capitolo
e tutto il penultimo siano dedicati ai ricordi del gran Lombardo.
Quante figure, degnissime di memoria, sono qui illustrate breve-
mente, che in altra guisa cadrebbero nel piìi perfetto oblio ! Tali, il
maestro Pozzi, che utilmente consacrò se stesso, prima del '48, al rin-
novamento dei metodi della scuola primaria in Milano (3) : il BoseUi,
che nel collegio omonimo educava con una pedagogia tutta speciale a
base di ceffoni e di purganti, massime per guarire l' irrequietudine dei
ragazzi " stato morboso „ secondo lui (4) ; e che fu dei primi a cadere
nelle cinque giornate, ucciso a colpi di baionetta sulla porta del Bro-
letto: Antonio Pasetti, che nei processi del '52, fu bastonato a sangue
e non parlò mai, ed incorporato in una compagnia miUtare ungherese
ai confini orientali dell'Austria, morì dagli strapazzi : eroe ignorato ed
incompianto (5). Un vero dramma psicologico è racchiuso in due pagine
dove si narra di Antonio Pievani, volontario, che dall'autore fu sorpreso
di notte mentre leggeva per istudio tra i compagni d'armi che riposa-
vano; che militò nel 59 e nel 60 con Garibaldi, in Sicilia; poi affrontò
(1) p. 383.
(2) p. 542.
(3) PP- 15-16.
(4) PP- 18-19.
(5) P- 223.
BIBLIOGRAFIA 209
il colèra facendo l'infermiere, e in fine, nel contrasto crudele tra le sue
convinzioni liberali e religiose, e tra la condotta della rivoluzione e
qnella del pontificato, finì frate e morì ben presto in un convento di
Valcamonica (i).
E quante notizie caratteristiche intorno a personaggi già noti 1
Carlo De Cristotoris, ad esempio, ci viene descritto allegrissimo d'u-
more, attivissimo, irrequieto e d'una audacia romanzesca, tanto che ne
era soprannominato D'Artagnan : e qui si narra di lui quando si na-
scose nelle sale dell'esposizione e tagliuzzò il ritratto vistoso del conte
Nava, austriacante, che vi si pompeggiava in uniforme di ciambellano
imperiale, e come fu mescolato ai moti del 6 febbraio 1853 e fuggì tra-
vestito da cocchiere. Sei anni di poi, a Torino, dopo una vita avven-
turosa, s'mcontra nt^ll'amico Gino Visconti Venosta. Doveva partire per
la guerra : ma si mostrava sempre allegro ; ad un tratto si fece serio,
lo abbracciò e gli disse : (2) — " Ti saluto per l'ultima volta !.... Sì, caro
* Gino, noi non ci rivedremo più ! La mia vita fu una sequela di avven-
* ture e ne uscii sempre salvo: essa ebbe una grande aspirazione: com-
* battere per l'Italia e poi servirla nell'esercito nazionale. Ora che il mio
* sogno si avvera.... io morirò. Sì, caro Gino, lo sento ; ne ho il presen-
* timento.... questa volta ci lascio la pelle.... — Sorrise, poi esclamò: —
" Addio, addio, ricordati di me! — Entrò nel vagone, il treno partì e io
" rimasi mesto, qiiasi atterrito. Pochi giorni dopo, ossia il 27 maggio,
'' egli moriva all'assalto di San Fermo alla testa della sua compagnia.
" Povero e generoso Cadetto! „
Lascio d'insistere su la singolare attitudine dell'autore a cogliere
la nota drammatica, tragica o comica, dello spettacolo di cui è testimone
o parte. Quei giovani che una mattina delle cinque giornate vanno in
chiesa con i loro insegnanti a confessarsi e comunicarsi prima di affron-
tar la morte; quel sacerdote che benedice in articulo mortis i cittadini
inginocchiati dinanzi a lui; l'ingegner Alfieri che prende il comando
del quartiere ov'è l'autore, durante la prima giornata, ed era pazzo, e
ne commette tante finché se n'accorgono, cosa difficile in quei momenti;
quel ladro che gli ruba l'orologio ed è lasciato andar libero, senza che
né meno gli frughino in tasca, dalla guardia nazionale del quarantotto,
in nome dei diritti dell' uomo ; e la notte passata sui tetti tra il 22 e
il 23 marzo con il pittore De Albertis, mentre tutt'attorno la città pa-
reva circondata da un orizzonte d'incendio per le cannonate furiose
degli austriaci ; e quei marinai napoletani che, nell'infuriare della tem-
pesta, ad ogni ondata violenta facevano un nuovo voto : e " ne fecero
" di così smisurati (fra gli altri quello di un organo a tre tastiere con
" sessanta canne) da scommettere che non furono mantenuti tutti „ :
e la salita verso Bormio sotto il fuoco dei tirolesi, sul cui tiro troppo
(1) pp. 549-30-
(2) p. 463.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXII, Fase. V. I4
fe
21 BIBLIOGRAFIA
alto gli ufficiali garibaldini trovavano a ridire, ma l'autore in cuor suo
la pensava diversamente e benediceva i nemici; tutto questo ed altri
cenni episodici ed aneddotici disseminati a profusione per il libro, non
rimangono soltanto impressi nella memoria di chi legge, ma ofifrono in
copia all'artista ed allo psicologo della storia elementi di studio e di
lavoro preziosi.
Se libri tali, così utili all'educazione della gioventù, così necessari
all'integrazione della storia, si moltiplicassero nelle varie regioni d'Ita-
lia, noi dovremmo agli autori tutta quella gratitudine e quella ammira-
zione di cui siamo larghi al colto gentiluomo lombardo.
G. Lisio.
APPUNTI E NOTIZIE
/^ Eriprando notaio milanese del SEC. XI. — Nel fascicolo prece-
dente di quesl'Jrc/iwio (XXXI, p. 488 sg.) è stato fatto cenno d'un do*
cumento milanese dell'anno ino, insigne per una curiosa sottoscrizione
poetica, additato agli studiosi nel primo fascicolo degli Studi Medievali,
dove però una mera svista tipografica ha fatto qualificare la carta del
Ilio come un atto spettante al secolo " undicesimo „. Ci piace rilevar
qui quell'errore puramente materiale, perchè esso ci dà occasione di
chiarire che se a cagione di quel documento Ser Eriprando deve essere
detto un notaio del sec. XIl, ciò non toglie tuttavia che egli, e forse con
maggior diritto, possa chiamarsi un uomo del sec. XI. Difatti son parec-
chie nell'Archivio di Stato di Milano le pergamene che recano la sua
sottoscrizione e tutte appartengono al sec. XI, a cominciar dalla piti
antica, che è in data del 4 agosto 1078 (S. Apollinare), passando ad
una seconda del 29 gennaio ic8i (Lentasio), ad una terza del 29 di-
cembre 1084 (S. Radegonda), infine ad una quarta del 29 febbraio 1088
<(S. Margherita).
Ove si ammetta dunque che Eriprando abbia cominciato ad espli-
care l'attività sua come notaio verso il 1075 e ch'egli contasse allora
dai venti ai venticinque anni, è ovvio eh' ei debba considerarsi più come
un uomo del sec. XI che non del XII.
^*^ Come sono nati i Lombardi secondo un epigramma francese del
SEC. XIL — Fra i componimenti che con criteri assai discutibili il padre
Beaugendre ha voluto assegnare ad Ildeberto di Lavardin, arcivescovo
di Tours, il più famoso certo tra i poeti latini fioriti in Francia sullo
scorcio del sec. XI e gli inizi del XII (i), si legge un epigramma, del
quale B. Hauréau nel suo eruditissimo scritto intorno ai " carmina mi-
(i) Venerai). Hildebekti, primo Cenomanensis episcopi^ deinde Turonensis ar-
chiepiscopi Opera tam edita qnam inedita^ ed. Ant. Beaugendre, Parisiis, MDCCVIII.
Sopra Ildeberto si vegga Hìst. littér. de la France, to. XI, p. 250 sgg. ; A. Dieu-
donné, Hildebert de Lavardin, éveque de Mans, archevèque de Tours (1056- 11 3 3),
Sa vie, ses lettres, Paris, 1898.
♦
212 APPUNTI E NOTIZIE
" scellanea „ d' Ildeberto, non ha saputo indicare la fonte (i). Esso è
intitolato De Ligurihus e suona così:
Vulpe salitur ovis dum densis vepribus haeret :
hac genitos Ligures fabula stirpe refert.
Impliciti sunt sex vitiis : a vepribus unum,
a vervece duo, cetera vulpis habet.
Gens ea vepre tenax, ove simplex, veliere mollis,
gens ea patre suo cauta, delusa, pavens.
Siamo dunque qui in cospetto d'una delle piii antiche (se non della
più antica) tra le satire lanciate dai Francesi contro i poveri Lombardi,
giacché che dei Lombardi si tratti, non può correre dubbio veruno (2).
La divulgatissima storiella del duello del Lombardo colla lumaca o colla
tartaruga, già raccolta a mezzo il sec. XII da Giovanni di Salisbury
sulla bocca degli scolari parigini (3), mirava a colpir sopratutto la viltà
che i Francesi rimproveravano ai Lombardi; ma Fautore anonimo del-
l'epigramma pseudo-ildebertino non sta pago a quahficarli vili {paventes))
egli rinfaccia loro altri cinque difetti o vizi che dir si vogliano: H ac-
cusa d'essere tenaci, sciocchi, molli, astuti ed ingannatori. Non c'è
male davvero!
Curiosa poi e nuovissima la storiella intorno al modo bizzarro con
cui i Lombardi sono venuti al mondo: dal congiungimento cioè d'una
volpe con una pecora. Che l'invenzione di questa facezia debba ascri-
versi all'ignoto poeta non oserei asserire. Forse si tratta d'una piace-
volezza che correva da tempo immemorabile in Francia, quand'egli la
raccolse. Vetustissimo difatti e colà ed altrove è stato sempre il vezzo
di attribuire origini ridicole o vituperose a certi popoli (4) o a certe
classi di uomini. Che cosa non è stato detto, per esempio, intorno alla
(i) Notice sur Ics Mélanges poétiques d'Hildehert de Lavar din^ in Notic. et
Extr. des mss., to. XXVIII, 2® partie, p. 420: « Baluze les a copiées (cette
« pièce et la précédente) lui-mème pour son édition d'Hildebert. C'est là tout
« ce nous en pòuvons dire ».
(2) Nel secolo quarto, dopo la ritorma di Diocleziano, oltreché l'antica re-
gione cosi denominata, indicossi col nome di « Liguria » tutta la pianura trans-
padana, di cui Milano, sede del « vicarius Italiae », era la metropoli. Cfr. Corp.
Inscr. Lai., to. V, par. II, p. 810. Di qui la consuetudine, divenuta comunissiraa
più tardi, di chiamare « Liguria » la Lombardia, specie in causa dell'autorità di
Paolo Diacono e d' Uguccione. Contro l' improprietà di quest'usanza insorgeva
sulla fine del sec. XIV Benvenuto da Imola (cfr. Epistolario di C. Salutati,
lib. IV, ep. I, voi. II, p. 137); ma le sue proteste a nulla valsero: gli scrittori
del suo tempo chiaman ancora Liguria la Lombardia e a dux Ligurum » è Gian
Galeazzo Visconti per l'autore del suo epitafio!
(3) Cfr. Il Lombardo e la lumaca, nel mio volume Attraverso il medio evo,..
Bari, Laterza, 1905, p. 117 sgg.
(4) Basterà ricordare la leggenda sull'origine degli Unni.
APPUNTI E NOTIZIE 2I3
creazione del villano? (i) In quanto concerne poi la origine dei popoli,
io sono lieto di potere, a conforto di noi Lombardi, riportare qui due
altri epigrammi che riguardano la nascita della gente tedesca e della
francese , quali si rinvengono in un manoscritto della Palatina di
Vienna (2). Da essi si potrà rilevare che se noi abbiamo avuto de' pro-
genitori poco umani, neppure i Teutoni ed i Galli possono andar molto
superbi delle loro scaturigini :
De origine germanorum.
Genti teutonicae mirabilis extat origo.
Ova tulit cygnus, qua fuit alta palus.
Alnus et alta fuit; asinus piger ova recepit,
Lepus contra fovit : hoc genus inde fuit.
Cygnus candentes et asellus monstrat inertes,
Molles alta palus, sed proceros exprimit alnus.
De origine francorum.
Fnincigenae genti dispar datur ortus habendi :
Flumina scrutanti cum pavo coisset anati,
Ovum fera viae deponit in aggere tritae,
Dama quod inventum fovit caveis glacierum.
Credite Francigenas hinc prima quod extulit aetas.
Pavo decorantes, sed anas designat edaces ;
Flumen luxuriam, sterilem via publica terram,
Ast frigus glacies ; bene prodit dama tugaces.
F. N.
/^ Una MERIDIANA DEL XII SECOLO. — Una congregazione di bene-
dettini francesi ha rioccupato recentemente l'antico cenobio della badia
di Acquafredda in territorio di Lenno sul lago di Como, già dei monaci
cistercensi, e dopo un secolo e più ha così fatto ritorno ai silenzi della
vita claustrale l'ampio edificio coll'annessa chiesa e coi vicini orti e
giardini, annoverato, anni or sono, una fra le più deliziose villeggiature
del Lario.
Niun luogo più adatto allo studio ed al raccogUmento di quell'ameno»
poggio ove, fino dal 1147 s'erano dato cura di estendere l'azione loro
in Lombardia i frati cistercensi della badia di Morimondo, il cui priore
Pietro acquistava per l'appunto in detto anno da Azzone d' Isola l'altura
d' Acquafredda e vi fondava una piccola casa monastica sussidiaria.
Né è qui il luogo di riassumere neppur brevemente le vicende di
(i) Per quanto si riferisce alla nascita de' villani, cfr. le storielle popolari
accennate dal Meklini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano, Torino^
1894, p. 30 sgg., alle quali altre parecchie si potrebbero aggiungere.
(2) Cod. Lat. $233, del sec. XV, che contiene gli Epigrammi di Prospero,
ved. S. Endlicher, Catalog. codd. philolog. latin. Uhi. Palat. Vindohonensis, 1836:
p. 277.
214 APPUNTI E NOTIZIE
quel cenobio che andò soppresso nel 1783 collo sperpero di tutto quanto
conteneva di prezioso per l'arte e per la storia. Chi saprebbe racimo-
lare oggidì tanti tesori? e a malapena sappiamo che, nell'intento di
salvare e utilizzare qualche resto dell'insigne monastero, le campane
vennero date alla chiesa di Zelbio poco sopra Nesso, l'organo a Sala,
le reliquie del corpo di S. Agrippino a Delebio.
Poca speranza adunque di rinvenire oggidì in quel luogo, dopo tante
vicende, qualche oggetto meritevole di considerazione se, pregandosi ul-
timamente il collega dott. E. Verga, che si recava colà, di constatare
l'esistenza o meno nella chiesuola d'Acquafredda di toccante iscrizione
sul sepolcro dei claustrali, già esistenti in passato, e citata in una sua
pubblicazione dal conte Cavagna Sangiuliani, non si avesse avuto la
ventura di accertare la conservazione di quell'epigrafe e nel tempo
stesso di scoprire in un lastrone di marmo una meridiana, disusata da
tempo ma che risale ai primi anni dalla fondazione del chiostro, e cioè
al 1193.
La tavola di marmo, levigata solo nella sua parte anteriore e delle
dimensioni di circa m. 0.50 per 0.60, giace ora a terra in un cortile del
convento ed offre in vista scolpito il circolo del meridiano diviso in due
emisferi. Quello inferiore appar riportato con linee moventi dal centro,
ove doveva levarsi lo stilo indicatore, in- dodici segmenti rispondenti
alle ore dalle 6 alle 18, né presenta altra particolarità che tre intacca-
ture profonde nelle ore dalle 8 alle 9, dalle 12 alla i, e dalle 2 alle 3,
riferibili manifestamente ad ore di preghiera o di speciali occupazioni
quotidiane della congregazione.
Nell'emisfero superiore sta scritta al disopra della linea equino-
ziale, designata colle lettere in gotico antico di LN e AEQ, la data
che dà più particolarmente valore a questo marmo, così espressa
MC xeni, lasciando posto nell'intervallo fra le due cifre e così pure
fra le due sigle testé menzionate della linea equinoziale a un circolo
minore che dalla X e dalla lettera greca P inscrittavi altro non può
significare, che il monogramma xpi^'^ó?.
Appar chiaro da tutto ciò che la lastra era destinata a stare ver-
ticalmente o, come si diceva dai vecchi astronomi, con circolo azimath;
la simmetria poi delle linee orarie rispetto alla verticale o linea del
mezzodì, indica che s'intendeva di fissarla o che fu esattamente disposta
in passato nel piano verticale est-ovest, ossia, come si dice, a perfetto
mezzogiorno.
Diego Sant'Ambrogio.
/^ La Badia di San Giovanni Battista di Vertemate. — La linea
ferroviaria che da Milano va a Como, tocca qua e là a breve distanza
edificii religiosi d'antica data, meritevoli di qualche considerazione; la
chiesa ed il convento delle benedettine di Meda, poco dopo Seregno
sulla destra, e più innanzi dall'egual lato la cappelletta di Mocchirolo,
APPUNTI E NOTIZIE
215
cui fa riscontro sulla sinistra il più importante oratorio di Lentate sul
Seveso (i).
Procedendo poi oltre verso Como, una strada tortuosa risale da
Cucciago, frammezzo ai boschi, fino all'altipiano di sinistra su cui siede
Vertemate, e poco prima di raggiungere la vetta, incontrasi la vetusta
badia di San Giovanni di Vertemate.
Ridotta oggidì allo stato di cascinale agricolo e solo serbando degli
antichi splendori il nome di " badia „, non invita a tutta prima il visi-
tatore ad accedervi, e la chiesa è poi sì cadente e malandata da servire
a mala pena come deposito di legna ed attrezzi rurali.
Vi fa pompa ancora al sommo della porta un grandioso stemma
cimato da un cappello cardinalizio e colle insegne dei Visconti Aimi, ma
la facciata rinzaffata a calce, come l'interno tutto quanto del fabbricato,
nulla ha che richiami l'attenzione. Un altro stemma, oggidì obliterato,
vedevasi sulla porta che dai piazzale dà adito al monastero propria-
mente detto, ridotto ora ad abitazione del castaido e dei dipendenti
contadini, e in cui la stessa corte quadrata, che doveva servire come
chiostro principale, nulla offre di artistico all' infuori di un portichetto
sul fianco destro della chiesa.
Nonostante i rimaneggiamenti che ebbe quella parte della costru-
zione e l'adattamento di una scala di legno per l'accesso al portico su-
periore, scorgonsi ivi ancora sulla parete alcune pitture di qualche me-
rito, fra cui una Pietà nella piccola mezzaluna al disopra della porta e
poco discosto a destra due figure in ampii paludamenti che parrebbero
rappresentare i santi Pietro e Paolo.
Migliore di tutte ed anzi notevole per smalto pittorico e accurata
esecuzione è un grande affresco a sinistra delia porta, incorniciato da
una zona a quadretti policromi nello stile delle opere giottesche, col
soggetto dell'Annunciazione. Oltremodo commendevole la testa della
Vergine che è mirabile possa essere giunta fino a noi colla rustica scala
praticata in prossimità del dipinto, locchè dinota che i contadini stessi
del luogo tennero sempre quell' immagine in particolar venerazione.
Penetrando da quella porticina laterale nella chiesa, tutta quanta
imbiancata a calce come dicemmo e ingombra di fitte cataste di legname,
ci colpisce tosto lo stato di squallore a cui è ridotto l'edificio. Come già
osservava nella sua visita del 1676 il vescovo comense Ambrogio Tor-
riani, essa è " satis ampia „ coll'altare verso oriente, e volte a crociera
tanto nel presbitero e nei due ambienti laterali, quanto nel piedicroce
con quattro pilastri rotondi, aventi basi senza unghie protezionali e ca-
pitelli a cubo di rozza fattura.
Nessuna traccia oggidì né dell'altare principale, con ancona un giorno
in onore di San Giovanni Battista, né degli altri due a destra ed a si-
nistra dell'apparente navata trasversale, dedicati a Santa Maria delle
{1) Su Meda e su Lentate veggansi la Lega Lombarda del
tobre 1901 e del 4 dicembre 1904.
9, 12 e 13 ot-
2l6 APPUNTI E NOTIZIE
Grazie ed a San Francesco. Chiusa da muri divisori, per foggiarne
un pili sicuro ripostiglio, è la navata di sinistra, ove presso la porta era
stato adattato in passato altro altare a San Francesco da Paola, come
risulta dalla visita a San Giovanni di Vertemate del cardinal Ciceri,
vescovo di Como, l'anno 1686.
Non ancora vuotate del tutto in quella dissacrata chiesa, con poco
riguardo all'igiene e minor decoro, sono le due cripte, una delle quali
può scoperchiarsi tuttora con somma facilità, e in cui per lunga serie
d'anni vennero tumulati i cadaveri degli uomini nell'una e delle donne
nell'altra, del cascinale della badia e dei vicini molini. Si direbbe che
l'azione esiziale del tempo, che fu sì funesta all'antica basilica, si sia
soffermata davanti a quelle tombe che pur meritavano maggior rispetto,
benché sia sparito invece da tempo l'ossario che si apriva sul lato de-
stro della facciata.
Nella sola ristretta e spoglia sagrestia, che già il vescovo Torriani
qualificava come " parva, humilis et humida „ e oggi pure debolmente
rischiarata, v'è ancora un buon ricordo d'arte nelle pitture che decorano
la vòlta con medaglioni di santi, e la parete a tramontana con un Cristo
nel sepolcro, intorno a cui volano due triadi d'angeli che rammentano,
a dir del Monti, la leggiadria di quelli dipinti dal beato Angelico di Fie-
sole, e certo sono opere con un vicino San Benedetto ed altre cose
minori, degne di riguardo e tali da invocarsene la conservazione, ove
ciò appena riesca possibile.
L'esterno della chiesa, intonacato di calce anche nelle tre absidi
di sfondo e provvisto della torricciuola ottagonale per le campane al
disapra del presbitero, nulla offre di speciale sotto il rispetto artistico;
e altrettanto può dirsi dei locali costituenti l'antico monastero, disposti
intorno alla corte quadrangolare sul lato destro della basilica, e recinti
d'ogni intorno dal brolo cintato, su tutto il perimetro, e da ortaglie di
proprietà del cenobio.
Il convento di San Giovanni doveva costituire in passato su quell'alto
poggio, dominante larga estensione di paese e da cui si gode d'un' in-
cantevole panorama sulla valle sottostante fino ai monti di Brunate, un
tranquillo e sicuro luogo di refugio; e non è senza commozione che se
ne visitano ancor oggi le scarse vestigia rimaste, evocando colla me-
moria le vicende molteplici cui ebbe a sottostare e che ci sforzeremo
d qui brevemente riassumere.
Una notizia convalidìita dalla Bibliotheca cluniacensis del Marrier,
ci informa intanto che fino dagli albori del XII secolo fu istituito in luogo
un Priorato dei monaci benedettini cluniacensi, e la relativa chiesuola
sarebbe stata consacrata l'anno 1107 da Oddone, vescovo di Imola, per
incarico di Guido, vescovo di Como.
Il Marrier annovera infatti quel convento fra gli altri cluniacensi
elencati nella Definizione del 1367, come segue: " Prioratus S. Johannis
" de Vertemate, qui est unitus Prioratui de Cernobbio, ubi debent esse
'' cum Priore 6 monachi et fit ibi eleemosyna omnibus petentibus „.
APPUNTI E NOTIZIE 217
Benché dipendente da altro priorato, sarebbe pur sempre riescito
di qualche interesse ravvisar nella nostra badia le tracce almeno del-
l'antica Obbedienza cluniacense; ma sgraziatamente, come a Santa Maria
di Cernobbio, tutto il tempo ha travolto e sperperato, cosicché di quegli
antichi priorati dei secoli XII e XIII non ci rimane altro esempio che in
quello di Piona presso Gravedona, col pittoresco suo chiostro del 1252.
Risulta anzi dalle notizie dei cronisti che un claustrino cluniacense
esisteva pure a San Giovanni di Vertemate, ma esso andò distrutto
barbaramente nel 1688, allorché i comaschi irritati contro gli abitanti
•di Vertemate che pareva inclinassero verso i milanesi, fecero colà
un'incursione guerresca, distruggendo il castello edificato poco prima
in luogo contro le offese degli oltramontani e la non lontana badia di
San Giovanni.
Vano riesce dunque il far ricerca oggidì colà di memorie clunia-
censi, ed anzi la distruzione deve essere stata così radicale che rite-
niamo ascrivibile a posteriore rifabbrica anche la chiesa con volte a
■crociere e capitelli a cubo fino a noi pervenuta e che abbiamo più sopra
descritta.
In tale avviso ne inducono la rozzezza della costruzione per lo più
in cotto e non in pietrame, quale usavano i Cluniacensi, e con molti
particolari che tradiscono un'epoca già inoltrata dell'architettura lom-
barda.
Avremmo così sott'occhio in quella chiesa un edificio della fine del
XIII o dei primi anni del XIV secolo, ed anche i dipinti a fresco di ca-
rattere più antico verso la porticina laterale della chiesa non risalgono
oltre la fine del trecento, e posteriori ancora sono quelli, della metà
invece del XV, nella cappella della sagrestia.
Si ha anzi ragione di credere da un documento che citeremo più in-
nanzi di papa Gregorio XV del 1621, che dopo la rovina del pristino
chiostro cluniacense, la congregazione religiosa la quale ne continuò
in luogo le tradizioni, si avvicinasse di preferenza alle prescrizioni ri-
tuali degli Umiliati, e ne abbracciasse le dottrine, benché il Tiraboschi
nella sua storia di quell'Ordine non citi San Giovanni di Vertemate
espressamente fra i conventi degli Umiliati nella provincia di Como.
Quell'autore per altro fa esplicite riserve sul non aver egli pub-
blicati tutti i documenti che possedeva, e d'altronde benché, verso la
fine del XVI secolo, non sia stato anche San Giovanni di Vertemate
compreso tassativamente fra le case soppresse nel 1579 ed incorporate
di quella congregazione, come lo fu la casa di Rondenario colle altre
due di Vico e le molte del bacino lacuale comasco, data anche per la
badia di San Giovanni da quell'epoca ad un dipresso la cessazione del
convento propriamente detto e l'istituzione dello stato di commenda, che
fu del resto la rovina totale del poco che rimaneva dell'antico cenobio.
Primo commendatario della badia fu infatti sugli inizi del XVII se-
colo l'abate Marco Gallio di Como, nipote dell'illustre cardinale To-
lomeo e fratello di Carlo, capitano delle tre pievi superiori del lago. In-
2l8 APPUNTI E NOTIZIE
signito della carica onorifica di protonotario apostolico, fu sotto il suo
governo nel 1621 concesso da papa Gregorio precitato il breve aposto-
lico indirizzato al vescovo di Como e diretto ad introdurre nella chiesa
abbaziale di San Giovanni di Vertemate i " Frati rriinimi „ di San Fran-
cesco da Paola.
Avevano fatta istanza all'uopo presso il pontefice lo stesso com-
mendatario Marco Gallio e il padre Antonio Barberi, correggitore del-
l'Ordine nella provincia di Milano, ed è in quel documento che la badia
è designata come già di proprietà un giorno dell'ordine degli Umiliati.
Fu del resto una chiamata più che altro " prò forma „, giacché,
benché un altare sia stato eretto nella chiesa a San Francesco di Paola
per l'appunto, non risiedeva alla badia che il cappellano incaricato della
messa quotidiana, né il convento tornò mai più a funzionare, se non per
assoluta deficienza di mezzi, per lo stato stesso di commenda introdotto
in quella istituzione.
Dalle notizie risultanti all'epoca della soppressione possedeva la
badia non pochi fondi agricoli fra cui a Caslino, a Cadorago, Lenna, e.
vasti possessi in Vertemate stessa con molti dei molini della sottostante
valle, sicché calcolavasi nel 1787 che ammontassero i livelli attivi a
L. 246 e i fondi a L. 9193, e spettassero al cardinal commendatario
L. 7130, dedotte le L. 450 per l'onere della messa, restando, ben inteso,
a suo favore i mobili e le scorte.
Venuto a mancare il protonotario Gallo, nel 1632, gli succedettero
come commendatari in quel secolo, don Giuseppe Donesaiia fino al
1664 e poscia da quella data fino al 1712 il munifico cardinale Giuseppe
Archinti. Furono, al dir del Litta, i meriti del padre che procurarono a
quest'ultimo da Alessandro VII la badia di San Giovanni, a quel modo
che allo stesso porporato veniva assegnata poco dopo l'altra badia, già
di compendio degli Umiliati essa pure, di San Giovanni della Vigna nella
diocesi di Lodi. Com'è noto, si distinse per altro l'Archinti, nominato
cardinale da papa Innocenzo XII, oltrecchè come arcivescovo di Milano,,
in varie mansioni politiche ed, entusiasta di Filippo V di Spagna, era
poco propenso invece al governo d'Austria che stava per stabilirsi in.
Lombardia.
Dal 17J2 al 1737 fu commendatario di San Giovanni di Vertemate
il cardinale Curtis de Origo, della famiglia omonima di Milano, e mag-
gior lustro le diede poscia, per titoli ed aderenze, il commendatario
che gli successe dal 1737 al 1769 cardinal Carlo Francesco Diirini, arci-
vescovo di Rodi, prelato domestico ed assistente della Santa Sede per
nomina di papa Clemente XII. Si recò come nunzio apostolico in Elvezia
e presso Luigi XV di Francia; divenne vescovo di Pavia, e in mezzo
a tanti onori come non scordare l'umile e depauperata badia di cui era
titolare ? Magagne dei tempi !
Non meno di lui illustre fu l'ultimo commendatario della badia negli
anni dal 1774 al 1788, in cui venne a morte, cardinale Eugenio Visconti.
Già possedeva egli fin dal 1725 l'abbadia di San Pietro all'Olmo, e molto-
APPUNTI E NOTIZIE 21 9
si distinse negli uffici pubblici come referendario dapprima e da ultimo
come prefetto di Propaganda Fide. Fu altresì nunzio in Polonia nel 1759
e gli venne addebitata certa soverchia tendenza alla vita gaja e rumo-
rosa in Vienna ove trovavasi per mansioni diplomatiche.
Era per altro uomo di retto sentire, ed allorché cessò colla sua
commenda di aver vita a sé la badia di Vertemate, a stento si potè ot-
tenere dall'Economato ne aveva assunto la gestione vacante, il quale
che venisse conservato l'uso introdotto dai commendatari e mantenuto
dal Visconti di una dote di L. 25 alle fanciulle nubende dei fittabili e
coloni della gestione agricola.
Venuti poi i giorni delle affrettate e violente soppressioni, la badia
di San Giovanni di Vertemate che già s'era andata lentamente prepa-
rando alla sua disparizione, fu venduta al pubblico incanto e la posse-
derono i Cusani dapprima e poscia i Traversi e a stento la parroc-
chialità di Vertemate ottenne nel 1798 di poter ritirar essa alcuni pochi
effetti di culto chiesastico rimasti abbandonati e che avrebbero dovuto
altrimenti essere venduti essi pure, come lo furono i fabbricati tutti della
badia, e i fondi, l'orto e il giardino.
Va da sé che, nello stato di squallore in cui trovavasi la chiesa,
non potè allora essere presa in considerazione la domanda fatta nello
stesso anno 1798 dai deputati dell'Estimo del comune di Vertemate,.
perchè si conservasse quella chiesa abbaziale a comodo di quella par-
rocchia, e da allora in poi, la sconsacrata chiesetta di San Giovanni
andò sempre più deperendo e la sua esistenza stessa è seriamente mi-
nacciata da qualche tempo in qua.
Non riesca quindi discaro se, a scongiurare, per quanto è possibile,
siffatta estrema jattura, si richiami l'attenzione degli studiosi su questa
dimenticata e vetusta badia che, trovandosi a poca distanza dalla gran
via che unisce Como a Milano ed in amena e ridente posizione, con
tracce tuttora di curiosità architettoniche e di dipinti di qualche vaglia,,
può essere facilmente visitata. D. S.
/^ Bandiere dell'armata d'Italia (1797). — Sono tanto pochi gli
studiosi di bandiere di guerra e coloro che per persistenza di ricerche
posson dirsi competenti in materia, che davvero si potrebbero contare
sulle dita di una mano. I lavori però che l'Hollander ha già pubblicato
sia nel Carnet de la Sabretache che in altri periodici, sono più che suf-
ficienti per stabilire la di lui fama quale di uno dei più intelligenti, eru-
diti e pazienti indagatori di questa difficilissima e sinora nemmanco sfio-
rata materia che, mancando un appropriato vocabolo latino, oseremo
germanicamente chiamare " Fahnenkunde „. I cultori degli studi storici,
e specialmente coloro che s'interessano al turbinoso periodo dell'occu-
pazione francese in Italia alla fine del XVIII secolo, leggeranno con
piacere la nuova sua pubblicazione (i) esclusivamente basata su doci -
(i) O. Hollander, Les drapeaux et ètendards de Varmée d'Italie et de Varmée
d'Égypte, ly^j-iSoi (Extrait du Carnet de la Sabretache), Paris, Leroy, 1904.
220 APPUNTI E NOTIZIE
menti, inediti per la massima parte, e sulT illustrazione dei cimeli che
per la difficoltà stessa della loro durabilità soltanto in piccolissimo nu-
mero sono pervenuti sino a noi.
Il 14 dicembre 1796 il generale in capo Bonaparte da Milano risol-
veva di dare delle nuove bandiere a tutte le mezze brigate (così chia-
mavansi allora i reggimenti) che facevano parte della sua armata d'Italia,
ed in una lettera al generale Berthier egli prescriveva che su ciascun
drappo si facessero iscrivere le battaglie a cui i differenti corpi eransi
trovati presenti, distinguendo con carattere più vistoso quelle fazioni
vittoriose cui maggiormente avevano contribuito.
Si incaricò di sorvegliare la confezione di queste bandiere il capo
battaglione Leopoldo Berthier, " logé (dicono i documenti) Casa Trivulci
" place Saint Alexandre „. Il modello adottato era quello che nel 1794
veniva assegnato alle bandiere dell'allora già disciolta 197.* mezza brigata,
e se ne ordinarono 90, come appare dal contratto in data io gennaio 1797
tra il cittadino Garros, " agent en chef des effets militaires, commis des
" deniers et affaires de la République Frangaise „, ed il negoziante
Gian Giacomo Boudet, che si obbligava a fornirle ai magazzini militari
in Milano nello spazio di un mese, complete con asta a lancia dorata,
zoccolo in ottone giallo e puntale in ferro e colle relative cravatte guer-
nite di frangie, al prezzo di 195 lire, numerario di Francia in oro od
argento.
Stante qualche lentezza per parte dei corpi nel declinare i fatti
d'arme di cui potevano andar fregiate le loro nuove insegne, non fu
che pel 1° Pratile che il cittadino Boudet venne obbligato a portare le
nuove bandiere alla sede dello stato maggiore (" Casa Cerbellonni „)
per essere collaudate, incassate e spedite alle divisioni disseminate nel
paese occupato, e fu anche puntuale, visto che non gli era stato pos-
sibile, malgrado i reclami avanzati, di riscuotere il pattuito anticipo di
6000 lire.
Ogni mezza brigata ebbe tre bandiere e cioè una per battaglione;
la parte di drappo che andava arrotolata ed inchiodata all'asta era
bianca pel i.°, rossa pel 2° e bleu pel 3,** battaglione. La stoffa di taf-
fetà di seta misurava circa metri 1,60 in quadrato : al centro stava un
quadro bianco circondato ai quattro lati da un trapezio diviso in tre
strisele ineguali disposte obliquamente; un aspetto, come si vede, assai
caratteristico. In ciascun trapezio la striscia esterna era rossa, bianca
quella di mezzo ; il bleu toccava sempre il quadro del centro il quale
nel diritto presentava dipinti ad olio un fascio da littore sormontato dal
berretto frigio scarlatto e circondato da due ramoscelli di quercia; sul
rovescio però soltanto questi ultimi che dovevan rinchiudere sia il nu-
mero del corpo oppure delle leggende ricordanti le testimonianze spe-
ciali d'onore conferite sia poi oralmente, sia nei rapporti ufficiali, a
quel dato corpo dal generale in capo in persona. Citeremo ad esempio^
le seguenti per quanto ne sia controverso il testo, nessun originale es-
sendo pervenuto sino all'età nostra :
APPUNTI E NOTIZIE 221
J'ÉTAIS TRANQUILLE, LA BRAVE 32® É TAIT LÀ!
La 57* DEMI BRIGADE QUE RIEN n'aRRÉTE.
Brave 18®. Je vous connais, l'Ennemi ne tiendra pas devant vous.
La 25* s'est cou verte de gloire.
La terrible 75* que rien n'arrète.
Le altre iscrizioni, pure dipinte in lettere d'oro, erano disposte oriz-
zontalmente sulle striscie tricolori, quelle del davanti sono le regola-
mentari, ossia, République franqaise sopra e Discipline et Soumission
Aux Loix militaires sotto, ed ai quattro angoli alternati i numeri della
mezza brigata e del battaglione.
Al rovescio invece, disposte in vario modo a seconda del loro nu-
mero e della loro lunghezza, le iscrizioni dei fatti d'arme. Quelle che
piij di sovente ricorrono sono :
combat de montenotto (sic) bataille de MONDOVI
BATAILLE de millesimo PASSAGE DU PONT DE LODI
bataille de LONATO bataille de CASTIGLIONE
BATAILLE DE BASSANO COMBAT SUR LA BRENTA
BATAILLE d'aRCOLO {sÌc) JRE ET 2ME BATAILLE DE RIVOLI
BATAILLE DE S.T GEORGE BLOCUS ET PRISE DE MANTOUE
COMBAT d'aNGUILLARI PASSAGE DU TAGLIAMENTO
TRAVERSÉE DU TIROL BATAILLE DE CEMBRA.
Due di queste bandiere sono conservate al Royal Hospital a Chelsea
presso Londra, essendo cadute in mano degli inglesi il 4 settembre 1800
in seguito alla capitolazione di Malta ; altre dieci si trovano nell' I. R.
Museo dell'armata a Vienna, prese quasi tutte tra il 1799 ed il 1801.
Sembra non ne esistano altre.
Il 14 luglio 1797 queste bandiere venivano distribuite con grande
solennità ed il chiarissimo autore riproduce un documento ufficiale da
cui si rilevano i seguenti dati circa la dislocazione dei corpi, dati che
qui vale la pena di riportare :
i.^ Divisione, Brune a Padova — 2.* mezza brigata leggiera; 18.%
25.', 32.% 75.* mezze brigate di linea,
2." „ Augerau a Verona — 27.» leggiera; 4.*, 40.*, 43.»^ e
51.* di linea.
3.^ „ Bernadette a Udine — 16.* leggiera; 30.», 55.% 61.^
ed 88.* di linea.
4.'' „ Fiorella a Treviso — 21.^ leggiera; 6.», 12.% 64.» e
69.* di linea.
5.'^ „ Joubert a Vicenza — 4.* e 22.» leggiere; 11.'', 14.»,
33.» ed 85.» di linea.
6^ „ Delmas a Belluno — 26.** leggiera; 39.* e 93." di
linea.
222 APPUNTI E NOTIZIE
7.a Divisione Baraguay d'Hilliers a Venezia — 17.^ leggiera; 5.%
58.», 63.^ e 79.^ di linea, di quest'ultimo solo il
i.^ battaglione gli altri due essendo distaccati
a Cor fu.
8.a „ Victor a Genova — 5.» e 18.* leggiera; 57.* di linea.
Colonna mobile al comando del generale Bon a Milano — 9.* e
13.* di linea.
Divisioni in paesi conquistati :
i.a Divisione, Miollis a Mantova — 29.» leggiera.
2.^ „ Kilmaine a Milano — ii.% I2.«' e so.'i leggiera.
3.^ „ Sauret a Tortona — 45.^ di linea (2.° e 3." batt.^).
4.^ „ Casabianca a Cuneo — 45.» di linea (i.° batt.**).
5.* „ Vaubois in Corsica — 19.^ di linea.
A Milano la distribuzione delle bandiere ebbe luogo nel recinto del
Lazzaretto, ove cinque giorni prima si era celebrata, con quella pompa
che tutti gli studiosi dell'epoca conoscono, la festa della Federazione
della Repubblica Cisalpina di cui l'Aspari ci ha lasciato memoria in
una sua incisione. Mentre nella prima si distribuirono le bandiere alle
nostre Guardie Nazionali in questa 'seconda solennità ebbero uguale
onore tre coorti cisalpine comandate dal La Hoz (i).
Alla cavalleria ed all'artiglieria i nuovi stendardi non furono con-
segnati che alli 22 settembre 1797, anniversario della fondazione della
Repubblica. Essi portavano dipinto nel diritto un fascio da littore sor-
montato da berretto e contornato da due rami d'alloro dorati, il tutto
LIBERTÉ EGALITÉ
circondato dalle iscrizioni : discipline subordination
VIGILANCE
L'altro lato era senz'emblemi, ma tutto riempito dalle iscrizioni delle
imprese compmte, leggendosi sulle due prime linee : république fran-
gAiSE e l'indicazione del corpo. Tutt' intorno d'ambo i lati a mo' di
cornice una fascia ricamata a foglie di quercia e terminante in fitta
frangia dorata. Il drappo del i.° squadrone era scarlatto, con fascia
rossa ricamata in oro. Quello del 2.° squadrone era cilestre con fascia
bleu e ricami in oro. Quello del 3.° squadrone era verde chiaro con fa-
scia verde ricamata in oro ; infine quello del 4.° squadrone era giallo
con fascia e ricami oro su oro.
Lo stendardo per altro dell'Artiglieria delle Guide aveva il drappo
tricolore ed invece dei nomi delle battaglie la leggenda: partout l'ar-
TiLLERiE s'est comblée DE GLoiRE. Qucsto cd i quattro stendardi della co-
sìdetta Compagnie des Guides sono conservati a Parigi nel Museo d'ar-
tiglieria.
(i) Ved. Corriere Milanese del 17 luglio, n. 57, p. 457; ed in Ambrosiana.
SCV Vili, 4 sotto al n. 39.
I
APPUNTI E NOTIZIE 223
Il Museo del Risorgimento in Milano ha però la somma ventura di
possedere (i), per quanto incompleto e manomesso, il drappo del 3.°
squadrone del 3.° reggimento d'artiglieria leggiera che il chiarissimo
autore fa oggetto d'una riuscitissima illustrazione e che i lettori po-
tranno esaminare a loro bell'agio a miglior comprensione dei cenni
dati qui sopra.
Vi si leggono le seguenti iscrizioni :
Aff: de Mondovi et Pas : du Pò.
Bat: de Lodi et Pas: du Mincio.
Bat : DE Castillon et Aff : de la Corona.
Prise DE Trente.
Aff : de Trente et de Bassano.
Capitulation de Porto Legnago.
Bat : de St George et de Rivoli.
Bat : d'Arcole et de la Favorita.
Reddition de Mantoue.
Pas : de la Piave.
Pas : du Tagliamento.
Pas : de Lisonzo, et Prise de Gradisca.
Aff : et prise de Indemburg (2).
Per non riuscire troppo lungo ed anche perchè presenta troppo
lieve interesse per la storia lombarda, tralascierò di riassumere l' inte-
ressante illustrazione delle bandiere delle cosidette mezze brigate di
battaglia e dell'armata d' Egitto, colla quale si chiude questo lavoro.
Degne d'ammirazione le magnifiche tavole di cui esso va corredato.
Enrico Ghisi.
/^ Onoranze centenarie al poeta Giovanni Fantoni. — Ricorrendo
tra breve il primo centenario della morte di Labindo, la città di Fiviz-
zano, la quale giustamente si vanta di avere dato i natali a chi fu detto
l'Orazio Toscano, ha deliberato di onorare il più degnamente che per
lei si possa la memoria del valoroso poeta. A tal fine si è costituito in
Fivizzano sotto la presidenza di quel sindaco, signor Ignazio Angeli, un
Comitato che si rivolge per aiuto nella nobile impresa a quanti sono
studiosi italiani. Noi confidiamo che la gentile città lunigianese saprà
rendere il miglior tributo al geniale artista, facendone conoscere la vita
e gh scritti meglio di quanto siasi fatto sin qui.
/^ Tra gli acquisti fatti nel mese di novembre u. s. dalla Biblioteca
del Senato del Regno in Roma sono da comprendersi 151 Statuti e or-
dini municipali italiani, mss. e a stampa, provenienti per la più gran parte
(i) Lascito del conte Aldo Annoni.
(2) Per ludenhirg.
224 APPUNTI E NOTIZIE
dalla biblioteca del defunto barone F. Em. Bollati di St. -Pierre, sovrin-
tendente agli Archivi piemontesi. La Commissione per la Biblioteca, che
ne ha deliberato l'acquisto nell'intendimento di accrescere la collezione,
già ricca di ben 2280 statuti italiani e costituente il più prezioso fondo
storico dell'Istituto, ne darà notizia particolareggiata in uno dei pros-
simi fascicoli dell'utile Bollettino delle pubblicazioni di recente acquisto, che
col 1904 ha iniziato le sue pubblicazioni (Roma, tip. del Senato).
*^ È uscito il primo volume del Codice Diplomatico dell' Università
di Pavia (atti dal 1361 al 1400), pubblicazione promossa dalla Società
di storia patria pavese, e curata dal prof. dott. R. Majocchi, Essa torna
a grande onore del nostro egregio consocio ; e V Archivio si riserva di
riparlarne.
*^ Anche l'ottavo volume degli Atti del Congresso storico interna-
zionale di Roma ha veduto ora la luce. Esso per materia e per sezioni
è il secondo della serie. Benché per mole minore di altri già pubblicati
(ha pagine xxxvii-373), non riesce per la importanza e la varietà del
contenuto inferiore a veruno. Esso si divide in quattro parti di cui la
i.a e la 2.* contengono i verbali delle sedute dei gruppi I e II, Storia
antica. Epigrafìa, e III, Filologia classica. La 3.» parte abbraccia le co-
municazioni concernenti ai primi due gruppi, in numero di diciassette,
dovute ad epigrafisti e storici ben conosciuti, italiani e stranieri; citiamo
tra altri i nomi del Bormann, del Conway, dell'Eusebio, del Lumbroso,
del Petersen, del Vulié. La parte 4.*, oltre ai temi presentati per la di-
scussione al III gruppo, da uomini competentissimi, quali il Ramorino,
il Sabbadini, lo Stampini, il Vitelli, abbraccia ventiquattro comunica-
zioni concernenti tutte alla filologia classica. Ricordiamo tra queste la
Vili, la XVII di G. ViteUi e A. Mancini sopra papiri greci; la IV del
prof. Monro Binning sul dialetto omerico, la XIV del prof. R. Seymour
Conway su un' iscrizione preellenica di Creta. Di un codice di Palefato
parla poi il dott. Butti; di un ms. di Tacito recentemente rinvenuto il
Ramorino (V, XIII); il Pascal ed il Curcio toccan questioni lucreziane
(XXII, XXIII); di letteratura latina cristiana trattano il Labroue, il Puech
(VI, X) ; infine il Sécheresse discute (XX) sulla questione oggi.assai viva
se il latino possa divenire la vagheggiata lingua internazionale dell'av-
venire. Varietà e dottrina : ecco le caratteristiche doti di questo bel vo-
lume che fa onore al pari di quelli già pubblicati all' infaticabile zelo
del benemerito segretario del Congresso, il comm. dott. G. Gorrini.
/^ Pubblicazioni recenti. — Per cause indipendenti dalla Direzione
à^W Archivio essendo mancato il solito Bollettino trimestrale di biblio-
grafia storica lombarda^ segnaleremo qui le pubblicazioni storiche più
recenti che concernono alla storia lombarda, su alcune delle quali ri-
torneremo con qualche maggiore notizia:
Bragagnolo G. & Bettazzi e., La vita di G. Verdi narrata al popolo, in-8,
Milano, G. Ricordi & C, 1905.
APPUNTI E NOTIZIE 225
Carotti prof. Giulio, Le opere di Leonardo, Bramante e Raffaello, in -8 fig.,
Milano, U. Hoepli, edit., 1905.
Clementi Giuseppe, // B. Venturina da Bergamo dell'Ordine de' Predicatori
(1504- 1346), in-8, Roma, Puster, 1904.
Colle-^ione Giorgio Mylitts di battenti in ferro ed in bronco. Venti tavole
in eliotipia. Note illustrative di Andrea Balletti, fol., Milano, Allegretti, 1905.
Dalla Santa Giuseppe, Un episodio della vita universi taria di Giasone del
Mayno, in-8, Venezia, Visentini, 1904.
Darowski Adam, Bona Sfor:(a, in- 16 fig., Kzym [Roma], Forzani, 1904.
Da VARI Stefano, Descri:(ione dello storico palax':(o del Te di Mantova^ in-4 ili.,
Mantova, Segna, 1905.
Del Balzo Carlo, L'Italia nella letteratura francese dalla caduta dell'impero
romano alla morte di Enrico IV^ in-8, Torino-Roma, casa editrice nazionale, 1905.
Garnett Richard, Italian villas and their gardens. With ill^ London, 1905.
Giani Maria Anglla, Di Gian Carlo Passeroni e di alcuni riscontri fra il
" Cicerone „ e il « Giorno », in-4, Tortona, Rossi, 1 904.
Giovannini prof. Alberto, Carlo Cattaneo economista, in-8, Bologna, Zani-
chelli, 1905.
Graziani Ern., Brescia nella storia delle armi, in-8 fig., Brescia, tip. della
Provincia, 1904.
GuiDiNi arch. A.., Il tempio di Santa Croce in Riva San Vitale, in-4 il^»
Milano, Treves, 1905.
Lombardo dott. Giacomo Maria, Bianca Milesi, con documenti inediti, in-i6,
Firenze, Seeber, 1905.
Majocchi dott. Rodolfo, Codice diplomatico della Università di Pavia,
(sec. XIV), in-4, Pavia, Fusi, 1905.
Malaguzzi Valeri Francesco, Gio. Antonio Amadeo, scultore e architetto,
lombardo (1447-1562), in-8 fig., Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1904.
Magistretti Marco, Manuale Ambrosianum, ex codice saec. XI. Pars prima:
Psalterium et Kalendarium ; Pars altera : Officia totius anni et dlii ordines, ■ in
fol., 2 voi., Mediolani, U. Hoepli, 1905.
Mazzi A., Il Beato Venturina da Bergamo, Bergamo, tip. Bolis, 1905.
OuRoussow princesse M., Gauden:(io Ferrari a Varallo et Saranno. Esquisse
d'art, in 4 ili., Paris, Fischbacher, 1905.
Parini, Oeuvres choisies tradmtes pour la première fois en langue frangaise par
le prof. Th. Feriaud. Voi. Ili (Prose), in- 16, Paris, Boyveau et Chevillet édi-
teurs, '1904.
226 APPUNTI E NOTIZIE
PoRiauET René, Histoire diplomatique du Pìémont, 18^^-18^6, in 8, Bar-le-Duc,
Brodard, 1904.
Rivista Archeologica della Provincia e antica diocesi di Como. Fase. 50.®, in-8 \
ili., Milano, L. F. Cogliati, 1905.
Rivista Archeologica Lombarda, diretta dal dott. prof. Serafino Ricci. A. I,
fase. I, in-8 ili., Milano, L. F. Cogliati, 1905.
Sartori Treves Pia, Una umanista bresciana del secolo XV {Laura De Ce-
rato), in-8, Brescia, Apollonio, 1904.
ViLLARi PASQ.UALE, Le invasioni barbariche in Italia, seconda edizione, in 8,
-.Milano, U. Hoepli, 1905.
>
O I* E? I« B?
pervenute alla Biblioteca Sociale nel I trimestre del 1905
Ambrosoli S., Intorno ad un nuovo esemplare della moneta Cavallina di
Candia. Lettera al signor conte sen. Nicolò Papadopoli, Milano,
tip. L. F. Cogliati, 1905 (d. d. s. A.).
Biblioteca della Società Storica Subalpina diretta da F. Gabotto, voi. I,
III, V-VIII, Pinerolo^ tip. Chiantore-Mascarelli, 1899-1901 (d. d. socio
Novati).
Bollettino delle pubblicazioni di recente acquisto della Biblioteca del Senato
del Regno. A. I, 1904, Roma, Forzani (d. d. Commissione della Bi-
blioteca del Senato).
Braga GNOLo G. & Bettazzi E., La vita di G. Verdi narrata al popolo,
Milano, G, Ricordi & C, 1905 (d. d. s. Seletti).
Bollettino della Società Dantesca italiana, nn. 1-2-3-9, Firenze, tip. S. Landi,
1890-1892 (d. d. s. Novati).
Calvi, E., Bibliografia analitica petrarchesca 1877- 1904, Roma, 1904 (dono
d. s. Novati).
Carotti G., Le opere di Leonardo, Bramante e Raffaello^ con 188 ili., Mi-
lano, U. Hoepli, 1905 (d. d. E. e d. s. A.).
Chiesa G., Regesto dell'Archivio comunale della città di Rovereto, fase. I,
(1280-1450), Rovereto, tip. Roveretana, 1904 (d. d. Biblioteca civica
di Rovereto).
CiccHiTELLi V., Sulle opere poetiche di Marco Gerolamo Vida, Napoli,
L. Pierro & F., 1904 (d. d. s. Novati).
Collezione Giorgio Mylius di battenti in ferro ed in bronzo. Venti tavole
in eliotipia. Note illustrative di Andrea Balletti, Milano, 1905 (dono
d. s. G. Mylius).
Dalla Santa Giusepìe, Un episodio della vita universitaria di Giasone del
Maino, Venezia, Visentin!. 1904 (d. d. A.).
Da VARI S., Descrizione dello storico palazzo del Te di Mantova, Mantova,
tip. Segna, 1905 (d. d. A.).
228 OPERE PERVENUTE ALLA BIBLIOTECA SOCIALE
Ferrigno G. B., La peste a Castelvetrano ne^li anni 1624-1626, Trani,
V. Vecchi, 1905 (d. d. A. e del Municipio di Mantova).
Greppi G., Le dernier cri de Venise mourante (1797), Rome, Imprimerie
editrice romaine, 1905 (d. d. s. A,).
HoLLANDER A., Les drapeaux et étendards de Varmée d'Italie et de l'armée
d'Égypte, 1797-1801, Paris, J. Leroy, 1904 (d. d. A,).
Intra G. B., Del conte Luigi Magnaguti. Cenni biografici, Mantova,
G. Mondovì, s. a. (d. d. s. A).
Lenzi F., L'arte e le opere di Benedetto Pistrucci, Orbetello, 1004 (dono
d. s. A.).
Mazzi Angklo, // Beato Venturina da Bergamo, in-8, Bergamo, tip. Bolis,
1905 (d. d. s. A.).
Milano Sanitaria. Anno X, Milano, tip. L. F. Cogliati, 1905 (d. d. dottor
Levati).
Nava C, Un monumento sconosciuto dell'architettura lombarda. La chiesa
di Rivolta d'Adda, Milano, tip. degli Ingegneri, 1903 (d. d. s. A.).
PAsaucco G., Elagabalo. Contributo agli studi sugli a Scriptores Histo-
riae Augustae », Feltre, tip. Panfilo Castaldi, 1905 (d. d. A.).
Primo trentennio della Società Ceramica Richard- Ginori. Commemorazione,
Milano, tip. Bonetti, s. a. (d. d. s. No vati).
Rivoli [Due de], Les Missels imprimées à Venise de 1481-1600, Descrip-
tion, illustration^ bibliogì^aphie. Avec cinq planches sur cuivre et 350
gravures, initiales et marques, Paris, J, Rothschild, editeur, 1896
(d. d. s. A.).
Senato del Regno, Catalogo della Biblioteca, Roma, tip. del Senato, 1879,
— Appendice I, Roma, ivi, 1886.
— Indice per materie, ivi, 1888 (d. d. Senato).
Ved. Bollettino.
SoMMERFELD G. Matthàus von Krakau und Albert Éngelschalk zur Quel-
lenkunde des spàteren Mittelalters, s. i. t. (d. d. A.).
35 mar{0 rgos»
Il Bibliotecario
B. Sanvisenti
Achille Martelli, gerente-responsabile .
Le sentenze dei consoli di Milano
nei secolo XII
E origini del consolato e dei comuni italiani nel se-
colo XII aprirono agli storici nostri ed agli stranieri
un vasto campo di laboriose ricerche e di lunghi studi,
nel corso dei quali furono emesse tante opinioni così
diverse (i) da far diffidare poi della possibilità di giungere ad una
unica teoria (2).
(i) Rimandiamo per la rassegna di codeste opinioni e dei più autorevoli
storici meno recenti al lavoro di Pr. de Haulleville, His taire des communes lom-
bardes, Paris, 1859. Tra i recenti ricordiamo: A. Amati, // risorgimento del co-
mune di Milano, Milano, 1865 ; A. Pawinski, Zur Entstehungsgeschichte des Con-
suìatus in den Communen Nord und Mittel Italiens XI-XII Jahrh., Berlin, 1867;
F. ScHUPFER, La società milanese all'epoca del risorgimento del comune, in Ar-
chivio giurid. ital, 1870, fase. Ili al VI (anche a parte); Max Hadloike, Die
lombardischen Stàdie unter der Herrschajt der Bischòfe und die Entstehung der
Conmumn, Berlin, 1883 ; Paolucci, L'origine del comune di Milano e Roma, To-
rino, 1892; R. Davidsohn, Origine del consolato con speciale riguardo al contado di
Firenze-Fiesole, in Arch. stor. ital, 1892, p. 225; R. Bonfadiki, Origini del comune
di Milano, Milano, 1890 ; K. Neumayek, Die gemeinrechtliche Entwickelung des
internati onahn Privai und Stadtnchts his Bartolus Bd. I, Mùnchen, 1901; H. Pacl-
zow, Ueber die italienischen Stadirechte (Beitràge ^ur Bùcherkunde und Philologie
A. Wilmans), Leipzig, 1905 ; F. Gabotto, Le origini signorili del comune, To,
rino, 1903. Quanto ai comuni rurali vanno meriZicnati : E. Berta, Sull'origine
dei comuni turali, in Riv. ital. di sociologia, a. Ili, p. 749; A. Palmieri, Degli
antichi comuni rurali e di quelli deli' Apennino bolognese, Bologna, 1899. Giovano
a complemento di questa rassegna: S. Villanova, Saggio di bibliografia della
storia dei comuni italiani (%ivista di storia e filosofia del diritto), Palermo, 1900,
voi. II; E. Calvi, Tavole storiche dei comuni italiani, Roma, 1903.
(2) G. VcLPE, Una nuova teoria sulle origini dei comuni, m Arch. stor. itaL,
serie V, to. XXXIII, p. 350 sg. e la replica del Gabotto, ibid., to. XXXV, 1905,
P- 65 sg.
Arch. i>ior. Lomb., Anno XXXII, Fase. VI. it
230 EZIO RIBOLDI
Gli è che i documenti, i quali ci parlano direttamente della co-
stituzione dei comuni stessi (Brevi, statuti, ecc.) sono pochissimi (i),
e le narrazioni dei cronisti, per quanto degne di considerazione,
aumentano la confusione già così grande in tutta la storia di quella
età. Altro fonte sicuro non rimane se non queir ingente mole
diplomatica che pel sec. XII può attestarci indirettamente l'azione
politica, giudiziaria, amministrativa del consolato e del comune du-
rante la loro gloriosa e non breve esistenza. L'attività giudicante
di quella età ha lasciato le più numerose tracce nei nostri ar-
chivi; e per quanto non si presenti in forma di responsi di giu-
risprudenza, perchè priva quasi sempre di motivazioni, tuttavia,
anche nel suo lato negativo, conservando il fatto della causa le
deduzioni avversarie, la soluzione del giudice, ci offre i presup-
posti del nostro diritto statutario. Sono sentenze di giudici, messi
regi, consoli, arbitri, delegati papali, vescovi, abati, prevosti ; sono
allegazioni processuali, libelli, interrogatori di testi, mandati ; sono
atti di esecuzione o di giurisdizione volontaria. La raccolta di tanto
materiale richiederà certo ingegno e lena superiore alle forze indi-
viduali, ma sarà utilissima per lo studio del diritto municipale, in-
dispensabile per lo studio di quel corpo comunale che con tanto
spreco d'anatomia finora ci siamo affaccendati a ricostruire di se-
conda mano. Ma a tal lavoro nessuno ha finora pensato (2); sicché
della stessa Milano, che scrisse una pagina immortale della storia co-
munale, tre quarti degli atti consolari sono sconosciuti ancora ed i
pochi noti si considerano alla stessa stregua degli altri documenti.
A compilarne una prima raccolta ed a dare un primo saggio
di studio abbiamo pensato noi con la modestia di chi sa di por-
tare una pietra per la ricostruzione di un grande edifizio, e nel
riunire gli elementi del paziente esame^ abbiamo distinto codesto
materiale diplomatico così :
i.o Le sentenze ; 2.0 Gli atti d' indole politico-amministrativa;
3.® Gli atti diversi.
1^
(i) Unici quelli di Pisa e Genova. Cfr. Breve consuìum pisanae civitatis, 1164,
in BoNAiNi, Statuta civitatis Pisarum a saec. XII ad XIV, Firenze, 1852 ; Breve
del comune di Pisa, 1143, in Ciby^krio, Storia della monarchia di Savoia^ Torino,
1840, voi. I ; Statuta consulatus lanuensis in H. P. Ai., Leges municipales, 241 ;
Breve della campagna genovese, in Atti della Società Ligure, voi. I, p. 176.
(2) Tranne il comune di Alba, dove il podestà nel 121 5 ne ordinava un re-
gesto. Cfr. E. Milano, // regestum comunis Albe, Pinerolo, 1903.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 23 T
Le prime hanno certamente maggiore importanza per il loro
numero e per il contenuto, e si trovano in abbondanza nei mano-
scritti< milanesi del Sormanni, del Della Croce e del Bonomi ; qua
e là anche nell'Archivio di Stato e negli archivi minori (i) ; tut-
tavia la ricerca non si potrà mai dire esaurita perchè le carte,
specialmente del massimo archivio milanese, soffrirono tante e taU
trasposizioni dietro criteri così disparati, da richiedere lo spoglio
paziente di tutti i fondi, cosa per noi impossibile. Ci accontente-
remo quindi di esser riusciti a metterne insieme un buon numero
e di averle fatto oggetto d'uno studio speciale che presentiamo,
quale saggio di quei frutti che si possono cogliere da cotesta
nuova pianta (2). Qualche sentenza però venne già alla luce per
cura del Giulini ; molte furono da lui semplicemente citate ; poche
appaiono in altri scrittori, ma una buona metà è materiale ine-
splorato.
Gli atti d'indole politico-amministrativa non sono molti e vi-
dero quasi tutti la luce mercè il Muratori, il GiuUni, il Vignati.
Sono in maggioranza del periodo enobarbico e consistono in trat-
tati d'alleanze e di paci, conchiusi tra le città della lega a mezzo
o 'colla testimonianza diretta dei consoli milanesi. Siccome ci
siamo prefissi di segnalare e studiare le sole sentenze, così tra-
lasceremo questi, come gli ultimi atti di vario contenuto, i quali
per la maggior parte sono emanazione della competenza in ma-
teria volontaria del collegio consolare e non raggiungono un nu-
mero cospicuo, sebbene non sian tutti noti. Consistono in nomine
di curatori, omologazioni di contratti, assistenze a minorenni ed
anche, fuori di questo campo, in nomine d'arbitri, ordini a notai, ecc.
Abbiam stabilito come limite delle nostre ricerche Tanno 1216,
perchè la raccolta delle « consuetudini » che allora venne alla luce,
ha tale importanza da offuscare il valore dei documenti pari a
quelli da noi studiati, e perchè fu nostra intenzione di far cono-
scere in queste carte una delle più ricche e sicure fonti della
stessa raccolta ufficiale. Di più il periodo della vita del comune
in cui esso fu retto dai consoli si chiude precisamente verso la fine
(i) Per queste e per le seguenti citazioni rimandiamo alle note bibliogra-
fiche del Repertorio.
(2) Precedenti esempi non mancano. Cfr. Q. Santoli, / consoli a Pìsfoìn.
Pistoia, 1904.
232 EZIO RIBOLDI
del sec. XII e sugli inizi del XIII, sicché se i documenti posteriori
non sono trascurabili, hanno per noi minor valore e non si tro-
verebbero qui nella giusta sede.
Non abbiamo creduto opportuno di ripetere nel Repertorio
i nomi dei consoli, già noti, e nemmeno di palesare l'oggetto delle
controversie, sembrandoci più che sufficiente indicare a quale parte
del diritto esse si riferiscano ; ci parve invece utile ricordare il
sistema probatorio, così importante per la storia della procedura.
Nel compilare la serie dei consoli più volte siamo stati in pro-
cinto d* inchiudervi i nomi di quei personaggi che negli atti poli-
tico-a mministrativi appaiono spesso come testimoni o come rettori.
Essi infatti erano in buon numero de' consoli, sicché non sarebbe
ardi mento il conchiudere che tali fossero tutti. Ma, come vedremo,
anche molti personaggi che compaiono nelle sentenze in qualità di
giudici o causidici, dovevano essere consoli; eppur da noi non sono
indicati come tali; e parecchie carte, come bene osservò il Bo-
nomi (i), ci provano che l'ufficio di console non era sempre unito
a quello di rettore della lega (2).
Nel dar oggi in luce la nostra raccolta ci conforta il pensiero di
aver aperta la via e dato l'esempio, e la certezza di veder presto appa-
rir saggi migliori a vantaggio dell'intiera storia dei nostri comuni (3).
I.
Il consolato come tribunale.
Strano davvero potrà sembrare a chi scorra la storia dell'alto
medioevo l'apparente contrasto tra il diritto giudiziario e il preva-
lente diritto comune; l'esistenza cioè di un giudice unico (« comes w,
(f) E. BoNOMi, Exetnpla diplomatum S. M. Clarevallis, cod. ms. della Brai-
dense di Milano, sig. AE, XV, 32. p. 5.
(2) Ved. Giù LINI, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descri-
zione delia città e campagna di Milano^ Milano, Colombo, 1855, voi. Ili, p. 743,
che pone i rettori nel novero dei consoli.
(3) Nel corso del lavoro ci varremo delle sigle seguenti:
L. C. .• Liher Consuetudinum Mediolani anni MCCXVI nunc primum editus,
curante L. Blklan, Milano, Agnelli, 1866; H. P. M. : Monumenta Historiae Pa-
triae ediia iussu R. Caroli Alberti ; S.: Sentenza; a): fonte manoscritta; h): fonte
a stampa ; r) : citazione semplice.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 233
o « marchio w o « iudex » o « regis missus »), quando il diritto
germanico tiene il campo, ed il succedersi del giudizio collegiale
quando il 'diritto romano riprende il sopravvento. Già molti, av-
vertita tale circostanza, si sono affaccendati nella ricerca del carat-
tere del consolato per spiegare le origini di esso e dei comuni, le
quali, meglio che nei cronisti o nelle congetture messe fuori per
semplici analogie, si possono studiare tra le numerose sentenze e
in quegli elementi di diritto giudiziario che, presentandoci la fisio-
nomia del consolato come tribunale, verranno illuminandone tutta
la -Storia. Giacché nella mancanza di una distinzione di poteri e di
diritti, l'organo che noi studiamo quale collegio giudicante era nello
stesso tempo capo supremo della amministrazione comunale.
Nelle sentenze noi possiamo distinguere: il preambo lo, del
quale sono elementi costanti la data espressa nel solo mese e
giorno, r enunciazione dei giudici componenti il collegio e delle
parti in causa; il corpo col riassunto delle deduzioni, delle prove
e del giudicato del tribunale senza alcun motivo né di fatto né
di diritto; la chiusa, coli' indicazione dell'anno, coll'enumerazione
delle persone presenti al giudizio, le firme dei consoli, di qualche
giudice o messo regio e del notaio scrivente. Tutte quante prin
cipiano: « sentenfiam protulit »>, col nome di un console sen-
tenziante « una cum noticia » o « in concordia » oppure « con-
u scilio » o ancora « parabula et consensu » di colleghi nomi-
nati o sottintesi o assenti. Nel corpo, dopo la rassegna delle
deduzioni e delle prove, « bis et aliis multis auditis », lo stesso
primo console interroga le parti, deferisce il giuramento, valuta
le ragioni, solo qualche rara volta dichiarando il consiglio preso
dai colleghi o dai sapienti, ed enumera tassativamente in sin-
golare le prese decisioni e il deliberato nella causa. Esso poi
varia da sentenza a sentenza e talvolta appare anche come semplice
membro del collegio (i), oppure si trova nel preambolo e non nella
sottoscrizione della chiusa (2) ; ciò che diventa norma costante man
mano che ci avviciniamo alla fine del sec. XII, quando il primo
console è anche giudice unico, solo talvolta assistito da due col-
leghi menzionati appena nella sottoscrizione. Leggendo attenta-
ci) Cfr. vedi ad es. in S. Ili, IX, X, XL Citiamo costantemente per la
itenza il numero rispondente al Repertorio.
(2) S. II, IV, X, XIV, XXX.
234 EZIO RIBOLDI
mente codesti giudicati consolari, si avverte con facilità la prepon-
deranza di codesto primo console nel giudizio, anzi sempre più ci si
persuade che la menzione dei colleghi non fosse che una formalità
consuetudinaria, dipendente dal fatto di reputar virtualmente pre-
senti tutti i consoli ai giudizi. Perchè non è possibile supporre che
al pri mo console spettasse solo di stender la sentenza, dopoché,
come si disse, spettava a lui udire le parti, deferire il giuramento,
vagliare ed ammettere le prove. Ma una circostanza speciale gitta
una luce nuova sulla realtà di questo personaggio: egli è quasi
sempre, almeno per la prima metà del secolo, insieme messo regio
o giudice o causidico (i). Superfluo il* ricordare quanta e quale
fosse l'autorità dei giudici e dei messi regi (2), i quali erano rivestiti
dal sovrano d'autorità per amministrare la giustizia. Ciascuna città
aveva i propri giudici cittadini, in gran parte reclutati dalle mi-
gliori famiglie, e i messi regi si sceglievano per consuetudine
da quelli (3), tanto che nel mentre essi erano i legittimi e naturali
rappresentanti del potere sovrano e i luogotenenti dell'imperatore,
agli occhi dei cittadini potevano presentarsi più sotto la sembianza
del patriota e la loro giurisdizione pareva merce di casa propria. 11
console messo regio o giudice conciliava quindi il rispetto o la con-
tinuità del potere imperiale da una parte, e le giuste aspirazioni e
nuove tendenze dell'altra: il suo giudicato e il suo tribunale erano per-
fettamente secondo le leggi ; nulla creava di nuovo, nulla cancellava
dell'antico. Man mano però che ci avviciniamo alla fine del secolo
la funzione di primo console è assunta indifferentemente da tutti (4),
(i) Non lo sono quelli menzionati in S. IV, XIV, XXVI, XXIX.
(2) GiuLiNi, op. cit., voi. I, pp. 129, 221 sg. ; voi. Ili, p. 744; Muratori,
Antiq. M. Aevi, voi. II, p. 41 ; Haulleville, op. cit., voi. I, p. 265 ; Schupfer,
Storia del diritto italiano. Città di Castello, 1895, p. 164; Volpe, op. cit., in
Arch. stor. ital. cit., p. 375 sg.
(3) GiuLiNi, op. cit., voi. I, pp. 262, 276, 315 sg. ; voi. II, p. 615; Haul-
leville, op. cit., p. 300 sg. ; Leo, op. cit., voi. I, p. 180; Frisi, Memorie di
Mon:(a, Milano, 1784, voi. I, p. 59 sg.
(4) Il GiULiNi, op. cit, voi. VÌI, p. 330, non sappiamo perchè, pone l'a Un-
« garus de. Curte Ducis » (S. II) tra i cittadini, nel mentre la sua parentela
farebbe pensare ben diversamente. Qualcuno credette che « Curte Ducis » signi-
ficasse « della corte ducale » (cfr. Schupfef, op. cit., Arch. giurid. cit., 1870,
"• 3j P- 59) "la si ingannò, come bene disse il Paolucci, op. cit., p. 75. Di
questo personaggio, che appare presente nelle due S. I, Il e in parecchi lodi
(cfr. GiuLiNi, op. cit., voi. Ili, pp. 129-154) e della sua famiglia parlò minuta-
mente lo stesso Giulini ai passi citati
LE SENTENZE DEI CONSOLI DEI MILANO, ECC. 235
sicché parrebbe lecito asserire che essa non fosse regolata da cri-
teri fissi, bensì la potessero esercitare tutti i membri del collegio
consolare, per quanto la consuetudine desse preferenza a quelli già
insigniti delle cariche, emananti dalla suprema autorità imperiale, di
giudice, causidico o messo regio.
Nel preambolo della sentenza, come si è veduto, il primo con-
sole annunzia il suo accordo con colleghi spesso nominati, spesso
sottintesi, e spesso, ma non sempre, sottoscritti nella chiusa, talvolta
prima, talvolta dopo lo stesso primo console. Il loro numero varia
da sentenza a sentenza, e gradatamente diminuisce fin quando alla
fine del XII secolo nel preambolo compare un console unico e nella
chiusa due o più consoli sottoscritti, diversi dal primo (i). Non è
possibile mettere in relazione l'importanza della causa col numero
dei consoli; talvolta l'analogia sembra evidente (2), tal'altra non ap-
pare; e di frequente la stessa indeterminatezza si trova in un'unica
sentenza, dove il preambolo e la chiusa non corrispondono tra
loro (3). Ma nel corpo della sentenza i colleghi non appaiono
mai, ed è solo rarissimo il caso (4) che il primo console valuti le
prove assieme con uno o più di essi; sicché la loro funzione era
puramente passiva, diversa affatto da quella degli « auditores » o
giudici o u boni homines » dei placiti comitali e delle sentenze dei
messi regi, i quali erano parte essenziale del giudizio, perchè la
sentenza era sempre pronunziata in plurale e le prove erano va-
gliate in comune. Inoltre i consoli colleghi variano, come il primo
console, da sentenza a sentenza, di modo che, compilandone una
serie, sulla scorta anche degli altri atti, si vedono mutare annual-
mente o ripetersi più di frequente dopo l'intervallo di qualche anno.
I cronisti nostri affermano che il consolato era un collegio
annuale; e ciò é quasi luminosamente confermato dalla serie; ma
da chi e tra chi si sceglievano i consoli? In qual numero? For-
mavano un unico collegio od erano distinti a seconda della loro
funzione?
(i) Per la prima volta in S. LXXX.
(2) S. I, II, IX, XVIII, XIX, XXI.
(5) Ibid. II, IV, VI, XIII, XVII, XIX, XXVI. Ved. anche Leo, op. cit.,
voi. I, p. 175, sg., sostiene che il numero dei consoli era proporzionato all'im-
portanza del convenuto.
(4) S. XI, XXXI, LXXX.
326 EZIO RI80LDI
Studiando la serie noi avvertiamo i fatti seguenti:
i.° Anche pei consoli colleghi si ripete il fatto, costante pei
primi cinquant'anni, dell' unione dalla carica consolare a quella di
messo regio, di giudice, di causidico, con prevalenza dei giudici
sui messi regi. E notate ancora che nelle sentenze spesso com-
paiono sottoscritti giudici e messi regi senza dichiarazione di essere
consoli, per quanto o appaiano nel preambolo come tali, oppure
in atti dello stesso torno di tempo si professino rivestiti d'autorità
consolare (i); segno quindi che non era sacramentale la qualifica
di « consules ". A fianco poi dei consoli giudici o messi regi, tro-
viamo colleghi spogli di tale autorità, e il loro numero aumenta
man mano che ci avviciniamo alla fine del secolo.
2.° Una parte dei consoli è reclutata da casate che si rin-
vengono neir elenco delle famiglie nobili milanesi sia di capitani,
sia di valvassori (2); non pochi hanno per cognome una denomi-
nazione sarcastica, bufia, anche triviale, e compaiono precisamente
tra le famiglie cittadine (3), sicché dovrebbesi conchiudere che i
consoli si scegliessero dalle tre classi cittadine dei capitani, dei
valvassori, dei « cives » ; ciò che luminosamente è provato dalla sen-
tenza del II 30 (4).
3.° La quasi totalità delle sentenze denomina i membri del
tribunale come semplici « consules » ma verso la metà del sec. XII
incominciano ad apparire « consules causarum vel iusfitie ([156) »,
i « consules comunis seu comunitatis w (1156, 11 70, ecc.), e solo
rare volte e quasi di furtivo negli ultimi anni del secolo qualche
« consul reipublicae » (1182-1184). Contemporaneamente compaiono
i « consules negotiatorum » (1159), poi i « consules credenti ae
« S. Ambrosii " (1199); e anche talvolta i consoli dei Capitani e
(i) S. Vili, IX, X, XI, XII, XIII, XVII, Xv^III, Qcc.
(2) Flamma, Cronicon Maius, in Misceli, stor. ital, VII, p. 370 sg. ; Cre-
SCENZi, Anfiteatro romano, Roma, 1649, voi. I, p. 63 ; Giulixi, op. cit., voi. IV,
pp. 104 e 644.
(3) GiULiNL, op. cit., vol."I; pp. 315, 355; G. Rosa, Feudi e comuni, Bre-
scia, 1876, p. 79 sg.
(4) Flamma, Manipulus Florum, in R. L S., voi. XI, p. 223; Otto Frisino,
De Gestis Frider, voi. II, p. 15 ;Guntherus, De Gestis Frid. (Reqber, Vet. Script»^
rer. germ., 1584, lib. II, p. 305); Mjratori, Antiq. Med. Aevi, voi. IV, p. 484 ;
Leo, op. cit., voi. I, p. 176 sg. ; Haulleville, op. cit., voi. I, p. 424.
I
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 237
Valvassori, i consoli della Motta, i consoli dei Capitani e Valvassori
del Seprio e della Martesana (1225) (i).
4.° Il numero dei consoli non è mai costante : ha un maximum
di 21 e un minimum di 3; la media annuale è di 12, e proporzio-
nale appare la presenza di individui appartenenti alle diverse parti
cittadine.
Si può conchiudere dunque che il tribunale consolare era un col-
legio elettivo di carattere politico, composto di elementi tratti dai di-
versi ordini cittadini, ma diretto preponderantemente da messi regi e
dai giudici. Era il naturale frutto delle lotte intestine, ma non dovette
essere sanzionato da voti o da costituzioni, bensì confusamente creato
dalla consuetudine, preoccupata di salvare la secolare legalità e le
nuove esigenze, incerto quindi nella funzione, nel numero dei compo-
nenti e fors'anche della designazione del mandato. Tale carattere di
^ incertezza, che si trova in tutti il diritto consuetudinario (2), appa-
ia rirebbe dal fatto che in origine il nome di console viene a desi-
gnare quei giudici cittadini in cui si concentrava già il potere ; e
forse nome e mandato erano precari, indeterminati nel tempo e
nell'entità. Una trasformazione avvenne in forza delle lotte interne
e per la infiltrazione dell'elemento cittadino che, spoglio di ogni
altro titolo, avrà lentamente assodata la carica consolare, aumen-
tandone la durata, dichiarandone il valore fino a stabilirne defi-
nitivamente la fisionomia (3).
Anche la distinzione tra i « consules iustitie » e « comunis »
in origine non esisteva, perchè spesso gli uni e gli altri appaiono
promiscuamente in casi non giustificati da veruna ragione plausibile.
Così una controversia tra il comune di Milano e certa Biriana (4) è
trattata presso i consoli del comune, senza dar luogo a ricusazioni
o da parte del giudice o della convenuta. Chi volesse spiegare
l'intervento dei consoli del comune dalla materia d'indole ammi-
(i) T. Calchi, Historia Mediai^ voi. I, ix, in Graevius, Thes. Antiq. Rom.,
Londra, 1704, voi. I, pp. 2, 187 ; Corio, Historia di Milano, Venezia, 1554, p. Sy;
GiULiNi, op. cit., voi. VI, p. 289 sg., e passim negli altri storici milanesi.
(2) A. LaTtes, Il diritto consuetudinario delle città lombarde, Milano, 1889, p. 64.
(3) GiULiNi, op. cit., voi. IH, p. 553. Il fatto fu affermato anche dal Caf-
faro negli Annali pel consolato di Genova, e il Giulini lo credette giustamente
applicabile anche al consolato milanese.
(4) S. XXXI.
I
238 EZIO RIBOLDI
»
nistrativa, non saprebbe poi come giustificare V intervento dei sem-
plici « consules » nella lunga controversia amministrativa tra i
comuni di Chiavenna e Piuro presso il foro milanese (i). Né in
tali consoli appare la qualifica di giudici, come non si trova in
queir Ottone Zendadario, che nel 1 182 e nel 1 184, essendo con-
sole della repubblica, pone la firma a due sentenze (2). Di più av-
vertasi che il L. C, parlando della giurisdizione consolare, dice che
la competenza criminale spetta o al potestà o al console della
repubblica, « licet consules iustitie ex ordine illam potestatem ha-
« beant » (3); sicché virtualmente il collegio consolare era tribunale
e in un capo supremo dello stato e solo per facilità di lavoro nei
primordi alcuni consoli attendevano alle cause, altri al comune, senza
che fosse irregolare la partecipazione di questi agli uffici di quelli
e viceversa (4); più tardi e per abitudine la divisione divenne netta
e sanzionata dagli statuti.
Anche i due nomi di comune e di repubblica non devono as-
sumersi come termini omotetici, per quanto ^'autorità del Muratori
sembri confortarne 1' eguaglianza che alla fine del XII secolo po-
teva sussistere. Ma prima né il comune era tutta la città né i suoi
consoli trattavano gli affari di tutti: non era né il municipio né la
« respublica « dei romani, bensì « universitas civium » (5), come
ben disse il Muratori ; una gran parte ma non tutta la cittadi-
nanza; aveva insomma un significato meno comprensivo della
« repubblica ». E di ciò è sicura prova l'esistenza del collegio
mercantile, il quale viene spesso a patti, a leghe, a convenzioni
col comune, e la creazione del potestà verso la fine del sec. XII.
Ad essa si arrivò solo per la strapotenza ognor più crescente
dei consoli del comune i quali, trasformatisi appunto in consoli
della repubblica, si credettero arbitri dei destini di tutta la città, a
scapito dell'indipendenza mercantile (6). La credenza di S. Am-
(1) S. XX, XXIII, XXV; GiuLiNi, op. cit., voi. Ili, p. 412; Crolla-
LANZA, Storia di Chiavenna, Chiavenna, 1901, p. 27.
(2) S. XLIX, LI, e GiuuNi, op. cit., voi. Ili, p. 5.
(3) L. C r. VI, p. 16; Lattes, op. cit., p. 84.
(4) I consoli di giustizia appaiono insieme ai consoli del comune in atti po-
litico-amministrativi. Cfr. Rovelli, Storia di Como, voi. II, p. 364.
(5) Muratori, Antiq, Med. Aevi, voi. I, p. 981.
(6) ScHUPFER, op. e loc. cit., nota 3, p. 40 sg. ; Paolucci, op. cit., p. 45 sgg.;
Lattes, op. cit., p. 166 sg. ; Volpe, op. cit., p. 375 sg.
I
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 239
brogio (i), apparsa per la prima volta con propri consoli nel 1199,
è Tultimo e più convincente indizio della verità di quanto abbiamo
affermato.
Nella chiusa delle sentenze si trovano menzionate molte per-
sone presenti al giudizio, senza che la qualità della causa eser-
citi una evidente influenza sul maggiore o minor numero di essi.
Sono in gran parte nobili, persone consolari, giudici, non sempre
milanesi, ma spesso appartenenti a quelle città di cui qualche cit-
tadino appare come parte in causa. Qual'è 1' ufficio che a tale con-
sesso spettava nello svolgimento del giudizio?
Quattro sentenze chiamano codeste persone presenti sempli-
cemente come « testes » (2); le altre non attribuiscono loro alcuna
qualità. Ma come dobbiamo intendere quella parola di « testes? »
Testi in causa o testi dell'operato dei consoli? Alla prima do-
manda pare si debba rispondere negativamente, giacché là dove
le parti citano testimoni, la sentenza o ne riferisce i nomi e le
deposizioni, oppure accenna genericamente alla prova per testi.
Ma in moltissime cause dove tale prova non si esperisce o dove
i testi sono nominati, i personaggi appaiono presenti e ben di-
stinti, o nello stesso anno il medesimo personaggio appare in
più sentenze e più tardi nel collegio consolare. Eccoci quindi
portati a credere che costoro fossero testimoni dell'operato dei
consoli, cioè un vero consiglio del consolato, ciò che appare
anche dal testo di certe sentenze, dove per questioni di notevole
importanza i consoli chiedono parere a personaggi sapienti e dal
vederli menzionati anche in atti di giurisdizione volontaria o di
semplice amministrazione (3). Siamo dunque di fronte a un corpp
consulente composto di personalità di provata scienza , perso-
nalità che si incontrano come « consules », come « testes »,
u come boni homines » , tre corpi distinti di attribuzioni ma
quasi unici di personalità. Il Giulini credette ravvisare in questo
corpo consulente il primo nucleo del Consiglio di Credenza (4) e
forse mal non si appose, come attesterebbe una carta inedita
(i) I. Ghiron, La credenza di S. Ambrogio, ecc., in quGSt'' Archivio, serie I,
a. Ili, p. 583, e a. IV, p. 70.
(2) S. Ili, XXIX, XLVII.
(3) Giulini, op. cit., voi. VII, p. 142; voi. IV, pp. 43 e 63.
(4) Ibid,, voi. Ili, pp. 417 e 458.
240 EZIO RIBOLDI
del 1188 (i), nella quale è detto che quattro consoli milanesi pa-
gano per conto del comune all' abate di S. Ambrogio, pel prezzo
di un mulino, tre libre di terzioli, « habito conscilio credentie » :
tale consiglio era dato dalle persone che si trovano menzio-
nate poi.
Oltre cotesti personaggi insigni, la chiusa delle sentenze enu-
mera uno o parecchi servi, i quali dovevano compiere le funzioni
di ufficiale giudiziario, per quanto fossero in pari tempo messi
comunali e si trovino per ciò presenti ad atti di semplice ammi-
nistrazione ; e termina con le sottoscrizioni dei consoli e di uno o
più giudici o notai scriventi « admonitione istorum consulum ». Il
L, C. parla di « tabelliones qui ad pedes consulum sedent » (2) e
di « scriptores sedentes in banchis » (3), e un documento del 1213 (4)
di « scriba et ufficialis consulum iustitie Mediolani prò faciendis
u sententiis et aliis pubblicis scripturis ». Questo documento ci fa
inoltre sapere come fosse imperfetta la cancelleria di quei tempi,
in quanto attesta che nessuna memoria delle sentenze era con-
servata presso il tribunale, giacché lo stesso scriba è invitato a
testificare l'autenticità della sentenza prodotta come documento in
causa e scritta, come da dichiarazione fatta in calce, tutta di
suo pugno. Noi dovremmo conchiudere che i « tabelliones », gli
« scriptores », gli « scribae » altro non fossero che giudici o
notai, i quali appunto in tutte le sentenze dichiarano di aver scritto
per comando del primo console.
Il preambolo delle sentenze nostre e degli atti ci offre buoni
elementi per stabilire la sede del tribunale consolare, che doveva
consuetudinariamente esser fissa. Esisteva infatti a Milano un pa-
lazzo speciale chiamato « consolato », dove i consoli amministravano
la giustizia e pronunziavano le sentenze. Trovavasi nel broletto
vecchio, e senza essere un gran palazzo, era una « domus » o casa
notevole a quei tempi; aveva un proprio brolo e metteva nella
via pubblica, precisamente di fronte alla porta del palazzo arcive-
(i) Arch. di Stato di Milano^ Corp, Relig., perg. Mon. S. Amhr.
(2) L. a, t. Ili, p. 9 h.
(3) Ibid., p. IO b.
(4) S. L ; Beklan, Le due edi:(ioni milanese e torinese del L. C. M., Ve-
nezia, 1892, p. 178 sg.
LE SENTENZE DEI» CONSOLI DI MILANO, ECC. 24!
scovile nel centro della città (i). Le sentenze genericamente sono
date « in consulatu », o in « broileto » oppure, a grande maggio-
ranza, « in broileto consularie » o semplicemente « in ci vitate » (2).
Ciò mi conduce a credere che le sentenze definitive venissero
pronunziate o pubblicate nel brolo del palazzo consolare, mentre
che gli atti di istruttoria si tenevano in appositi locali, come ap-
pare da una sentenza interlocutoria, datata dal « solario consula-
« rie » (3), cioè in una stanza del piano superiore, dove forse era
in corso il procedimento.
Inoltre « in camera consulum iustitie » (4), cioè in una sala
che serviva di tesoreria (5), noi troviamo i consoli trattare e discu-
tere sulla esecuzione di parecchie sentenze già emanate e « in
« casella » (6), o stanza del consolato, provvedere al disbrigo di
affari di giurisdizione volontaria. Il palazzo aveva dunque un piano
superiore, parecchie camere, una usata come tesoreria (crederei
segreteria), una come sala di riunione, e doveva nello stesso tempo
esser palazzo del comune, come si dedurrebbe da un atto di giu-
risdizione volontaria in cui è detto: « in camera consulum iustitie »,
alludendosi così ad altra « camera consulum comunis w e da un
atto di pura e semplice amministrazione compiuto « in solario con-
« sulatus » (7), e da altro atto dei consoli del comune fatto « in
u broileto consularie » (8).
(5) GiULiNi, op. cit., voi. I, p. 146; voi. II, p. 112; voi. Ili, pp. 550, 381.
Era perciò poco lontano da S. Maria Iemale, l'antico Duomo. Ecco così spiegata
la data del documento a. 1097, in cui si dice : « in civitate mediolani in consu-
« latu civium prope ecclesiam sancte marie ». (Cfr. Rend. deìVIst. Lomh. di
scten. e kit., serie II, voi. XV, p. 435). Il Paolucci, op. cit., pp. 47-48, com-
battendo la lezione a consulatus », si domanda appunto dove mai fosse situata
la chiesa di S. Maria, e noi, rispondendo alla domanda sua, gli segnaliamo qui
che nella stessa chiesa furono pronunziate sentenze arbitrali e trattati affari im-
portanti della città nostra. Cfr. quest''ArchiviOj XXXII, 1905, ni, p. 48, nota 2.
(2) Vedansi le date delle singole carte nel Repertorio citato.
(3) S. XVIII.
(4) Ibid. LXXXI e CVII ; Bonomi, ms. cit., voi. II, p. 854; Porro, Liher
consuet. med.^ Torino, 1869, p. 181.
(5) GiULiNi, op. cit,, voi. 1, p. 586; Du Canoe, Glossariutn med. et inf.
ìatinitatis, ad v.
(6) S. XXXVI, XLVI; Giulini, op. cit, voi. Ili, p. 3; voi. IV, p. 43.
(7) Carta in Arch. di Stato di Milano, Moti. S. Ambrogio.
(8) Giulini, op. cit, voi. VII, p. 122; Rovelli, op. cit.. voi. II, p. 364.
242 EZIO RIBOLDI
Del tribunale milanese per tutto il sec. XII possiamo dunque
rendere la fisionomia in questo modo: aveva la sua sede nel pa-
lazzo comunale o broletto vecchio, dove, in apposite sale ed a
giorni determinati, stavano i consoli per sbrigar gli affari. Le parti
presentavansi al banco di uno dei consoli; e questi istruiva la causa,
dava le sentenze come primo console, annunziando l'accordo cogli
altri colleghi, cui in affari importanti chiedeva anche consiglio. As-
sistevano parecchi personaggi come testimoni dell'operato conso-
^ lare ; dei servi, un giudice o notaio per la scrittura, la firma o l'au-
tenticazione degli atti, dei quali ordinariamente redigevasi solo
l'originale, ed, a richiesta delle parti, anche copia che veniva con-
segnata, assieme all'originale, all'interessato, senza verun deposito
nella cancelleria o segreteria consolare (i). Tali norme incerte e
confuse vengono solo regolate negli statuti del 121 1 ricordati dal
Corio (2) e nella pace perpetua firmatasi nel 1215, auspice il potestà
Vialta, nella quale si determina (3) il numero, la durata in carica,
la forma d'elezione e le mansioni dei consoli di giustizia.
Sostanzialmente adunque questo tribunale nulla mutava alla
costituzione del tribunale dei marchesi, conti, messi regi, giudici,
nelle cui sentenze (4) compaiono sempre:
i.o Primo giudice (« comes », « index », « missus regis ») ;
2.° Colleghi assistenti (chiamati « auditores »);
3.0 Personaggi presenti e servi;
4.0 Firme di giudici o notai; colla stessa incertezza nel nu-
mero, nelle sottoscrizioni, nelle rispondenze tra il preambolo e la
chiusa. Sono quindi i consoli colleghi che prendono il posto degli
« auditores », i quali però dovevano pur sempre essere le solite
personalità cittadine, da cui, come dicemmo, si sceglievano i giudici,
i u boni homines » i consoli. L'unica importante differenza sta nel-
l'evidente ritorno al giudice unico, perchè l'azione del tribunale
comitale o del messo regio si svolge sempre in plurale e l'istrut-
toria e il giudicato emanano sempre dagli « auditores » (5). Con-
(i) Beklan, Le due edizioni cit., p. 178 ; S. XXI, L.
(2) T. Calco, op. cit., P- 81; Corio, op. cit,, all'anno.
(3) GiULiMi, op. cit., voi. IV, p. 223 sg.; Porro, op. cit,, p. 181.
(4) Di queste non molte si possono vedere nei cartulari; cfr. Giulimi, op. cit.,
voi. VII, p. 60 sg. ; H. P. M., Scriptores, voi. I e II passim.
($) Vi si dice sempre: « paruit supradictis audito ribus », e di seguito: « iu-
« dicaverunt » ; cfr. Giulini, op. e loc. cit.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 243
Statiamo adunque l'influenza del rinnovato studio del diritto romano
anche nel diritto giudiziario e la rispondenza perfetta fra di esso
e il diritto comune non solo in questa età, ma anche precedente-
mente quando l'apparenza farebbe credere alla esistenza di un
giudice unico, nel mentre il tribunale comitale o del messo regio
era essenzialmente collegiale.
II.
Competenza del tribunale consolare.
Se il tribunale consolare nelle origini era un organo giudiziario
confuso nella sua costituzione, dobbiamo di conseguenza presup-
porre che altrettanto dovesse essere nelle sue funzioni. Riguardo
alle norme di competenza in base agli atti faremo più delle con-
statazioni di fatto che induzione a principi o a regole fisse, e in
genere ^/erremo confermando come consuetudine anche pei secoli
precedenti quanto il Lattes studiò nella disamina del L. C. (i).
La raccolta nostra ci dà esempi di atti di giurisdizione volontaria
e di giurisdizione contenziosa, astrazion fatta da quanti documenti
attestano l'ingerenza del collegio consolare in affari amministrativi e
politici, conseguenza della mancanza di una distinzione netta tra i
consoli del comune e quelli di giustizia. Troviamo infatti alcune
nomine di tutori o di curatori (2), omologazioni di contratti di mi-
norenni e di tutori (3), aggiudicati di proprietà legittime (4), assi-
stenze alle donne e autorizzazione, insieme al marito, al compi-
mento di atti civili (5), assistenze a contratti (6), pei quali però la
presenza o la registrazione dei giudici non doveva essere a pena
di nullità, ma per maggior solennità ed efficacia (7). V'è sempre
(i) Lattes, op. cit., p. 27.
(2) S. XCII; GiULiNi, op. cit., voi. IV, p. 43!
(5) Porro, op. cit., pp. 62 e 63 ; Bonomi, ms. cit, voi. IH, p. 413.
(4) GiULiNi, op. citt., voi. IV, pp. 63 e 128; BoNOMr, ms. cit., voi. II, p. 854.
($) Bonomi, ms. cit., voi. Ili, p. 413.
(6) GiuLiNi, op. cit., voi. Ili, p. 3.
(7) T. Guzzi, Le obbligao^ioni nel diritto milanese antico^ Torino, 1903,
127 sg.
2^4 EZIO RIBOLDI
un primo console, la dichiarazione della sua concordia coi colleghi,
i personaggi presenti, i giudici, i notai; e le stesse indeterminatezze
delle sentenze, le quali alla lor volta, nel testimoniarci la svariata
attività giudicatrice del consolato, ci sono guida a conoscere la sua
competenza per materia, valore, grado e connessione di causa.
Nessun atto però, nessuna sentenza ci parla di giurisdizione pe-
nale, ma tale silenzio non è sufficiente per escluderla dal collegio
consolare. Poiché il L. C. ci fa sicura testimonianza in contrario,
dove ad esempio dice che il reo deve tenersi « sub fida custodia
« tam diu donec consulis arbitrio idoneam satisfactionem praesti-
« terit » (i); e che le cause penali non si trattano da altri, « quam
u potestatem si affuerit, vel per consules reipublice, licet consules
u iustitie ex ordine illam potestatem habeant » {2). Di più della
nessuna traccia a noi rimasta di giurisdizione criminale ci è data
spiegazione da altro passo, in cui è detto che le sentenze criminali
non venivano mai scritte (3), e le civili solo quando trattavano
cause superiori in valore a cinquanta soldi (4). Tale consuetudine
doveva essere antica, giacché nei cartulari nostri non vi é.che po-
chissimi vestigi di simile materia e se ve n' ha qualcuno non si
riferisce né ai consoli né all'età da noi studiata, neppure pel caso
di occupazione violenta di possesso, a spiegazione della notevole
questione sollevata dal L. C. (5). Veramente noi ne troviamo un
curiosissimo esempio nella lunga controversia tra le città di Pavia
e Vercelli per lo spoglio violento da questa subito del castello di
Rebbio (6). Ma avvertasi qui piuttosto un caso specialissimo di di-
ritto internazionale, perché la causa si dibatte tra due comuni per
un fatto avvenuto in seguito a conquista a mano armata; al pos-
sesso é inerente sovranità e la causa é delegata al comune di Milano
più probabilmente in forza di compromesso che di giurisdizione
ordinaria. Però anche in questo caso eccezionale la -causa assume
tutta la forma civile nella procedura e nel diritto, ciò che non
esclude la possibilità di azione penale, come si trova più tardi, per
(i) L. a, t. VI, p. 16 b.
(2) Ibid., p. 16 d.
(3) Ibid., p. 16 e.
(4) Ibid., t. Iir, p. 12 d.
(5) Ibid., t. VI, p. 16 a; Lattes, op. cit., p. 140 sg.
(6) H. P. M, Chartarum, voi. I, p. 1079 sgg.; S. LXXXII, LXXXIII, XC.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 245
I quanto qui non se ne rinvenga traccia alcuna. Solo dopo il 1385,
jj quando il potestà fu obbligato a passar copia delle sue sentenze
al sindaco del comune, si die* mano ad una raccolta di sentenze
criminali (i), ma siamo troppo lontani dall'età nostra e le tracce
diventano sempre più insignificanti.
In materia civile l'attività dei consoli si dimostra invece assai
assidua ed appaiono come di competenza del loro tribunale azioni
patrimoniali, sia personali che reali, azioni di stato, azioni miste.
Numerose sono le cause di locazioni, di medietà, di danni, di ob-
bligazioni, di fideiussioni, ma prevalgono assai le sentenze in ma-
teria possessoria; tra esse vari gruppi che bastano a ricostruire
intieramente cause interessanti. Uno riguarda la disputa di pos-
sessi tra l'arciprete di S. Maria del Monte in Varese ed i comu-
nisti di Velate: incomincia nel 1145 e prosegue fino al 1153 sotto
i consoli di Milano, poi dal 1162 al 1165 sotto quelli di Seprio, e
più tardi in Milano dal 1201 al 1204. Un altro riguarda liti per
diritti d'acqua tra un cittadino milanese e il capitolo di S. Ambrogio
(1187-1189) e l'ultimo altra lite lunghissima per gli stessi motivi
tra Giacomo Pelucco e l'arciprete di Monza (1204-1206).
Della competenza consolare in materia feudale e signorile ci
danno pure testimonianza. buon numero di sentenze nelle quali si
vedono risolte questioni di giurisdizione, distrettabilità, sudditanza,
fodri, prestazioni in opere e in denaro, alloggi, albergarla, seguiti,
rendimenti di onori ; questioni reali, come si vede, e questioni di
stato. Notiamo però che, quando discutevasi di privilegi emanati
dall' impero, prudentemente i consoli rimettevano la causa al tri-
bunale imperiale, senza però dichiararsi incompetenti (2). E qualche
testimonianza troviamo pure della competenza in materia di di-
ritto pubblico amministrativo, non solo in questioni sollevate da
privati per loro interessi riflessi, ma ben anche in questioni di puro
diritto, come nella citata controversia tra Piuro e Chiavenna.
Più difficile invece ci riesce lo stabilire, sulla scorta delle sen-
I tenze, se mai vi fosse un limite nella competenza per valore. Ripe-
tiamo intanto che le sentenze in cause di valore inferiore a cinquanta
soldi non venivano scritte, per quanto ve ne sia taluna nelle nostre
(i) E. Verga, Le sentenie crìminaìi dei podestà milanesi, Milano, 1901
(2) S. IV.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXII, Fase. VI. 16
d46 EZIO RIBOLDI
che verta intorno a liti per 36 soldi e per poche libre (i). Solo negli
statuti del 121 1 menzionati dal Calco fu stabilito che i consoli delle
ville giudicassero in cause di valore inferiore a venti soldi; segno
evidentissimo che queUi di Milano erano competenti per qualsiasi
valore, tranne nei soli paesi di campagna. Indeterminata ancora ci
riesce la competenza per connessione di causa, giacché si trovano
unite azioni principali e secondarie, azioni di riconvenzione e di
compensazione, più azioni principali talvolta diversissime e solo
avvicinate dalla identità della persona.
Studiando poi la competenza per territorio devesi premettere
che il fatto di veder trattate questioni di beni immobili posti in de-
terminati paesi, non ci autorizza a concludere che fin là giungesse
la giurisdizione del nostro tribunale, perchè spesso le parti erano
entrambe cittadine o era tale l'attrice, e in tali casi consuetudini e
statuti non accennano alFobbligo di adire il tribunale nella cui giu-
risdizione risiedeva l' immobile. Ciò non ostante appare indubbio
che la competenza del tribunale consolare si estendesse a tutto il
territorio del contado di Milano, a paesi della Bazana e della Mar-
tesana (2), ai contadi di Seprio (3), di Lecco (4) e di Stazzona (5) .
Altre cause per azioni di immobili posti nel lodigiano e tra conten-
denti lodigiani sono trattate dai nostri consoli (6); qualcuna simile
per Como (7), una per Pavia (i 151), nella quale però il convenuto
solleva eccezione di incompetenza, volendo riferire la causa al tri-
bunale pavese, ciò che non gli fu concesso. Avvertiamo però che
i paesi del contado milanese avevano propri consoli, più tardi
anche il potestà, e che dall'esame di qualche sentenza di codesti
tribunali foresi risulta che la loro competenza non aveva limiti di
materia e di valore. Parrebbe che gli abitanti della campagna, dei
borghi, delle città dipendenti potessero scegliere tra il foro loro
proprio e il milanese. Infatti tra il comune di Velate e l'arciprete
di S. Maria del Monte durò, come si disse, a lungo una lite per
(i) S. XXXIV.
(2) Ibid. II, XVII, XXVII, XXXII, ecc.
(3) Ibid. IV, V, Vili, e molte altre.
(4) Ibid. XLV.
(5) Ibid. LIV.
(6) Ibid. XX, XXIII, XXV.
(7) Ibid. XI, XIV, XIX, XXVIII.
I
I
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 247
possessi comuni, divisioni, diritti di pascolo e di legna in parec-
chie località del contado sepriese. La prima fase si svolse al tri-
bunale milanese (io gennaio 1153) e fu favorevole ai velatesi; la
seconda (13 aprile 1162) e la terza (20 maggio 1165) al tribunale
di Seprio ; l'ultima presso i consoli di Velate e ancora di Milano.
Possiamo poi ammettere tale principio per la nostra città, visto che
si trova regolato presso città vicine e precisamente in un trattato
del giugno 1167 tra i comuni di Mandello e di Como, col quale si
stabilisce che gli abitanti di Mandello saranno quindi innanzi trat-
tati come comaschi e che per la giustizia potranno rivolgersi ai
consoli di Como, sia direttamente che in grado di appello (i). Tale
fatto ha per noi grande importanza perchè ci illumina nel risolvere
la questione della competenza in secondo grado del consolato no-
stro. Non possediamo che un'unica sentenza nella quale si parla
di appello presso consoli milanesi contro una sentenza pronun-
ciata dal potestà e ne abbiamo molte invece nelle quali apparen-
temente il tribunale funziona come giudice di secondo grado ; in
realtà opera in forza della sua ordinaria giurisdizione. Ma nel
primo caso tale facoltà è delegata e concessa quasi per privilegio
dai rettori della lega (2), e nei secondi il tribunale si pronuncia
intorno a cause già altrove risolte, instituendo un nuovo giudizio
indipendentemente dal primo e nel quale le decisioni di questo
rimangono semplici prove documentali delle quali il giudice tien
quel conto che crede o ritrae presunzioni di diritto (3).
Noi non troviamo perciò regolata a Milano per tutto il XII se-
colo la competenza di appello come a Pavia e in altre città lom-
barde (4), in conseguenza forse di quello stesso principio per cui
la causa poteva liberamente trattarsi presso parecchi fori; la parte
che rimaneva insoddisfatta dall'uno credevasi in diritto di rivol-
gersi all'altro, prima o poi a seconda delle circostanze, dando
(i) Rovelli, op. eh., voi. II, p. 350.
(2) S. XLVII. Vi è detto : c< Girardus iudex atque consul raediolani qui
« dicor Pistus cognoscens de appellatione super sententia lata a Girardo iudice
« qui dicitur de Baniole assessore potestatis Laude ».
(5) Cfr. le sentenze citate per la controversia tra Piuro e Chiavenna e per
quella tra i comuni di Velate e l'arciprete di S. Maria del Monte. Vedi anche
S. II ; e Periodico Soc. Stor. Comense, voi. VI, p. 273 sg.
(4) LaTTES, op. Cit., p. UT sg.
248 EZIO RIBOLDI
spesso esempio di cause già risolte dal tribunale cittadino e trat-
tate poi in un tribunale forese (i), quasi che questo avesse giuri-
sdizione di secondo grado contro le sentenze di quello. E lo stesso
principio ci spiega come potesse darsi il caso di appellare dalle
sentenze dei consoli nostri presso tribunali di ecclesiastici o di si-
gnori e viceversa, per quanto i signori in molti statuti vietino ai
loro sudditi di chieder giustizia ad altri signori o consoli (2). E
una carta del 1183 ce ne dà manifesta prova; vi si legge infatti:
u Ego lacob qui dicor Coallia notarius sacri palati dieta istorum
« testium quos abbadissa monasterii maioris produxit super causa
« quam habebat cum Suzone de Canturio sub consulibus medio-
u lani et qua causa translata est ad dominum Obertum archipre-
u sbiterum modoecensis ecclesie per appellationem » (3).
Questi esempi e la circostanza di trovar talvolta delle parti
le quali si obbligano a non appellare da una sentenza qualunque,
ci fanno conchiudere che precisamente la libertà di scelta fosse
regola comune, che l'appello non si intendesse come più tardi o
come nel nostro diritto, e che perciò il tribunale milanese si tro-
vasse, di fronte ai tribunali foresi, sullo stesso gradino nella scala
del diritto giudiziario, solo godendo forse di quella maggior re-
putazione od egemonia che la sua qualità ed i suoi membri gli
potevano far acquistare.
III.
Note di diritto e di procedura.
Superfluo e inutile sarebbe il ritornar sovr'un argomento così
sapientemente trattato e quasi esaurito da quel profondo conosci-
tore del diritto lombardo che è il Lattes, ricercando tra le sentenze
gli elementi di diritto consuetudinario milanese ; ma l'occasione ci
è propizia per dimostrare come il chiarissimo A. asserisse il vero
(i) Così dicasi per le note sentenze di Velate.
(2) Cfr. gli statuti di Cremella in Frisi, op. cit., voi. II, p. 48 ; Seregni,
Gli statuti dì Arosio e Bigoncio^ Torino, 1901, p. 59 e altrove.
(3) Arch. di Stato di Milano, Corp. Relig., perg. Moti. Magg. (carta anno
1183).
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 249
.quando scriveva : « che le raccolte autentiche non sono l'unica
« fonte delle consuetudini lombarde e che le usanze si devono
u ricercare anche nei documenti, sentenze e carte private » (i).
Perchè in verità noi abbiamo trovato nel nostro materiale alcuni
elementi di diritto e di procedura tralasciati dal L. C, specie pel
diritto pubblico amministrativo, di cui le radici, come ben disse lo
stesso autore, devono pur ricercarsi tra le consuetudini. Già nel
primo capitolo non ci mancò occasione per suffragare tale verità;
ma qui toccheremo qualche altro tratto anche per contribuire meno
mediatamente alla ricerca delle origini dei nostri comuni.
Nel campo del diritto rinveniamo un primo notevole accenno
alla capacità e alla rappresentanza in giudizio come attore o come
convenuto. In una sentenza del 9 novembre 1159 stanno di fronte
come attore due figli emancipati contro il proprio genitore. I giudici
sono commerciah, la causa civile, trattandosi di possesso di terre e di
diritti d'acqua, onde il carattere prevalentemente soggettivo del
diritto antico ci fa pensare che le parti fossero commercianti. Ne
seguirebbe una duplice deduzione : che l'emancipato non avea bi-
sogno di autorizzazione alcuna per essere commerciante ; che po-
teva stare in giudizio senza essere assistito dal curatore, nel mentre
ciò avviene per il minore, come appare da altra sentenza (2).
Numerosi esempi illustrano il concetto della rappresentanza,
sempre incerto nei limiti e nella forma. Il padre è rappresentato
dal figlio (3) ; molti convenuti da pochi, i quali talvolta danno
« guadiam »■ di comunicar la decisione ai mandanti, talvolta no (4).
Frequenti pure sono i casi di « procuratores », di « advocati », assi-
stenti o rappresentanti e giuranti per le parti, e un caso notevole
abbiamo di rappresentanti di mandatari, i quali alla lor volta de-
(i) Lattes, op. cit., p. 52. Ciò non fu avvertito dai precedenti scrittori di
diritto milanese. Cfr. Argellati, Bihlioth. Scrip, Med., Mediolani, 1745, voi. I,
coli. CCIX-CCXIV ; G. Verri, De oriu et progressu iuris Med. Prod., ecc., Me-
diolani, 1759, p. XVIII ; GiULiNi, op. cit., voi. IV, p. 224 sg. ; F. Rezzonico,
Origini e vicende del dir. mil. in Milano, Milano, 1846; Bérlan, Gli statuti
municip. milanesi^ Milano, 1868 ; F. Schupfer, Delle fonti del diritto a cui fu-
rono attinte le Cons. Milan., Milano, 1868.
(2) S. XCII ; GiULiNi, op. cit, voi. IV, p. 43 ; Porro, op. cit., p. 62 ; Bo-
NOMI, ms. cit, voi. Ili, p. 413.
(3) S. IV, XVII.
(4) Ibid. XXVII, XXXIX.
250 EZIO RIBOLDI
legano altri che « prò illis et prò se respondebant » (i). Per le
persone giuridiche religiose (chiese, conventi, canonicati) l'abate,
l'arciprete, il vescovo, spesso anche semplici membri, le rappre-
sentano legalmente, mentre difficile è il determinare a chi spettasse
o chi potesse rappresentare in giudizio il comune (2). In una in-
teressante sentenza del 21 maggio 11 70 già ricordata si vede con-
venuto in giudizio presso i consoli del comune di Milano da una
Biriana lo stesso comune, per la restituzione di possessi confiscati
ai figli di lei, i quali durante la guerra avevano fatto del danno alla
nostra città. Non è detto chi fossero i rappresentanti del comune,
ma si svolge l'azione come se virtualmente lo stesso fosse pre-
sente ; i consoli, naturali rappresentanti, costituiscono invece il tri-
bunale e giudicano contro la città. In altra sentenza noi troviamo
il comune di Seguria non rappresentato dai consoli, bensì da quattro
messi (11 76), mentre il comune di Velate è rappresentato dai suoi
consoli (1202). In questa causa anzi troviamo esempio di riassun-
zione di istanza, poiché nel preambolo della sentenza è detto che
la causa « fuit incepta » da altri individui, « qui tunc erant con-
« sules ipsius loci »>. 11 nome di comune però, come avvertimmo,
raramente fa capolino, bensì spesso troviamo detto « gli uomini
« del tal paese » in cause nelle quali veramente è coinvolto il co-
mune, come nella lunga controversia tra i comuni di Chiavenna e
Piuro, rappresentati da un console e parecchi vicini. Spesso poi il
comune è rappresentato dai soli consoli (3), o dai consoli con qualche
cittadino, sicché devesi credere che la naturale rappresentanza non
spettasse ai soli consoli, ma che altre persone, a seconda della co-
stituzione comunale, la assumessero e spesso semplici mandatari (4)
estranei all'amministrazione, distinguendo però sempre la propria
persona dal comune, quasi non ne fossero membri, colle parole :
« prò se et prò comune, ecc. w. Altra nota di diritto ricaviamo da
una sentenza del 24 maggio 11 77, nella quale il convenuto chiede,
prima di ogni altra difesa, di voler esser giudicato secondo la sua
legge (e non dice quale), non secondo la legge romana, e viene
assolto dal giudice che non ne espone però i motivi. E notevole
(i) S. XLVI.
(2) Lattes, op. cit., p. 69 sg.
(3) S. XXV.
s(4) Ibid. LXXXII e H. P. M, Chariarwn, p. 1079 sg.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 25I
questa eccezione per professione di legge personale, in un tempo
relativamente lontano da quello in cui tali professioni avevano una
vera efficacia giuridica (i). Notevole ancora una causa risolta con
sentenza del 25 ottobre 1207, nella quale un cittadino milanese
chiede al prevosto di S. Ambrogio la consegna di terre già ap^
partenenti ad un suo debitore pignoratizio. Il convenuto osserva
doversi in primo luogo esercitare l'azione contro il debitore prin-
cipale, i suoi fideiussori, i suoi eredi, e poiché l'attore asserisce
con giuramento di averli escussi e di aver loro posto il hanno,
fuor che agli eredi i quali avevano rinunziato alla eredità, così il
console condanna il convenuto a restituire tali terre.
Ben più importanti sono o appaiono a noi le note di diritto
pubblico qua e là raccolte, specie nella stessa controversia tra
Chiavenna e Piuro, dalla quale risulta che i due .paesi formavano
unico comune, avendo « in comune consularia w; che il consolato
era misto di chiavennati e piuriesi in proporzione dell'importanza
dei due paesi, un quarto cioè di piuriesi e tre quarti di chiaven-
nati; che il consiglio dei consoli trattava gli affari amministrativi
a maggioranza; che nelle spese comuni i piuriesi contribuivano per
un quarto, solo quando nel voto di maggioranza vi entrasse uno
dei piuriesi; infine che il comune doveva la sua costituzione ai
vicini, e che perciò il vicinatico qui come altrove fu la base della
origine comunale (2). Come si vede un'intiera costituzione comu-
nale è illustrata e ne è illustrata l'origine, diversa dalla milanese,
diversa dal comune di Seguria, il quale nella sentenza del 13
aprile 1176 appare composto di due elementi: i « curtusii » o abi-
tanti della corte e i « villani » o abitanti della villa, nel mentre
il comune di Velate appare come frutto dell'unione dei nobili coi
rustici, proporzionalmente rappresentati da consoli scelti nel loro
seno (31 agosto 120 1). Tali notizie confermerebbero 1' opinione di
chi asserì doversi studiare la formazione dei comuni nelle asso-
ciazioni preesistenti delle singole località (3). Non ripetiamo gli
(i) G. Salvigli, Nuovi studi sulle professioni delle leggi, in Atti e Memorie
R. Dep. Star. Patr, per le Prov. Mod, e'Parm., 1884, voi. II, p. 389 sg.
(2) Notizie più diffuse, oltreché negli storici valtellinesi (Quadrio, Rome-
gialli, Lavizzara) si trovano in Crollalanza, op. cit, passim.
(3) G. Rosa, op. cit., p. 80; Soimi, Le associazioni in Italia avanti le origini
del comune, Modena, 1898.
I
252 EZIO RIBOLDl
accenni alla costituzione del comune e del consolato milanese, ma
aggiungiamo quanto gli atti confermano delle notizie già note: che
cioè i consoli trattavano la pace e le alleanze, amministravano le
finanze e i beni demaniali, contraevano prestiti e mutui, avevano
ingerenza su le gabelle, sui pedaggi, sulle tasse in genere, ecc.
Nel campo della procedura si rinvengono pure notizie preziose
ed esempi pratici delle principali formalità ricordate anche dal L, C.
Per quanto riguarda l'arbitrato, oltre le numerose sentenze sparse
anche nei nostri cartulari, troviamo atti consolari di delega ed ar-
bitri, colla indicazione della causa e del tempo per trattarla (i),
colla esclusione di appelli per volontà delle parti. Frequenti gli
esempi di libelli riportati dalle sentenze, di comparse (« posi-
« tiones ») (2), di mandati « ad lites » (3) e di incidenti, quali l'ec-
cezione di incompetenza, risolta dal tribunale e, come pare, pro-
posta prima di ogni altra difesa (4) e l'intervento di terzo sia « ad
« escludendum »» che « ad confirmandum » (5). Tutte le forme di
prova ricordate dal L. C. occorrono, ma vi appare ripetutamente
la perizia, non menzionata in quello, sola e congiunta ad accesso
giudiziale, sia nel giudizio di merito che nella fase esecutiva (ó).
Notiamo anche un giuramento prestato sette giorni dopo la sen-
tenza, la quale risolve precisamente la causa in base a questo giù
ramento posteriore (7); esempi di rinunzia agli atti e di rinunzie
a un capo solo di domanda (8); di transazioni compiute durante lo
svolgimento del giudizio (9); di azioni possessorie congiunte ad
azioni petitorie (io); di azioni accessorie congiunte o separate dalla
principale.
Troviamo pure qualche sentenza in giudizio esecutivo. Il 27
gennaio 1173 l'abate di S. Ambrogio conviene in giudizio parecchi
cittadini, per obbligarli ad abbattere alcuni mulini che gli arreca-
(i) BoNOMi, ms. cit., voi. Ili, p. 435.
(2) S. CU ; GrjLTNi, op. cit., voi. IV, p. 58 sg.
(3) Ambrosiana di Milaao, cod. Della Croce, v. 14, a. 12 12.
(4) S. XVIir, LXXXI.
(5) Ibid. XCVII.
(6) Ibid. XXXV, LXXXVir.
(7) Ibid. XLII. ..,v...
(8; Ibid. LX e LXI. • '"
(9) Ved. le precedeati sentenze.
(io) Lattes, op. cit., p. 304.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 253
vano danno. A meglio conoscere la causa il tribunale consolare
nomina perito un maestro dei mulini, procede ad un accesso giu-
diziale e, fatto giurare l'attore perchè affermi la verità della sua
domanda, ordina che i mulini siano abbassati alla giusta misura.
Il 28 giugno II 73 con nuova sentenza indica le norme e le misure
cui attenersi in detto abbattimento, sentite le parti in causa. Così
il 20 dicembre 1204 in seguito a sentenza consolare si ordina al-
Tarciprete di Monza di dividere dei prati con tal Giacomo Pelucco;
il i.** aprile del seguente anno, volendo il tribunale « sententiam
« executioni mandare » nomina tre persone « ad curandam divi-
« sionem eius predii » in presenza di testimoni e di periti per la
stima. Ma spesso le sentenze restavano lettera morta, e allora il
tribunale, a domanda di parte, interveniva con nuova sentenza (i)
per costringere il soccombente ad uniformarsi al giudicato conso-
lare. Avvertiamo però che in unica istanza sono promiscuamente
trattate questioni di merito e questioni per esecuzione di precedenti
sentenze, ciò che dimostra la mancanza di una chiara distinzione
tra il giudizio cognoscitivo e il giudizio esecutivo, il che risponde
perfettamente alFindole del diritto in quell'età. Siamo sempre in
un campo ove la consuetudine è unica norma e sarebbe sogno
concepirvi anche distinti il diritto costituzionale, civile, amministra-
tivo, feudale, penale, commerciale e la stessa procedura. Tutto è
riunito in un sol codice e in un sol organo di potere ; talché uno
studio unilaterale non potrà mai condurci alla conclusione più lon-
tana e molto meno renderci l'idea completa di quello che fu il
consolato nella età comunale. Speriamo di poter giungere più pros-
simi a tal meta dopo qualche lavoro particolare e l'esame degli
altri atti citati nella introduzione.
Ezio Riboldi.
(I) S. LX e LXI.
254 EZIO RIBOLDl
REPERTORIO
4 luglio 1117 nell'arengo.
L'arcivescovo di Milano, " presentibus mediolanensibus consulibus „
dichiara di nessun valore le investiture e le alienazioni fatte dal ve-
scovo intruso di Lodi.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 11 ad a. ; b) Giulini, op. cit., voi. VII, p. 82 sg. ;
Vignati, op. cit., voi. I p. 97 sg.
II.
II luglio iijo nel teatro.
Ungaro da Corte Duce, console di Milano, e con lui i colleghi nel
consolato distinti nei tre ordini dei Capitani, Valvassori, e Cittadini,
conferma la sentenza del vescovo di Bergamo nella controversia di di-
ritto feudale e signorile tra i ministri della chiesa di Bergamo e i vil-
lani di Calusco.
a) Ambrosiana, Fagnani, Famigrlte Milanesi (f. Da Ro) e cod. Della Croce, io ad a. ;
b) Giulini, op. cit , voi. VII, p. 96 sg.; Lupi, Cod. Diplom. Berg.,\o]. II, p, 944.
III.
IO novembre iij8 nel broletto.
Quattro consoli di Milano assolvono due cittadini di Sesto dalla
domanda di un loro concittadino relativa ad una medietà. La prova è
testimoniale.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Monastero di Chiaravalle; Bonomi, Diplomata
Clarevallis, ms. Braidense, AE. XV, 20, p. 190 sg.
IV.
21 agosto 1140 nella pubblica via.
I consoli di Milano giudicano in una controversia tra Locamo da
Besozzo e i conti di Seprio per diritti feudali e rimandano le parti al
foro imperiale; poi, in altra controversia tra lo stesso attore e il co-
mune di Mendrisio per una preda e pel " districtum „ dello stesso paese^
\
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 255
dopo giuramento, obbligano Locamo alla restituzione e assolvono il co-
mune dalla seconda domanda.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 12 ad a.; b) Rovelli, Storia di Como, voi. II,
p. 3^6 8g. ; e) GiULiNi, op. cit., voi. Ili, p. 289 sg. ; Fìcker, Forsch., IV, n. 113; e eh", que-
sVArchivio, XXXI, 1904, i, p. 65.
V.
20 maggio 1142 nel broletto,
I consoli di Milano assolvono gli abitanti di Mendrisio dalla do-
manda di fodro regale fatta loro dai conti di Seprio. Come prova il
giuramento decisorio.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, io ad a. ; h) Rovelli, op. cit., voi. II, p. 347; e) Giu-
LiNi, op. cit., voi. IH, p. 303 e questMrcAmo, XXXI, 1904, i, p. 63.
VI.
II luglio 114J nell'arcivescovado.
I consoli di Milano, delegati come arbitri dalle parti, sentenziano in
una causa religiosa fra i monaci e i canonici di S. Ambrogio.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Monastero di S. Ambrogio ; b) Puricelli, Ambr.
Bus. Mon., n. 390; e) Giulini, op. cit., voi. ITI, p. 310 e quesV Archivio, XXXI, 1Q04, 11, p. 332.
VII.
2j giugno 114J.
Un console di Milano giudica in una controversia promossa da un
tale di Inverigo contro la badessa del Monastero Maggiore e due mas-
sari del monastero per alcune prestazioni signorili. In difetto di prova
per parte dell'attore viene deferito il giuramento all'avvocato della
badessa.
a) BoNOMi, mss. cit., Tab. Mon. Maior., p. 204.
Vili.
22 agosto 114S nel broletto.
I consoli di Milano giudicano in una controversia tra l'arciprete di
S. Maria del Monte sopra Varese e due fratelli abitanti di Porta Ro-
mana per diritti di legna in un bosco comune e per la proprietà di un
podere. In seguito a deposizione testimoniale e al giuramento, la sen
tenza è favorevole all'attore.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Maria dil Monte sopra Varese.
256 EZIO RIBOLDI
IX.
77 ottobre 114J nel consolato,
I consoli di Milano giudicano favorevolmente all'arciprete stesso in
una causa con un tale di Velate per il possesso di un campo. Prova,
la testimonianza e il giuramento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. infondo cit.
X.
ij maggio 114'j nel broletto.
I consoli di Milano giudicano favorevolmente ai decumani della
chiesa di S. Maria Iemale in una causa contro i Carcano, contumaci,
per una pescheria. Prova, la testimonianza e il giuramento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Beneficiati delh Metropolitana; Ambrosiana, cod.
Della Croce, v. 6 ad a. ; e) Giur.iNi, op. cit., voi. Ili, p. 3^2.
XI.
2j ottobre 114'j ^^^ consolato.
I consoli di Milano giudicano in una controversia tra il vescovo di
Lodi e i villani di Cerveniano per la proprietà di un bosco in Galva-
gnano. Provano la testimonianza è il giuramento.
a) Arch. Vesc. di Lodi, Bonomf, Mon. Land. Episcop., voi. I; b) Vignati, Cod. Diplom.
Laud., voi. II, p. 134.
XII.
18 giugno 1148 nel consolato.
I consoli di Milano giudicano favorevolmente all'arciprete di S. Maria
del Monte sopra Varese, in una causa per possesso di terre con uno
di Arzago. Prova, la testimonianza e il giuramento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Lorenzo Maggtorv.
XIII.
ij gennaio 11 49 nel broletto.
I consoli di Milano sentenziano favorevolmente al prevosto di S. Lo-
renzo in una causa contro un cittadino milanese pel possesso di un
mulino. Prova testimoniale e giuramento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Lor. Magg.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 257
XIV.
8 luglio J14P nel consolato.
I consoli di Milano danno ragione ad alcuni cittadini di Lodi in una
causa per una decima contro due fratelli del borgo di Landriano. Prova,
il giuramento.
a) Arch. Vesc. di f.odi, calta originale; b) Vignati, op. cit, voL II, p. 67.
XV.
J gennaio iijo nel broletto.
I consoli di Milano sentenziano favorevolmente ai custodi e decu-
mani della chiesa di Monza, in una causa per la chiusa di un mulino
contro Pabate di S. Ambrogio. Prova, i testi e il giuramento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Collegiata di Mon^a; b) Frisi, Mem. di Mon^a^
voi. II, p. 59; e) GiULiNi, op. cit., voi. Ili, p. 381.
XVI.
18 settembre iiyo nel broletto,
I consoli di Milano sentenziano favorevolmente ai consoli dei pa-
scoli di P. Vercellina in una causa per possesso di un prato e un pa-
scolo comune contro l'abate di S. Ambrogio. Prova, i testi e il giura-
mento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Monastero di S. Ambrogio ; e) Giulini, op cit.,
voi. Ili, p. 381.
XVII.
, 19 dicembre iijo nel consolato.
I consoli di Milano danno piena ragione alla chiesa di Monza in
una causa di diritto feudale o signorile contro alcuni di Centemero.
Prove, documenti, testi e giuramento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Colleg. di Motiva; b) Frisi, op. cit., voi. II, p. 60;
e) Giulini, op. cit., voi. IH, p. 412,
XVIII.
4 maggio iiji in solario consulatus.
I consoli di Milano giudicano di essere competenti a trattare una
causa possessoria vertente tra parecchi pavesi, che volevano adire ai
consoli di Pavia, e il Prevosto di S. Lorenzo.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Lor. Magg.
258 EZIO RIBOLDI
XIX.
j settembre iijr nel broletto.
I consSi di Milano trattano una causa per diritto di pascolo, arare, ecc.
in località lodigiane, tra il vescovo di Lodi e molti militi milanesi. Prova,
i testi. La sentenza è favorevole al convenuto.
a) Arch. Vesc. di Lodi, originale; b) Vignati, op. cit., voi. IT, p. 174.
XX.
8 maggio IIS2 nel consolato.
I consoli di Milano giudicano in una causa di diritto pubblico am-
ministrativo tra i comunisti di Piuro e di Chiavenna, con richiamo ad
una sentenza dei consoli comaschi. Prova, il giuramento.
a) Non rinvenuta ; b) Periodico Società Storica Comense, IV, p. 2-5; e) Giulini, op. cit.,
voi. HI, p. 412.
XXI.
IO gennaio ujj nel consolato.
I consoli di Milano sentenziano favorevolmente all'arciprete di Santa
Maria del Monte sopra Varese in una causa per diritti su parecchi bo-
schi e prati coi vicini di Velate. Prova, documenti, testi e giuramento.
a) Arch. di Stato di Milano, pergr- S. Maria del Monte.
XXII.
14 aprile iijj nel consolato.
I consoli di Milano giudicano in una causa di diritto feudale e si-
gnorile tra alcuni militi milanesi e l*abate di S. Abbondio in Como.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Abbondio, Como; e) Giulini, op. cit., voi. Ili,
p. 413.
XXIII.
14 aprile 11S4 nel consolato.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa di diritto pubbHco
amministrativo tra gli abitanti di Chiavenna e di Piuro.
a) Non rinvenuta; b) Per. Soc Stor. Com., IV, p. 287; e) Giulini, op. cit., voi. Ili,
P. 473-
I
I
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 259
XXIV.
13 ottobre 11S4 nel consolato.
I consoli di Milano giudicano in una causa per un anniversario tra
il primicerio della Metropolitana di Milano e Micara, moglie di Alberto
da Lampugnano.
a) Bibliot. Arch. Arcivescovile di IAWslvìo^ pergamene antiche diverse^ cart. n. 141 ; Am-
brosiana, cod. Della Croce, v. 7, p. 72 ; e) Gfr. qnQsV Archivio, XXXI, 1904, 11, p. 222.
XXV.
29 gennaio iijj nel consolato.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa di diritto feudale e si-
gnorile tra i Conti di Seprio e gli abitanti di Ronago. Prova, il giura-
mento di 12 abitanti.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, n. 12 ad. a.; b) Rovelli, op. cit., voi. II, p. 348,
XXVI.
2p giugno iiss nel broletto.
Nuova sentenza dei consoli di Milano in una causa di diritto pub-
blico amministrativo tra gli abitanti di Piuro e Ghiavenna. Prova, i do-
cumenti.
a) Non rinvenuta; b) Allégranza, Dell'antica fonte battesimale di Chiavenna, Ve-
nezia, I7r5, p. 87; Ter. Soc. Stor. Com., IV, p 291; e) Giulini, op. cit., voi. Ili, p. 447.
XXVII.
6 ottobre iijó nel consolato.
I consoli di Milario giudicano favorevolmente al vescovo di Lodi
in una causa di diritto feudale e signorile contro alcuni di Cavenago.
Prova, i testi.
a) Arch. Vesc. di Lodi; Bonomi, Mon. Land. Episcop., voi. I; b) VIG^fATI, op. cit,
voi. II, p. 197.
ì
XXVIII.
jp ottobre rijó nel consolato.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per tributo di siligine
miglio tra il vescovo di Lodi e un villano suo massaro. Prova, testi
giuramento.
a) Bonomi, op. cit. ; b) Vigmati, op. cit., voi. II, p. 199.
26o EZIO RIBOLDI
XXIX.
ij maggio IIJ9 nel consolato.
I consoli di Milano giudicano in una causa per sfratto di locazione
rurale tra l'abbadessa del Monastero Maggiore ed un Borelli.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Mon. Magg.: copia in cod. Trivulziano, n. 1738.
Pare una falsificazione del Galluzio.
XXX.
9 novembre 11S9 in città.
I consoli dei negozianti di Milano danno piena ragione a due figli
emancipati che volevano usar liberamente di tre pezze di terra e che
vietavano al padre Tuso di una roggia in danno ai propri mulini. Prove,
Tatto di emancipazione e il giuramento.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni; b) Giulini, op. cit., voi. VII, p. 125.
XXXI.
21 maggio iiyo nel borgo di Varese.
I consoli del comune di Milano danno piena ragione a donna Bi-
riana in una causa possessoria tra essa e lo stesso comune. Prova, una
semplice presunzione.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Marta del Monte.
XXXII.
16 ottobre iijo nel consolato.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa di diritto feudale
tra la famiglia Pozzobonello e Tabate di Chiaravalle, che viene assolto.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Monas. di Chtar. ; Bonomi, op. cit., voi. I, p. 440;
e) Giulini, op. cit., voi. Ili, p. 701.
XXXIII.
21 febbraio 11J2 nel consolato.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa di diritto feudale e si-
gnorile tra Tabate di S. Ambrogio e alcuni fratelli di Concorezzo.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Ambr. ; b) Puricelli, Ambr. Bas. Mon.,n 523;
e) Giulini, op. cit., voi. HI, p 742.
LE SENTENZE DEI COItSOLI DI MILANO, ECC. 201
XXXIV.
IO gennaio iijs «*^ broletto.
I consoli di Milano sentenziano in una causa tra due cittadini mi-
lanesi per il pagamento di un pezzo di terra venduto. Prove, un docu-
mento, i testi e il giuramento.
a) Ambrosiana, codd. Sormanni e Della Croce cit. ; b) Porro,!. C, p. ^ ; e) GrotAi,
op. cit., voi. ni, p. 744.
XXXV.
27 gennaio ii'jj nel consolato.
I consoli di Milano sentenziano in una causa promossa dairabbate
di S. Ambrogio per fare abbassare i molini di alcuni cittadini che dan-
neggiavano i molini del monastero. Prove, una perizia, un accesso giu-
diziale, il giuramento.
a) Arch. dì Stato di Milano, perg. S. Ambr. ; e) Giulini, op. cit., voi. Ili, p. 744.
XXXVI.
28 giugno iiy^ in casella consularie.
I consoli di Milano fissano in qual modo e misura devonsi e abbas-
sare i mulini dei convenuti nella sentenza precedente.
a) Gli stessi fonti.
XXXVII.
26 febbraio 1174 nel broletto.
I consoli di Milano giudicano in una causa per una chiusa sul Re-
freddo tra parecchi cittadini e un altro cittadino. Prova, un accesso giu-
diziale.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni cit., e) Giulini, op. cit., voi HI, p. 751.
XXXVIII.
12 luglio ii']4 in città.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa tra l'abate di S. Apol-
linare e un cittadino milanese pel possesso di un campo.
a) BoNOMi, Tab. Morimundi, p. 496: e) Arch. di Stato dì Milano, Musaeum Dtplom. cit.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXII, Fase. VI. 17
202 EZIO RIBOLDI
XXXIX.
8 novembre 11J4 nel consolato.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per la chiusa di una
roggia tra due fratelli, cittadini milanesi.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 9 ad a. ; e) Arch. dì Stato dì Milano, Musaeum
Dtplom. cit.
XL.
16 luglio iiyj nel consolaio.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per diritto di pascolo
tra Tabate di S. Ambrogio e i consoli dei pascoli della comunità di
P. Vercellina. Prove, documenti.
a) Arch. di Stato di Milano, perg: S. Ambr.; e) Giulimi, op. cit., voi. III. p. 760.
XLI.
ij aprile 1176 nella strada tra Garbagnate e Seguria.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per Tabbattimento di
fossati e terrapieni e per una servitù di passaggio tra il comune di
Seguria e un milanese. Prova, un accesso giudiziale.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni cit. ; e) Giulini, op. cit., voi. Ili, p. 770.
XLII.
• 2y maggio iiyj nel consolato.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa tra due cittadini mì-^
lanesi per una medietà. Il convenuto chiede di esser giudicato secondo
la sua legge e non secondo la legge romana.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Mon. di Chiarav. ; Bonomi, ma. cit., voi. I, p. 443.
XLIII.
^7 novembre Jiyy nella pescheria.
I consoli dei negozianti di Milano danno sentenza in una causa, per
la serviti! di passaggio in una viottola, tra Tarciprete di Monza ed un
monzese. Prova, documenti, testi, giuramento.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a.; b) Porro, L. C, p. 112; e) Giulini, op. cit.,.
voi. III, p. 771.
*
263
XLIV.
18 settembre 1179 nel consolato.
I consoli di Milano ratificano l'operato di alcuni messi consolari
che, in seguito a sentenza, avevano compiuta la divisione d'acque tra
due fratelli e contemporaneamente accordano al convenuto il diritto di
chiudere una roggia per inafl5are il proprio campo. Prova, documenti.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ; e) Giulini, op. cit., voi. Ili, p. 780.
XLV.
ij novembre iiyg nel consolato.
I consoli di Milano giudicano in una causa per sfratto di locazione
rurale tra la badessa del Monastero Maggiore e parecchi villani, massai
in Brinzio e traslocati in Concorezzo.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Capitolo di S. Ambrogio.
XLVI.
tji dicembre iiyg in casa consularie,
I consoli di Milano danno sentenza in una causa di diritto feudale
e signorile tra la badessa di Orona e i villani di Cesano e Bienzago.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Man. Orona; Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ;
b) Porro, L. C, p. 126 sg. ; e) Giulini, op. cit., voi. Ili, p. 781.
XLVIT.
2p dicembre 11 80 nella chiesa di S. Stefano.
Girardo Pisto console di Milano, in seguito ad autorizzazione dei
^rettori della Lega, dà sentenza in grado di appello del podestà di Lodi
in una causa di diritto feudale e signorile in Cavenago tra il vescovo
di Lodi e tal Ribaldo Incelso. Prova, documenti.
a) BoNOMi, Monum. Land. Episcop. cit. in Arch. Vesc. di Lodi ; b) Vignati , op. cit.,
voi. Ili, p. 113.
XLVIII.
22 agosto 1181 nel consolato.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa per servitù di
passaggio tra Tabate di S. Vittore e i villani di Grancino.
a) Non rinvenuta; e) Giulini, op. cit., voi. Ili, p. 790.
264 EZIO RIBOLDI
XLIX.
27 febbraio 1182 nel consolato.
I consoli di Milano danno ragione alla badessa del Monastero Mag-
giore in una causa possessoria contro un cittadino milanese. È presente
e firma la sentenza un console della repubblica.
a) Ai^ch. di Stato di Milano, perg. Cap. di S. Ambr.
L.
ij dicembre 1183 nel consolato.
I consoli di Milano assolvono Sozone da Cantù dalla domanda di
prestazioni come distrettuale a lui fatta dalla badessa del Monastero
Maggiore. Prova, una presunzione di diritto.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Mon. Magg. ; b) Berlan, Le due edizioni citate,
p. 178 sg.
LI.
4 luglio 1184 nel consolato.
I consoli di Milano sentenziano in cause di decime, diritto signo-
rile, diritti di pascolo, tra la badessa di S. Dalmazio in Colliate e gli
uomini di Coliate.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 6.
LII.
2) dicembre iiSj nel broletto (i).
I consoli di Milano sentenziano in una controversia per diritti su
un campo in Brusuglio, tra Guidone prete di S. Silvestro e alcuni fra-
telli soprannominati Porcelli, cui si dà piena ragione.
a) Non rinvenuta; e) Arch. di Stato di Milano, Musaeum Diplom. cit.
LUI.
29 dicembre Ji8j in città.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa per risarcimento
di danni, tra alcuni cittadini milanesi e Tabate di Chiaravalle. È pre-
sente e firma la sentenza un console della repubblica.
a) Arch. di Stato di Milano, Cap. di S. Ambr. ; e) Giuuni, op. cit.. voi. IV, p 21.
(1) Il Giulini, op. cit., voi. IV, p. 5, ricorda altra sentenza del 1$ dicem-
bre II 84, di contenuto ignoto e da noi non rinvenuta.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 265
LIV.
I giugno 1187 nel broletto.
I consoli di Milano condannano il prevosto di S. Ambrogio a di-
struggere una chiusa sul Refreddo, costruita in danno di Acerbo Teso.
Prova testimoniale.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a.; e) Porro, L. C., p. 7 «g.
LV.
I giugno 1187 nel broletto,
I consoli di Milano condannano Acerbo Teso a chiudere un fossato
ed a ripristinarne un antico. Attore il prevosto di S. Ambrogio. Prova
i documenti.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ; b) Porro, L. C, p. 5 sg. ; e) Giulini, op. cit.^
TOl. IV, p. 42.
LVI.
9 novembre 1187 nel consolato.
I consoli di Milano danno piena ragione all'abate e console di San
Sepolcro pei vicini in una causa per diritti di pascolo contro i consoli
di Comabio rappresentanti anche i vicini.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Ambr.; Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 13;
e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 41.
LVII.
12 novembre iiSy nel consolato.
I consoli di Milano condannano alcuni villani di Consonno in una
causa per diritti feudali e signorili promossa dal monastero di Chiara-
valle. Prova, documenti e testi.
a) Arch. di Stato di Milano, perg-. di Chi ar. ; Boìtom, Diplomata Clarevallis, ms. cit.,
voi. II, p. 504.
LVIII.
2p dicembre iiSy in città.
Per la stessa causa i consoli di Milano condannano un altro villano
di Consonno.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Cap. di S. Ambr. ; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 41.
206 EZIO RIBOLDI
LIX.
i8 giugno 1188 in città.
Sentenza dei consoli di Milano (?) a favore della badessa di Fon-
tegio per un podere ed una roggia presso Gratosoglio, il cui possesso
veniva contrastato dall'ospedale dei crociferi.
a) Non rinvenuta; e) Arch. di Stato di Milano, Musaeum Diplom. cit.
LX.
29 agosto 1188 nel consolato.
I consoli di Milano sono chiamati a giudicare in una causa tra
Acerbo e Teso e il prevosto di S. Nazaro per uso di acque dal Re-
freddo. L^attore, giunto a sentenza, rinunzia agli atti.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Ambr. ; b) Porro, L. C, p. Q sg.
LXI.
7 luglio 1189 nella chiesa di S. Tecla.
I consoli di Milano trattano ancora parecchie cause per diritti di
acqua del Refreddo tra Acerbo Teso e il prevosto di S. Ambrogio.
Si chiude con transazione.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Ambr.; b) Porro, L. C, p. 110 sg.
LXII.
2j febbraio iipo nel consolato.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa di diritto signorile
tra il monastero di Chiaravalle e un villano suo colono. Prova, docu-
menti e testi.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. di Chiarav.; Bonomi, IHplom. Clarev. cit., toI. II,
P. 540.
LXIII.
2j ottobre 1190 in città.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa di diritto signorile tra
un rustico e il monastero di Chiaravalle.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. di Chiarav.; Bonomi, ms. cit., voi. II. p. 553.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 267
LXIV.
ly novembre iipo in città.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per rescissione di un
contratto di locazione fra il prevosto di S. Lorenzo e uno dei suoi ono-
rari, che " in re locata malum usatum est. „ (sic).
a) Arch. di Stato di Milano, pergr. S. Lor. Mag^gr.
LXV.
ip dicembre iigo nel consolato.
I consoli di Milano giudicano doversi pagare una guadiam alla ba-
dessa di Orona, perchè un individuo di Bianzago abitante in Boisio
aveva aperto un fossato vicino al " castrum „ del convento.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Moti. Orona; Ambrosiana, cod. Sormanni, adja. ;
b) Porro, L. C, p. 201 ; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 56.
{LXVI.
2p dicembre iipi in città.
I consoli di Milano obbligano per sentenza a chiudere un fossato
presso la " braida „ del convento di Chiaravalle alcuni abitanti in Vi-
comaggiore. L'attore presta come prova il giuramento.
a) Bonghi, ms. cit., voi. II, p. 556.
LXVII.
II marzo 1192 nel consolato.
I consoli di Milano condannano Tabate di S. Ambrogio a togliere
una chiusa dal fiume Orona, la quale produceva danni al mulino di un
milanese. Prova, la perizia.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Monas. diS. Ambr. ; e) Giulini, op. cit., voi. lY, p. 63.
LXVIII.
22 giugno 1192 nel broletto.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per decima tra Guar-
nerio Cagainsterio e uno da Terzago.
a) BoNom, Tab. Morini.,p. 553; e) Arch. di Stato di Milano, Musaeum Dtplom. cit.
268 E2aO TUBOLDI
LXIX.
2j ottobre 1192 in città,
I consoli di Milano condannano un massaro del monastero di Chia-
ravalle al pagamento di un annuo canone per un fondo da lui condotto.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Mon. di Chiarav,
LXX.
29 dicembre 1192.
I consoli di Milano condannano parecchi villani a risarcire il danno
prodotto al monastero di Chiaravalle col taglio di alcune piante.
a) Non rinvenuta ; e) Arch. di Stato di Milano, Musaeum Diplom. cit.
LXXI.
y febbraio iigj in città.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa per espropriazione
della quota dei beni del debitore defunto pervenuta al fatello superstite
possessore dell'altra porzione. Prova, la testimonianza.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ; e) Giulini. op. cit , voi. IV, p. 77,
LXXII.
19 aprile iigj nel broletto.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per diritti d*acqua tra
il prevosto di S. Ambrogio e gli eredi di Ottone da Moirano.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 77.
LXXIIl.
14 ottobre iigj nel consolato.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per diritto di decima
tra il monastero di Chiaravalle e due suoi coloni. Prova, i testi.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Chiarav. ; Bonomi, ras. cit., voi. II, p. 868.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 269
LXXIV.
2^ novembre iigj ^^ città.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa possessoria unita
^ad altra per diritto di passaggio tra il prevosto di S. Ambrogio e un
milanese.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Chiar. ; Ambrosiana, cod Sormanni, ad a. ; e) Giulini,
op. cit., voi. IV, p. 77.
LXXV.
// agosto 1198 in città (i).
I consoli di Milano danno piena ragione al monastero di Chiara-
valle in una causa tra questi e un nobile milanese il quale, appunto
perchè tale, pretendeva di non pagare alcuni appendizi al monastero
stesso.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Chiarav. : Bonomi, Viplom. Clarev., ms cit , voi. IT,
p. 901.
LXXVI.
/ gennaio iipp nel consolato.
I consoli di Milano sentenziano in una causa tra la badessa del
Monastero Maggiore e Zuzone da Cantù per il fitto di un campo in
Arosio.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Mon. Magg: ; cod. Trivulziano, 1740. Pare opera
di un falsario.
LXXVII.
21 dicembre iigg in città.
I consoli di Milano giudicano in una causa per disputa di possessi
tra un prestinaio e parecchi milanesi.
a) Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 128.
(i) Il Giulini, op. cit., voi. IV, pp. 87, 97, 100, 122, ricorda quattro altre
sentenze, senza indicare il contenuto (2 ottobre 1196; 25 aprile 1197 ; 15 ago-
sto 1198 ; 15 ottobre 1199). Noi non abbiamo potuto rinvenirle.
270 EZIO RIBOLDI
LXXVIII.
)i dicembre iipp in città.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa possessoria tra
un milanese ed alcuni abitanti di Trezzano. Prova, i documenti.
a) Manca; b) Porro, L. C, p. 33.
LXXIX.
ji dicembre 1200 in città (i).
I consoli di Milano danno sentenza in una causa tra Ottone Pri-
stinario e Lorenzo da Trezzano con suo nipote per alcuni diritti d'acqua
in Trezzano.
a) Manca ; e) Àrch. di Stato di Milano, Musaeum Diplom. cit.
LXXX.
ji agosto 1201 in città.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa per {diritti di pa-
scolo tra l'arciprete di S. Maria del Monte e il comune e gli uomini di
Velate.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Maria del Monte.
LXXXI.
22 aprile 1202 nel consolato.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per risarcimento di
danni tra Uberto da Sesto e l'arciprete di Monza. Avendo il convenuto
sollevato eccezione di incompetenza, la causa è rimandata al foro ec-
clesiastico.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Colleg. di Mon^a; b) Frisi, op. cit., voi. II, p. 82;
e) GiuLiNi, pò. cit., voi. IV, p. 13C).
(i) Il GiULiNi, op. cit., voi. IV, p. 128, ricorda altra sentenza del 9 marre
1200, di contenuto ignoto e da noi non rinvenuta.
»
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 27I
LXXXII.
1} dicembre 1202 nel palazzo comunale,
I consoli del comune di Milano giudicano esser valevole la procura
data dal comune di Vercelli al suo procuratore nella causa contro il
comune di Pavia.
a) Arch. Civico di Vercelli, reg. sec. XIV ; b) H. P. M., Chartarum, voi. I, p. io83.
LXXXIII.
14 dicembre 1202 nel palazzo comunale.
Sentenza interlocutoria dei consoli del comune di Milano nella causa
tra il comune di Vercelli e quello di Pavia per il castello di Robbio.
a) Arch. Civ. di Vercelli, cod. cit. ; b) H. P. M., Charlar., voi. I, p. 1089.
LXXXIV.
21 luglio J204 in città (i).
I consoli milanesi danno piena ragione all'arciprete di S. Maria del
Monte, il quale convenne in giudizio per causa di decime il comune di
Velate.
a) Arch. di Stato di Milano, Raccolta Diplomatica, voi. II, p. 28 sg.
LXXXV.
jo ottobre 1204 in città.
I consoli di Milano assolvono un abitante di Vicomaggiore dalla
domanda di Amizeto Pozzobonello per la restituzione di un prato.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Chiarav. ; Bonomi, Diplom. Clarev.^ voi. Ili, p. 184.
LXXXVI.
20 dicembre 1204 a Baraggiola presso Monza,
In una causa per diritti d'acqua tra Giacomo Pelucco e Tarciprete
di Monza i consoli di Milano pronunziano sentenza favorevole all'attore.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Capitolo di Mon:(a ; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 147.
(i) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 143, ricorda altra sentenza del 4 feb-
braio 1203, senza indicare il contenuto. Non fu da noi rinvenuta.
272 EZIO RIBOLDI
LXXXVII.
/ aprile 120S presso il Lambro.
I consoli milanesi nominano tre persone incaricate di dividere le
acque tra Giacomo Pelucco e l'arciprete di Monza.
a) Arch. di Stato di Milano, per^. Cap. di Mon^a; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 147.
LXXXVIII.
2j aprile 120S in camera dei consoli.
I consoli di Milano costringono il figlio di Giacomo Pelucco a non
impedire l'uso di acqua per irrigare in una roggia presso un prato di-
viso, giusta la precedente sentenza.
a) e e) Come doc prec.
LXXXIX.
27 ottobre 120J nel consolato.
Sentenza dei consoli milanesi in una causa possessoria tra Alberto
Capello e due fratelli Beccaria, i quali vengono assolti dalla domanda
attrice.
a) BoNOMi, Diplom. Clarev., ms. cit., voi. TU, p. loq.
XC.
I dicembre 120S.
I consoli del comune di Milano danno piena ragione al comune di
Vercelli nella causa da questi promossa contro il comune di Pavia per
il possesso del castello di Robbio, di cui i pavesi si erano impadroniti
con violenza.
a) Arch. Giv. di Vercelli, reg. sec. XIV; b) H. P. M., Chartar., voi. I, p. 11 19 sg.
XCI.
21 marzo 1206 nel consolato.
Lunghissima sentenza dei consoli milanesi nella nota causa per di-
ritti d'acqua tra l'arciprete di Monza e Giacomo Pelucco, nella quale
appare ricostruita tutta la causa e si rinvengono preziose notizie coro-
grafiche, e di diritti rurali.
a) Arch. di Stato di Milano, Cap. di Morula; b) Frisi, op. cit., voi. II, p. 84 sg.
I
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 273
XCII.
¥
22 maggio 1206 nel broletto.
I
I consoli milanesi; dopo aver dato il curatore ad un minorenne,
pronunziano sentenza in una causa possessoria tra lui e il capitolo di
S. Ambrogio.
a) Arch. di Stato di Milano, per^. Cap. di S. Ambr ; b) Porro, L. C, p. 149 sg.; e) Giu-
LiNi, op. cit., voi. IV, p, 150 sg.
xeni.
19 luglio 1206 in città.
Sentenza dei consoli milanesi in una causa di diritto signorile tra
i rustici di Baggio ed Algisio da Varedo.
a) Bibliot. Arch. Capitolare di Milano, perg. ant. diver., cart. n. 141 ; Ambrosiana, co-
dice Della Croce, v. 13, ad a. ; e) qxiesV Archivio, XXXI, 1904, 11, p. 235.
XCIV.
p ottobre 1206 in città.
I consoli di Milano costringono per sentenza il prevosto di S. Am-
brogio ad eseguire una obbligazione stipulata, ed obbligano il conve-
nuto Rosso da Gerenzano a rilasciarne il documento.
a) Ambrosiana, eod. Della Croce, n. 13 ad a.
xcv.
4 maggio i2oy in città.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per evizione tra un fi-
glio emancipato e la canonica di S. Ambrogio.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S.Ambr. ; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 158 sg.
XCVI.
/ giugno 120'].
Un console di Milano condanna in contumacia Algisio Abuello da
Consonno, al pagamento di un fitto a Girardo Prealloni.
a) BoNOMi, Diplont. Clarev., ms. cit., voi. Ili, p. 130.
1;
274 EZIO RIBOLDI
XCVII.
31 luglio 120^ in città.
I consoli di Milano assolvono un villano dalla domanda dell'Ospe-
dale di S. Vincenzo per una decima. Interviene la canonica di S. Am-
brogio ad excludendum.
a) Arch. di Stato di Milano, per§^. S. Ambr. ; Ambrosiana , cod. Della Croce, v. 13 ad a. ;
e) GiULiNi, op. cit., voi. IV, p. 158 sg.
XCVIII.
IO luglio 1207 in città.
Sentenza per una decima feudale in una causa trattata dai consoli
di Milano tra un cittadino milanese e un villano di Quarto Cagnino.
Interviene ad excludendum l'Ospedale di S. Vincenzo.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 13 ad a.
XCIX.
14 agosto 120J in città.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per la remissione di
un terreno livellato tra la canonica di S. Ambrogio e Lorenzo da Trez-
zano. L'attore chiede anche le spese di giudizio, e in seguito a confes-
sione del convenuto gli è data piena ragione.
a) Arch. di Stato di Milano, perg, S. Ambr. ; Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 13 ad a. ;
e) GiULiNi, op. cit., voi. IV, p. 158 sg.
c.
2y ottobre i2oy in città.
Sentenza dei consoli milanesi in una causa per evizione tra un cit-
tadino milanese e la canonica di S. Ambrogio.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 13 ad a.; b) Porro, £,.,C., p. n sg. ; e) Giulini,
op. cit., voi, IV, p. 158.
CI.
28 ottobre 120^ nel consolato.
I consoli di Milano condannano Giacomo Perdice e figli a pagare
alla canonica di S. Ambrogio una decima.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. S. Ambr. ; Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 13 ad a. ;
e) GiuLiNi, op. cit., voi. IV, p. 158.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC. 275
CU.
21 dicembre 1207 in città (i).
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per abbattimento di
una porta in luogo pubblico tra i vicini di S. Pietro e Naborre a Mi-
lano e la canonica di S. Ambrogio. Poiché il convenuto dimostra che
furono invece costrutte sulla sua proprietà, viene assolto.
a) Ambrosiana, cod. Della Croce, v. 13 ad a.; e) Giulini, op. cit., voi. IV, p. 158 sg.
e quest'i4rcA/wo, XXXFI, 1905, in, p. 51, nota 4.
CHI.
4 luglio 1209 nel consolato.
I consoli di Milano condannano un cittadino da Trezzano a resti-
tuire ad Albergato Prealloni alcuni beni di un suo debitore pignoratizio.
a) Arch. di Stato dì Milano, perg. S. Ambr. ; Ambrosiana, cod. Sormanni, ad a. ; e) Giu-
lini, op. cit., voi. IV, p. 108.
CIV.
27 luglio 1209 nel consolato.
I consoli di Milano assolvono dalla domanda attrice due fratelli
Beccaria in una causa possessoria.
a) BoNOMi, Diplom. Clarev., voi. IH, p, 254.
cv.
j£ dicembre 1209 nel consolato.
Sentenza dei consoli milanesi in una causa di diritto feudale e si-
gnorile tra la chiesa di Monza e parecchi frateUi di Monguzzo.
a) Arch. di Stato di Milano, Colleg. di Moriva; b) Frisi, op. cit., voi. II, p. qi sg.
(i) Il Giulini, op. cit., voi. IV, pp. 161, 168, ricorda, senza allegarne il
contenuto, due altre sentenze (29 marzo 1208-29 giugno 1208) citando come
fonte l'Arch. Ambrosiano. Non furono rinvenute.
276 EZIO RIBOLDI
evi.
3 aprile 1210 in città.
Sentenza dei consoli di Milano in una causa per diritto di decima
tra il prevosto di Vimercate e Giacomo Beroldi.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Collegiata di Vimercate; b) Porro, L. C, p, 145.
CVII.
p novembre 1210 in camera dei consoli.
I consoli di Milano con nuova sentenza ordinano Tesecuzione di
una parte di precedente sentenza tra un milanese e il monastero di
di Chiaravalle.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Chiar. ; Bonomi, Diplom. Clarev., voi. Ili, p. 314
CVIII.
20 luglio I2II nel consolato.
I consoli di Milano danno sentenza in una causa di diritto feudale
e signorile tra alcuni di Giussano e molti abitanti di Arosio.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Mon. Magg.
CIX.
ij settembre 1212 nel consolato.
Sentenza consolare in una causa per diritti di decima feudale tra
il prevosto di Vimercate ed Uberto Ismaelli di Vimercate, il quale
viene condannato.
a) Arch. di Stato di Milano, perg. Colleg. di Vimercate; Ambrosiana, cod. Della
Croce, V. 14 ad a. ; b) Porro, L. C, p. 145 sg.
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC.
277
SERIE DEI CONSOLI MILANESI (0
22 agosto 114S.
Stephanardus ludex ac Missùs R.
Lanfrancus de Setara
Gigo Burrus
Azo ludex ac R. Missus.
77 ottobre 114S.
Gregorius ludex ac R. Missus
Otto de Raude
Malastreva Bordella
Gilbertus.
7^ giugno 1148.
Girardua Cagapistus.
7/ gennaio 1149.
Azo Ciceranus.
Gilbertus Penarus.
8 luglio 1149.
Ariprandus Confanonerius
Guercius ludex ac R. Missus.
4 maggio USI.
Heriprandus Confanonerius.
Alberti de Porta Romana
Heriprandus ludex.
IO gennaio iijj.
Alberti de Porta Romana
Otto de Mairola.
29 gennaio iiSS-
Obertus de Orto ludex ac R. Missus
Guasco de Mairola
Bordolle
Albertus de Carata
Guercius ludex ac R. Missus.
7/ maggio iijg.
Rogerius de Isembardo
lohannes de Stampa
Malasterna de Fabagrossa
Oldradus Vicecomes
Fridericus ludex
Otto de la Turre
Oldradus de Vicomercato
Fridericus ludex
Franciscus de Bimio.
27 maggio iiSy (2).
Uvidottus Polengonus.
28 dicembre iióy (3).
Guido Confanonerius
Grotto de Grogonzola
Mainerius de Pixina.
(i) Aggiunta a quella del Giulini, op. cit,, voi. VII, p. 350 sg.; ed a quelle
in (\Vitsl'' Archivio^ XXII, 1895, i, p. 363 sg. e XXXI, 1904, 11, p. 222.
Si citano in calce le fonti escluse dal Repertorio.
(2) Vignati, Codex Diplotn. Laud.^ voi. Ili, p." 39. A p. 56, in un trattato
di alleanza, figurano de' testi in cui si dovranno probabilmente riconoscere de'
consoli.
(3) Vignati, op. cit,, voi. IN, p. 44.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXII, Fase. VL 18
278
EZIO RIBOLDI
jo dicembre iiój (i).
Squarsapars de Buxinate.
21 ottobre 1181.
Albericus de Bonna.
27 febbraio 1182.
Anricus Mainerius
Otto Vicecomes
Guilielmus ludex
Mediolani
Stephanus Menclocius
Oto Zendadarius consul reipubblice.
ij dicembre ii8j.
Heriprandus ludex.
24 dicembre 1184 (2).
Rogerius Vicecomes
Arialdus Vicecomes
Arnaldi de Mairola
Guilielmi Corbi
Astulfi Cotte
Ardrigotti Marcellini.
28 maggio II 88 (3).
Chonradus ludex.
2p agosto 1188.
Giggottus de Mairola
Azo de Pusterla
lacopus Gambarus
Ariprandus Morigia
Ambroxotus de Comite
Guilielmotus de Alitate.
7 luglio 1189.
Anselmus de la Cruce
Guilielmus GaCurius
Johannes ludex
Guertius de Ostiolo
17 novembre iigo.
lacopus Gambarus
Giggottus de Mairola.
I gennaio 1199.
Ariprandus Bonafides
Rainerius Cotta
Ubertus Vicecomes
Otto Zendadarius
Alcherius de Vicomercato.
II gennaio iigg (4).
De Consulibus lustitie.
Guillielmotus Brema
lacopus Cagapistus
lacobus de Aiate
Rogerius Marinonus
Aliprandus
Petracius de Gluxiano.
De Consulibus Credentie S. Ambrosii.
Ardericus Stampha
Grossus de Ninguarda
lohannes de Levate
Rogerius de Riclus
Rogerius de Leoni.
ji agosto 1201.
Giggottus de Mairola
Baldicionus Stampa
(i) Vignati, op. cìt., voi. Ili, p. 36.
(2) Trivulziana, Fondo BelgioiosOj n. 291 carta all'anno. Una copia del
migerato Bianchini si trova pure nel cod. 1738.
(3) GiULiNi, op. cit., voi. IV, p. 43.
(4) Vignati, op. cit., voi. III, p. 233.
fa-
LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC.
279
Guertius de Ostiolo
Preallonus de Preallonis
Leo de la Cruce.
ij dicembre 1202.
Consules Comunis.
lohannes de Raudus (sic)
Enricus de Comiliano
Obizone de Advocato
Anselmus Tenzago
Obizono
Amicono
Guilielmus Calzagrixia
Philippus Lanterio de Moetia (sic)
Albertus Mirabilia.
21 marzo 1206.
21 agosto 1204.
Guilielmus de Terzago
Guido de Buinate.
I dicembre 120J.
Consules Comunis.
Rizardus Crivellus
Paganus de la Turre
Guido de Landriano
lohannes de Raide (sic)
Albertus de Mandello
Guidus Baldus
lacobus de Moetia (sic)
Ugo de Camerario
lacobus de Aliate
Drudo Marcellinus
Arnaldus ludex de Supralaqua.
Monachus de Modoetia
Guastacons de la turre
Obizo de Surexina
Gaspar Menclocius
Guido Faroldus
Ugo Salarius
Alborgellus de Dexio.
ij dicembre 1209 (i).
Albertus de Marliano
Guifredus de la turre
Prevede de Ovreno
lacobus Menclocius.
ij settembre 121 2.
Gottecinus de Ovreno
Albertonus Saporitus.
IO febbraio luj (2).
Andrioto de la Cruce
Norando de Pusterla
lohanne Codevillano de Surexina
Domifilo Toppo
Duirante de Marliano.
24 marzo 121 6 (3).
Vicecomes de Vicecomitibus
Rolandus de Erba.
24 febbraio 12 17 (4).
Miranus Incressus
lacobus de Populo.
(i) Porro, op. cit., p. 65.
(2) Berlan, Le due edizioni cit., p,
(3) Cod. Trivulziano, 1740.
(4) Ambrosiana, cod. Della Croce, n.
178.
14: Can. S. Ambrogio,
28o EZIO RIBOLDI - LE SENTENZE DEI CONSOLI DI MILANO, ECC.
7 Ottobre 1219 (i). ij maggio 1221 {2).
Sanzanomen Albericus Redulfus de la Cruce.
Bonaccursus de Vicecomitibus
Obizo Pellucus. . 2j giugno 122J (3).
lohannes de Legnano.
(i) Ambrosiana, cod. Della Croce, n. 14: Collegiata S. Stefano, Viminate,
sentenza ad a.
(2) Porro, op. cit., p. 185.
(3) Ambrosiana, pergamena, n. 1620.
JEAN GALÉAZ VISCONTI
et le Comté de Vertus
Es Archives départementales de la Marne, dans le dépòt
de Chalons-sur-Marne, possèdent une pièce écrite en
fran9ais et émanant de Jean Galéaz Visconti comme
Comte de Vertus en Champagne. Cette pièce attira
mon attention, lors de récentes recherches au dépòt de Chalons.
Elle est datée de Pavie, le" 5 octobre 1368. Et, bien qu'elle n'ait
trait qu'à une affaire d'assez mediocre importance (l'amortissement
d'une rente léguée à une église de Chalons), elle constitue assuré-
ment une rareté. En effet il ne m'a pas été donne de retrouver
aucune pièce analogue, aucun acte « direct » d'administration re-
dige en fran^ais et émanant de Jean Galéaz comme Comte de
Vertus. Nous verrons si l'on peut assigner des causes à cette ra-
reté. Pour rinstant, et avant de citer la pièce, on fera remarquer
ceci. La pièce n'intéresse directement que l'égUse Saint Etienne de
Chalons ; le Comte de Vertus n'a eu à intervenir dans l'affaire que
pour une seule raison : c'est que la rente amortie était assise à
Clamanges, au comté de Vertus (i).
Voici maintenant le texte de la charte (2):
A tous ceulz qui ces présentes lettres verront et orront, Galéaz
Visconte de Melan, Conte de Vertus en Champaigne, salut. Nous avons
veu un admortissement fait a honorables et discretes personnes Doyen
(i) Je note en passant que ce bourg de Clamanges nous rappelle un nom
bien fameux dans l'histoire des lettres au XV' siede, celui de Nicolas de Cla-
manges, né en 1360 dans le méme village champenois dont il est ici question.
Et, incidemment aussi, on noterà dans la pièce un autre nom de lieu illustre
dans les lettres et dans l'histoire, Joinville. Si je relève ces deux noms c'est pour
donner quelque idée des environs connus de la petite ville de Vertus.
(2) Archives du département de la Marne, Dépòt de Chalons-sur-Marne, G. 579.
282 HENRY COCHIN
et Chapitre de l'église Saint Estienne de Chaalons par notre feal et amé
vicaire et procureur general Messire Amechin de Bozele, dont la te-
neure s'ensieut. A tous ceulz qui ces présentes lettres verront et or-
ront, Amechin de Bozele, vicaire et procureur general de très excellent
^t poissant primpce monsigneur Galeaz Visconte de Melan, Conte de
Vertus et de très excellent dame, madame Ysabel, fille de Roy de France,
Contesse du dit Vertus, salut. Comme honorable et discrète personne
maistre Guillaume de la Mote, iadiz chanoines et archediacres de Join-
ville en l'église Saint Estienne de Chaalons, en son testament ou der-
raine volonté, ait, pour le salut et remède de son ame, donne et laissié
a la dite église de Chaalons une rente annuelle et perpétuelle de qua-
rante moutons lainne portans, quarante deruers tournois, et un petit
sestier d'avainne, la quelle rente tenoit, levoit et possidoit paisiblement
le dit maistre Guillaume pour le temps qu'il vivoit, par lui ou ses de-
putés, à pranre chascun an a tous jours, le jour de TAscention nostre
signeur, en et seur la ville de Clamanges assise ou dit Conte, pour cer-
tain et iustes causes contenues es lettres seur ce faites; et de par nos
amez en Dieu les Doyen et Chapitre de la dite Eglise de Chaalons,
nous alt esté requis et supplié que, come- la dite rente soit assise en
la terre signourie et justice du dit Conte, et ne porroient tenir les diz
Doyen et Chapitre la dite rente sans le congié et hcence de mes diz
sigheurs et dame ou leurs gens, nous ycelìe leur vousissiens admortir
et, pour ce, pranre finance d'eulz,- tele comme il appartendroit. Savoir
faisons que, considerò le bon propos du dit maistre Guilliaume, l'amour
et l'affection que mes diz signeur et dame et nous avons a la dite église,
et pour l'augmentation du devin servise, nous les diz Doyens et Cha-
pitre avons receu a finance pour raison de la dite rente parmi la somme
de soissante royaulk de bon or et de boh poiz courans pour le temps
de feu le Roy Jehan notre signeur dònt Dieux ait l'ame, de laquelle
somme il ont fait bónne et souffissant satisfaction. Si nous plaist et vo-
lons et ottroyons et consentons et de certaine science, en tant comme
en nous est et faire le poons, ou nom et par le pooir a nous baillié de
par mesdiz signeur et dame, que lesdiz Doiens et Chapitre et leurs
successeurs en la dite Eglise puissent dores en avant a tous jours,
perpetuelment, tenir, posseder, lever et joir paisiblement de la dite
rente de quarante moutons, quarante deniers tournois et un petit sestier
d'avainne, comme de rentè admortie; la quele, ou nom que dessus, ad-
mortissons par ces présentes, tenons et réputons pour admortie, sans
ce que les diz Doyen et Chapitre ne leurs successeurs en ycelle Eglise
soient en rien tenu, ne puissent estre constraint de la jamais mettre
hors de leur main, ne de en paier, pour ce, ou temps a venir, aucune
autre finance que desdiz soissante royaulz, sauf en autres choses le
droit de mes diz signeur et dame et en toutes l'autrui. Et pour ce que
ce soit ferme chose et estable a tous jours mais, nous avons mis nostre
seel à ces lettres, dou quel nous usons et entendons a user, qui furent
i'aites le douzime jour dbu mois de fevrier, l'an de grace mil trois cena
Pi.. I.
ncuix aiiCHO jicffc ctc» wnttt» VV: nvc fl«f 4>.i\% fiivint fiii*r:s .t ^
.• .É '^
\it.
"^
fr
Sceaii eu ciré jauue appendu à la charte du Comte de Yertus
datée de Pavle le 5 octobre 13«8.
Phototypie Menotti Bassani & C. à Milan.
Pr.. II.
k
Sceaux de Jean Galéas et de Valcntiiie Visconti,
existants aux Archivcs Nationales, Collection Douèt d'Arcq, N.os 591, 11708, 11709.
Phototypie Menotti Rassani & C. à Milan.
JEAN GALÉAZ VISCONTI ET LE COMTÉ DE VERTUS 283
soissant et sept. Lequel admortissement, en la forme et manière que
fait est par nostre dit vicaire et procureur et comme dessus est dit,
loons, gréons, ratiffions et approuvons, et prometons en bonne foì et
seur l'obligation des biens de notre dit Conte de le tenir et avoir ferme
et estable sans jamais venir ni faire venir encontre. En tesmoing de ce
nous avons seelé ces presentes de nostre seel, qui furent faites de
Pavye, le VP jour d'octembre, l'an de grace mil trois cents soissant
et huit.
signé: Antonius.
La pièce originale, qui se trouve aux Archives à Chalons, porte
encore sur doublé queue un assez beau sceau, en ciré jaune, du
Comte de Vertus. J'en ai fait faire une épreuve photographique, que
Fon trouvera cì-contre (1 Planche). Ce sceau, comme on le remar-
quera, n'est pas semblable aux divers sceaux de Jean Galéaz que
possèdent les Archives Nationales, et dont je public les moulages à
titre de comparaison (pour ceux du moins qui fìgurent dans la Col-
lection Douet d'Arcq) (i) (II Planche). Mais par contre, le sceau de
Chalons est à peu près semblable à une des monnaies si rares du
Comte de Vertus, que M. de Longpérier à étudiées, et après lui
M. Auguste Denis (2).
Dans le mémoire que je viens de citer, M. de Longpérier a
affirnié, — sur le dire de l'Archiviste d'alors, — que les Archives
de Chalons ne possédaient « aucune » pièce émanant de Jean Ga-
léaz comme Comte de Vertus. 11 n'est pas très surprenant que
notre petite charte ait alors échappé à l'attention. Le dépòt de
Chalons est considérable, et, bien qu'aujourd'hui encore il soit
loin d'avoir été complètement inventorié, il y a cependant quelques
progrès en ce sens, depuis les jours où Longpérier faisait ses
recherches. Pourtant il ne m'a pas été donne de rencontrer rien
de plus qu'une seule charte de Jean Galéaz.
(i) Ce sont les n.o»: 591. Appendu à un traile d'alliance du Comte avec
le roi de France (30 aoùt 1395). — 11708. Procuration pour le mariage de Va-
lentine Visconti (1387). — J'y joins le n.° 11709, Sceau de Valentine. — On
trouverait encore d'autres sceaux'de Jean Galéaz dans ncs dépóts fran^ais, Je si-
gnale, cès à présent, celui qui est appendu au traité entre Jean Galéaz et le
Comte de Savoie (Arch. Nat., K. 50, n." 8; Tardif, Cartons des rois, n." 1578).
(2) A. DE Longpérier, Oeuvres, to. V, p. ic6, Monnaies de Jean Galéaz,
Comte de Vertus en Champagne (Extrait du to. IV, Nouv. sèrie, de la Revue
Numismatiqtte)', cf. Auguste Denis, Essai sur la Numistnatique de la parile de la
Champagne représentée aujourd'hui par le dép. de la Marne, Chalons, 1872.
^4 HENRY COCHIN
Je me suis attaché à examiner les liasses abondantes qui ren-
ferment des documents intéressant les divers lieux de eulte qui ont
existé à Vertus, et notamment les deux abbayes de Saint Sauveur
et de Notre Dame, ainsi que l'église Collegiale. Il y a là d'assez
beaux chartriers possédant des bulles pontificales, et bien fournis
de titres, qui témoignent de nombreuses fondations pieuses éma-
nant surtout des comtes de Champagne et rois de Navarre. J'y
ai trouvé des traces du gouvernement de Jean Galéaz, mais toujours
par l'intermédiaire de procureurs ou de gouverneurs. Ainsi nous
sont révélés les noms de plusieurs des intermédiaires et fonction-
naires qu'employa le Comte de Vertus; mais on ne le voit jamais
paraitre de sa personne que dans Tunique pièce que j'ai repro-
duite, et oìi Ton se demande vraiment quelle est la raison particu-
lière de son intervention. Car cette pièce elle-méme d'ailleurs n'est
que la confirmation, le « vidimus » d'un acte émané d'un person-
nage qui servit de procureur à Jean Galéaz en 1367, et se nommait
Amechin de Vozèle (ou Bozèle). Mais, Gomme nous l'apprendra la
" Prisée » qui sera analysée plus loin, il s'était servi, l'année précé^
dente (1366) d'un autre personnage nommé Berthelemin de Garim-
baut, et désigné comme « procureur et receveur ». Un peu plus
tard, un document nous révèle la présence d'un fonctionnaire de
caractère plus stable, un gouverneur; ce document concerne Notre
Dame de Vertus (i) pour un démélé au sujet de certaines « ma-
u sures » sises au lieu dit « le four aux raynes ». Il émane d'un
certain u Sauces de Nogent, chevalier, seigneur d'Auney, gouver-
« neur du Comté de Vertus » (2). 1 ,
Quelques années plus tard, et sans que l'on puisse dire à quel
moment et pour quelles causes, Sauces de Nogent quitta ses fonc-
tions. On rencontre le nora d'un autre gouverneur de Vertus « Ber-
« tram Guasch, escuier ». Celui-là semble avoir joué un ròle assez
important, et on le voit figurer dans plusieurs des pièces concer-
nant le mariage de Valentine Visconti. J'en parlerai plus loin. Je
finis d'abord ce qui concerne l'administration du Comté de Vertus.
M. Jarry (3) a transfor/^ié le nom jJe Guasch en Guasco et a suppose
(i) Archives de la Marne, Chalons sur Marne, G. 1474.
(2) Il y est (pour tout dire) question d'un autre fonctionnaire plus modeste,
« Jacquet Vidamour, sergeant de monsigneur le Comte de Vertus ».
(3) E. Jarry, La vie politiqus de Louis de France, due d'Orléans (i)j2-i40j),
Paris, 1889.
JEAN GALÉAZ VISCONTI ET LE COMTÉ DE VERTUS 285
le personnage italien. Il ne dit pas pour quelle raison. J'ai rencontré
le nom sous ces formes: Guaschi Giiasc ou Gasch, en fran^ais, et
Guaschus en latin. Par lui-méme, le nom peut étre fran^ais aussi
bien qu'italien. Quoi qu'il en soit, Guasch figure comme gouverneur
de Vertus dans des actes de 1373, puis de 1387 (t) ; il re9oit le méme
titre en 1397, y ajoutant celui de « Chambellan de Monsigneur le Due
« d'Orléans » (2). Puis j'ai lieu de croire qu'il cesse d'étre gouver-
neur au moment de la mort de Jean Galéaz, ou peu après. En effet
dans un acte de 1404, Bertram Guasch s'intitule encore « Cham-
« bellan du Due d'Orléans », mais il ajoute: « jadis gouverneur de
« la Comté de Vertus » (3).
En general donc, le comté est administré par des fonction-
naires et non directement par le comte, et c'est pourquoi, ainsi
d^ailleurs que Fon s'y devait attendre, le nombre des pièces éma-
nées du comte lui-méme ont dù, en tous temps, étre rares. Pour-
tant il en a existé, puisque nous en tenons une, mais sauf un hasard
heureux, il est douteux que nous en rencontrions d'autres. En effet
nous apprenons en outre, par un autre document, que les archives
du comté avaient été brùlées et détruites par fait de guerre. C'est
ce que nous verrons tout à l'heure, en parlant du précieux docu-
ment que possèdent encore les Archives Nationales, la « Prisée » du
comté de Vertus.
Il faut rappeler en quelques mots ce que fut le comté quand
Jean le Bon le constitua pour en faire la dot de sa fille Isabelle
de France, et aussi ce qu'avait été Vertus dans des temps plus
anciens. Cette histoire est aisée à suivre dans les travaux de
d'Arbois de Jubainville (4), de Longpérier déjà cité et de Lon-
gnon (5).
(i) 29 décembre 1387, Arch. Nat., K. 552. Cf. aussi Lalore, Collection des
cartuìaires du diocèse de Troyes, Paris, 1878, to. IV.
(2) 5 aoùt 1397, Arch. de la Marne à Chalons sur Marne, G. 144$.
(3) Arch. de la Marne à Chalons sur Marne, G. 144 1. — L'acte est fait au
nom de a Jehan le Gay d'Ay, bailli de monsigneur le due d'Orléans pour ses terres
« de Champagne et de Brie ». — Il est clair que dès lors le système d'administra-
tìon institué par Jean Galéaz a pris fin.
(4) D'Arbois de Jubainville, Histoire des ducs et des comtes de Champagne,
Paris, 1859-66 ; cf. aussi : CalmetTe, Histoire des villes et villages de la Marne,
Reims, 1880. Voir aussi : Ordonnances des Rois de France, to. Ili, p. 549.
(5) Dìctionnaire topographique de la Marne, Paris, 1891.
286 HENRY COCHIN
Vertus est situé à 30 kil. au sud-ouest de Chalons-sur-Marne,
dans cette grande plaine crayeuse, à peine traversée de quelques
ondulations de collines, qui s'étend d'Epernay à Vitry-le-Frangois.
C'est aujourd'hui un chef lieu de canton, présentant un aspect
de propreté et d'aisance, semblable d'ailleurs à tant d'autres pe-
tites villes de la région champenoise. Elle est à l'heure présente,
comme elle l'était au Moyen àge (i), entourée de vignes, et le
centre d'un important commerce de vins. La ville actuelle ne garde
guère que deux souvenirs du passe : la belle Collegiale, qui date,
en partie du moins, du douzième siècle, et possedè une crypte
plus ancienne peut-étre; puis un fragment des remparts du moyen
àge, avec une belle porte en ogive, que l'on nomme Porte-Baudet. La
ville entière a gardé la forme arrondie que lui a imposée longtemps
la ceinture de ses remparts aujourd'hui disparus. Elle est d'ailleurs
posée au flanc d'un coteau et toute en pente. En haut de la ville
et au dessus de la Collegiale, le nom d'une rue [Rue du Chàteau)
et un mouvement de terrain bien marqué prouvent seuls l'existence
d'un ancien chàteau fort.
On ne peut oublier de parler des eaux, dont la beauté fait le
caractère du lieu et explique aisément qu'il ait du ètre, dès les
temps les plus anciens, un centre de population. Il y a deux sources;
l'une, en haut de la colline, est si abondante qu'elle forme un petit
étang d'eau vive, où baigne le pied méme de la Collegiale; l'autre.
au milieu de la ville, fournit incessamment un volume extraordi-
naire d'eau plus limpide encore. Les eaux de ces deux sources
forment, à la sortie méme de la ville, une rivière assez importante,
que l'on nomme aujourd'hui la Berle.
A deux kilomètres de Vertus, sur le territoire de Bergères-
les-Vertus, s'élève une colline isolée, qui mesure 240 mètres de
haut, ce qui lui donne, au milieu des plaines et de bas coteaux
de Champagne, l'aspect et la renommée d'une montagne. On nomme
aujourd'hui cette colHne le Montaimé; cette forme moderne du nom,
modelé sur une forme latine imaginaire, a supplanté la forme en
usage pendant tout le moyen-àge: Moymer (2). C'est sur le Moy-
(i) L'immense majorité des pièces que j'ai rencontrées aux Archives de la Marne
touchent à des questions de dimes sur les vignes de Vertus et de Bcrgères-les-Vertus.
(2) En latin ce nom a plusieurs formes diverses. La plus frequente est Mons
Aymeri. Mais à l'année 877, les Annales Bertìnianì donnent : Mons Witmari. —
Le chàteau fut définitivement détruit au quinzième siècle. Cf. Longnon, loc. cit.
JEAN GALÉAZ VISCONTI ET LE COMTÉ DE VERTUS 287
mer que s'élevait jadis le chàteau fort des comtes de Champa-
gne, qui va figurer, comme un don de valeur, dans la dot d'Isabelle
de France en 1361. Le Moymer avait sa legende au moyen àge.
La tradition populaìre y pla^ait le chàteau d'Hautefeuille, demeure
du traitre Ganelon. M. Longnon le trouve bien désigné en cette
qualité dans la Chanson de geste qui a pour titre Gaufrey.
Ce qui signale Vertus à l'attention au cours du moyen àge, e' est
d'avoir servi de séjour fréquent aux comtes de Champagne, qui y
avaient, de bonne heure, institué une prévoté. Le nom méme de
Vertus remonte à une epoque bien plus ancienne. 11 n'a pas d'autre
rapport, bien entendu, qu'une assonnance de hasard, avec le mot qui
signifie les mérites de l'àme; mais cette assonnance a naturellement
et dès longtemps donne lieu à des confusions et à des jeux de mots,
dont le principal est contenu dans cette devise connue : Post funera
virtus ; on en rapportait l'invention à Jean le Bon, pour honorer la
fidélité des Champenois envers le roi de France captif.
Quoi qu'il en soit de cette devise, dont l'origine et l'ancien-
neté sont également douteuses, il est certain du moins que le
nom de la ville de Vertus a une étymologie tout autre que psy-
chologique. C'est un vieux nom celtique. Il y a eu un « Pagus
u Virtudensis », nommé dans une charte de Louis le Débonnaire
et Lothaire en 825. Il est appelé « Virtudisus » dans un capitu-
laire de Charles-le-Chauve, qui le désigne parmi les lieux appar-
tenant à la « Missie » d'Hincmar. Flodoard mentionne la « Villa
« Virtudis ». Un peu plus tard, le jeu de mots est accompli: Raoul
Glaber parie du « Vicus Virtutis », et dàns une vie anonyme de
S. Arnoul, il y a un lieu dit « Virtutes ». Cette forme persiste
dans les chartes d'Henri le Liberal au douzième siècle et semble
prendre une possession definitive (i).
Voila pour ce qui est du nom. Quant à l'histoire, en voici le
résumé. Vertus nous apparaìt d'abord, comme archidiaconé de
l'évéché de Reims. Le comte de Champagne Herbert II s'en em-
para, en 970, malgré les résistances du fameux évéque Adalbé-
ron (2). En 977, la cession fut régularisée et consentie par le cha-
(i) Cependant on trouve ancore « de Virtuto » au XIV^ siècle. (Jean XXII,
Lettres communes, analysées d'après les registres dits d'Avignon et du Vatican,
Paris, 1905, to. V, fase. III). Cf aussi Lex, Eudes comte de Blois, p. 56,
(2) Il est question de ces faits dans les Lettres de Gerbert.
288 HENRY COCHIN
pitre de Reims, moyennant une redevance annuelle. Cette situation
durait encore au douzième siede. Pendant ce dernier siècle, Vertus
est un séjour presque habituel des comtes de Champagne. A plu-
sieurs reprises des dames le re9oivent comme douaire. On le voit
en particulier figurer dans le douaire de Bianche de Navarre, qui
construisit ou plutòt augmenta le chàteau de Moymer en 1210.
En 1229, notre Sire de Joinville raconte un siège et un incendie
de la ville de Vertus. Pourtant la destruction n'avait pas dù étre
complète, puisque nous voyons, en 1230, les habitants de Vertus
recevoir du comte de Champagne une charte de libertés commu-
nales. Ils sont d'ailleurs en fréquentes relations avec leurs comtes,
car ceux-ci continuent à multiplier leurs séjours à Vertus, ou plutòt
dans le chàteau fort de Moymer. C'est sur ce mont, qu'on voit par
exemple, en 1239, le fameux comte Thibaut IV, le poéte, brùler
83 hérétiques Albigeois, en présence d'une nombreuse assemblée.
Les comtes de Champagne ont trouvé à Vertus un séjour de pré-
dilection. Ils y ont fonde les deux abbayes de Notre Dame et de
Saint Sauveur. Voilà ce qu'il importe de savoir jusqu'au moment
où Jeanne de Champagne, en épousant Philippe IV le Bel, apporte
la Champagne à la France.
La Champagne ne mit pas longtemps à devenir très frangaise
de coeur ; les rois y rencontrèrent aide et appui, au moment du
plus apre danger. En 1358, pendant méme la captivité du roi, le
Dauphin trouva moyen de réunir à Vertus les notables de Cham-
pagne et d'obtenir d'eux les subsides que les Etats Généraux lui
avaient refusé. Deux ans plus tard, il négociait le mariage de sa
soeur avec Jean Galéaz, et cette « heureuse aventure, gràce à la-
it quelle », dit Longpérier, « le jeune prince Milanais allait se trouver
« beau-frère de Charles V roi de France, de Louis d'Anjou comte
« de Provence et roi de Naples, de Jean due de Berri, de Phi-
« lippe le Hardi due de Bourgogne et comte de Fiandre, de Jeanne
u reine de Navarre et comtesse d'Evreux, de Marie duchesse de
u Bar M. Le roi Jean, en 1361, érigea Vertus en comté en y ajou-
tant les seigneuries de Rosnay (i) et de la Ferté sur Aube (2),
(i) Aujourd'hui Rosnay- l'hópi tal , Aube, arrondissement de Bar-sur-Aube,
cantori de Brienne-le-Chàteau. — Cf. Boutrot et Socard, DicHonnaire topogra-
phique de VAuie^ P- I37«
(2) Haute-Marne. Arrondissement de Chaumont, canton de Chateauvillain.
JEAN GALÉAZ VISCONTI ET LE COMTÉ DE VERTUS 289
afin d'en constituer une dot à sa fille Isabelle. 11 avait voulu
d'abord lui donner un comté erige à Sommières en Languedoc,
dans la sénéchaussée de Beaucaire; on verrà plus loin les raisons
touchantes mais improbables qui furent mises en avant pour faire
préférer Vertus à Sommières : il était, disait-on, désirable de choisir
une contrée qui ne fùt pas trop éloignée du séjour usuel du roi,
afin que Galéaz et Isabelle, lorsqu'ils viendraient visiter leur fief,
pùssent aisement saisir l'occasion pour aller saluer à Paris leur
très cher pére et beau-père. J'ajoute que le roi leur assurait à
Vertus une demeure noble et fortifiée, puisqu'ainsi que nous le
verrons, il leur donnait, « hors prisée » et à part du comté, le vieux
chàteau des comtes de Champagne sur le sommet du Moymer.
Je ne sais si Galéaz alla jamais à Vertus. S'il y alla, le séjour
y dùt manquer à la fois et de sécurité et d'agrément. Nous venons
aux plus durs moments de la Guerre de Cent ans. Tous les do-
cuments que nous consultons ne parlent que de faits de guerre.
Nous apprenons notamment que Vertus est brulé et pillé par le
due de Buckingham en 1380. Si l'on veut se faire une idée des
maux incroyables soufiferts part cette partie de la Champagne pen-
dant les dernières années du XIV^ siècle et les premières années du
XVe, il faut voir aux Archives de la Marne certaines pièces qui eùs-
sent pu trouver place dans le beau livre du pére Denifle sur la Déso-
lation des Eglises. C'est notamment le mémoire redige par Michel
Joly, abbé de Notre Dame de Vertus, pour faire connaìtre la misere
de son abbaye en 1420, et les déprédations incessamment souffertes
pendant les trente ou quarante années qui viennent de s'écouler (i).
Tous ces faits rendent moins surprenante la disette de docu-
ments que nous avons constatée, touchant l'administration du comté
de Vertus. Ce n'est pas pourtant que nos Archives soient pauvres
de documents émanant de Jean Galéaz Visconti, ou le concernant.
Mais parmi ces documents, les principaux ont trait, non au mariage
de Jean Galéaz avec Isabelle de France, mais au mariage de sa
fille, la belle et bonne Valentine, avec Louis due de Touraine
(i) Archives de la Marne à Chalons sur Marne, H. 469. — On trouve dans
la mème liasse une magnifique bulle de la mème année, donnée par Martin V
à Florence, en faveur de l'abbaye de Notre Dame de Vertus, à l'occasion des maux
qu'elle avait soufiferts.
290 HENRY COCHIN
puis due d'Orléans, fils de Charles V. Il était donc naturai que
M. Jarry les publiàt dans son livre sur le due d'Orléans. Nous trou-
vons notamment dans ses pièees justificatives : i.o Sous le numero VI,
une pièee de J387 (concernant la eoncession faite au Comte de Ver-
tus par le roi Charles V, d'un quartier aux Armes de France),
commengant par les mots : « Nos Johannes Galéaz, eomes virtutum,
u mediolani.... imperialis viearius generalis ». C'est un vidimus des
Lettres Patentes de Charles V (i). 2.0 Sous le numero VII, le con-
trat de mariage de Louis due de Touraine avec Valentine Vi-
sconti (2), confirmé par le Comte de Vertus ; la pièce commence
par les mèmes mots.
M. Jarry a publié encore une autre pièee émanant du Comte
de Vertus, et qui n'a pas rapport au mariage de sa fille Valentine,
sous le titre : « Instructions milanaises relati ves au Royaume
« d'Adria » (3). Je l'indique en passant. Il n'est pas douteux que
nos Arehives ne contiennent encore de nombreux documents tou-
chant les relations diplomatiques de la France et de Milan sous
Jean Galéaz. Mais il n'a pas pu entrer dans le cadre de eette
modeste recherche d'établir méme une enquéte approximative sur
ce vaste sujet (4). Je me contente d'une mince récolte, concernant
seulement le eomté de Vertus et son administration. Et à ce point
de vue special, il faudra noter aux Arehives Nationales, dans la
(i) Arch. Nat., KK. 896.
(2) Ibid., K. 532.
(3) Je note encore aux Arehives Nationales un superbe document, mais as-
sùrément connu, et dont une reproduction doit se trouver dans les Arehives mi-
lanaises. C'est le traité d'alliance conclu entre Amédée comte de Savoie et le
Comte de Vertus, « in campis Inter Casalem et fortalicium Trece prope rippam
« Padi, die sexta Junii Anno domini millesimo trecentesimo septuagesimo quarto ».
Arch. Nat., K. 50 (sceaux).
(4) On aura remarqué dans le a Ròle de la dépense du due de Touraine »
ce motif de dépense assez pittoresque: « Conduite de quatorze destriers envoyés
a d'Italie par le Comte de Vertus ». [Les ColUctions de Bastarci d'Estang, Cata-
logne par Léopold Delisle, Paris, 1885). Je signale incidemment encore la belle
lettre publiée ailleurs par Léopold Delisle, et par laquelle, en 1369, Charles V sol-
licitait de Jean Galéaz une aide pécuniaire pour la rangon de leur commun beau-
frère le comte de Bar, retenu prisonnier à Metz. Je remarqué que Jean Galéaz
n'y TQqo'it pas son titre de Comte de Vertus : « Magnifico et potenti viro do-
« mino Galeachio domino Mediolani amico nostro carissimo ». (Mandements
et Acks divers de Charles F, Paris, 1874. Dans ColUctions de documtnts inédits).
JEAN GALÉAZ VISCONTI ET LE COMTÉ DE VERTUS 29I
liasse qui fournit les pièces touchant le mariage de Valentine, une
pièce au moins qui a rapport plus direct au comté de Vertus
par lui-méme, mais encore n'est elle dressée qu'en vue du mariage,
et comme suite du contrat de mariage approuvé le 8 avril 1387.
C'est une pièce qui donne pouvoirs pour Texécution de certaines
obligations résultant du contrat de mariage; et si ces pouvoirs sont
donnés à Bertrand Guasch, gouverneur de Vertus, ce n'est pas
seulement parce qu'il peut étre question occasionnellement dans
l'acte du comté de Vertus, mais surtout parcequ'à ce moment
Guasch était le représentant habituel de Jean Galéaz pour toutes
les affaires qu'il avait à traiter en France. C'est de quoi on peut
s'assurer en étudiant les documents publiés par Jarry et surtout
l'important document dont nous donnerons en terminant l'analyse.
Le comté de Vertus sortit des mains des Visconti par la mort
de Jean Galéaz, ainsi d'ailleurs qu'il avait été stipulé dans le con-
trat de mariage de Valentine. Il ne resta pas longtemps dans la
maison d'Orléans. La fille de Louis d'Orléans et de Valentine Vi-
sconti, Marguerite d'Orléans, née en 1406, fut donnée en mariage
à Richard de Bretagne, comte d'Etampes (i). Elle mourut en 1466.
C'est elle qui porta le comté de Vertus dans la maison de Breta-
gne. Cette Marguerite fut mère de Francois, deuxième du nom,
due de Bretagne, et, par lui, grand'mère d'Anne de Bretagne, reine
de France. Je fais remarquer pour mémoire que Louis XII, le se-
cond époux d'Anne de Bretagne avait, comme elle, pour bisaieule
Valentine Visconti et pour trisaieul Jean Galéaz.
(i) Nous n'avons pas à suivre le Comté de Vertus dans ses destinées ul-
térieures. Mais je devais indiquer une nouvelle direction de recherches aux érudìts
qui voudraient continuer jusqu'au bout la recherche de documents concernant
Jean Galéaz, Comte de Vertus, et Valentine sa fille. Par exemple, les Archives
départementales de la Loire Inférieure renferment plusieurs documents de cette
origine. UInventaire Sommaire signale (to. Ili, Nantes, 1879, p. 8) : i.» E, 26.
Ratification par Jean Galéaz, Comte de Milan et de Vertus, des articles du con-
trat de mariage de sa fille Valentine, fiancée à Louis, due de Touraine et comte
de Valois, et de la promesse y contenue d'une dote immobilière de 30,000 du-
cats. — 2.° E. 33. Copie extraite des Archives de la Chambre des Comptes
contenant le prisage du comté de Vertus, aveux de vassaux, donations, privi-
lèges. — Ces deux documents ne sont sans doute que des doubles des pièces
que possèdent les Archives Nationales. — On peut consulter: J. Trévédy, Sei-
^muries de Bretapie hors de Bretagne (dans Revue de Bretagne, de Vendèe et
d'Anjou, Année 1896, notamement le n." du mois d'aoùt).
292 HENRY COCHIN
C'est par le fait de Marguerite d'Orléans, comtesse d^Etampes
et de Vertus et dame de Clisson, que nous possédons le plus im-
portant document que je connaisse sur le mariage d'Isabelle de
France avec Jean Galéaz et sur l'érection et l'importance du comté
de Vertus. En 1446 la comtesse d'Etampes n'ayant plus d'archives
concernant Vertus par suite des incendies et des pillages de la
dernière guerre, fit faire une copie d'un important document reste
depuis quatre vingts ans en la Chambre des Comptes du roi à
Paris. C'est la « Prisée », que Charles V avait fait dresser en 1366
du comté de Vertus, afin d'en bien fixer la valeur et la mesurer
au chifFre de la dot promise à sa soeur Isabelle. Cette Prisée est
suivie d'un véritable cartulaire, et il renferme un nombre considé-
rable de pièces et de renseignements touchant l'histoire locale et
l'histoire generale (i).
La « Prisée » du comté de Vertus copiée en 1446, forme un
volume in-4 de 163 folios numérotés, dont deux (57 et 58) blancs; il
se trouve à Paris, aux Archives Nationales, sous la cote KK. 1080:
fol. I - fol. 2 r.o Mandement de Charles V, donne à Paris, le
29 avril 1366. Charles V mande à maitre Colart Cathon clerc et
à Jacques Soyer, procureur du Roi au baillage de Vitry, de se tran-
sporter au comté de Vertus et d'en faire la prisée, comme il a été
convenu lors du mariage d'Isabelle de France avec « Jean Galeach ».
Le résultat de cette prisée devra étre envoyé à la Chambre des
Comptes à Paris ;
fol. 3 r.o « C'est la prisée de la Comté de Vertus.... faite par
u nous Colart Cathon.... et Jacques Sohier »; les priseurs deman-
dèrent conseil dans leur mission à plusieurs personnes notables,
dont « Berthelemin de Garimbaut, procureur et receveur de Mon-
« seigneur le Comte de Vertus » ;
fol. 3 v.o - 5 v.o Cathon et Soyer nomment les divers lieux
auxquels ils ont dù se transporter dans le comté, en méme temps
que les dates choisies par eux pour opérer la prisée (depuis
(i) Quoique ce document n'émane pas personellement de Jean Galéaz, il a
pour l'histoire de ce persomiage assez d'importance pour qu'il n'ait pas paru inu-
tile de l'analyser, en citant brièvement les passages les plus intéressants. Il a été
publié en grande partie récemment : Aug. Longnon, Documents relatifs au comté
de Champagne et de Brie (1172-1361), to. II, pp. 550-570 (Coli de doc.inédits).
JEAN GALÉAZ VISCONTI ET LE COMTÉ DE VERTUS 293
juin 1366 jusqti'en décembre 1367); ils disent les difficultés qu'ils
ont eu lorsque « vindrent les eompaignes ou pays » (i) : ils expo-
sent aussi les raisons pour lesquelles ils ont dù estimer certaines
terres ou certains droits à très bas prix, u eonsidéré les guerres
« qui avoyent destruit le pais et que les choses estoyent en très
« petit estat ». Le comté de Vertus se compose de trois chàtel-
lenies, celle de Vertus avec le chàteau de Moymer, celle de Ro-
snay, celle de la Ferté sur Aube.
Suit la liste détaillée ées revenus de ces chàtellenies:
fol. 6 r.o - 20 r.o Revenus de la ville, chàtellenie et prevóté
de Vertus et de Moymer (2).
fol. 20 r.*' - 21 r.o Chsìrges de cette chàtellenie; rcivenu net.
fol. 21 v.o - 33 r.o Rentes et charges de la chàtellenie de
Rosnay; revenu net.
fol. 34 r.° - 44 r.o Revenu et charges de la Ferté sur Aube.
fol. 44 r.o Total des revenus de l'ensemble du comté de
Vertus, 3.358 livres tournois, 12 sous, 3 deniers; somme sur la-
quelle (fol. 44 v.**) il faut rabattre les gages du « bailli, procureur
« et receveur » de la dite comté « pour gouverner icelle », qui se
montent à 100 1. par an.
Fin de la prisée proprement dite.
fol. 44 v.o - 45 r.o Observations faites le 9' juin 1375 par la
Chambre des Comptes à propos de cette prisée. Le roi n'ayaflt
donne à Jean Galéaz et à sa femme que 3000 livres de rente et
la prisée ayant montré que le comté produisait net 3258 1., 12 s.,
3 d., 258 1., 12 s., 3 d. devaient revenir par an au roi; or cette somme
ne lui a pas été remise « depuis XIII ans en 9a que la possession
« des dis lieux fu baillée au dit conte ou à ses gens pour lui »;
cela fait que le Comte de V. doit au roi la somme de 3361 1., 19 s.,
3 d.; mais comme, d'autre pàrt, le gouverneur du comté de V. se
plaignait à la Chambre des Comptes que les revenus de ce comté
avaient été fort exagérés dans la prisée, il est décide par le con-
(i) C'est le moment méme où Bertrand du Guesclin mit fin aux ravages
des Grandes Compagnies en les entrainant en Espagne (1366),
(2) Remarquons que parmi les revenus assignés à J. G. dans la ville méme
de Vertus se trouve la collation des prébendes canonicales de la collegiale de
S.tjean.
Arch Slor. Lomb., Anno XXXII, Fase. VI. 19
294 HENRY COCHIN
seil du roi que le roi rattacherait à son domaine quelques terres
attribuées d'abord au comté et qu'il tiendrait quitte le comte des
sommes à lui dùes; cette transaction est exposée avec plus de
détail dans les lettres royaux qui suivent.
fol. 45 V." - 56 r.o Copie de lettres patentes en forme de
charte de Charles V; Paris le 9 juin 1375; ces lettres contiennent
(fol. 45 V. - 50 V.) le vidimus de lettres patentes en forme de charte
de Jean le Bon datées de Paris, avril 1361. Celles de Charles V
sont en fran^ais, celles de Jean le Bon en latin (i).
Charles V rappelle que, comme régent du royaume, en l'ab-
sence de son pére, il a constitué en dot a sa soeur Isabelle, lors
de son mariage avec Jean Galéaz Visconti, trois mille livres de
rente sur la ville et chàtellenie de Sommières (2), érigées en comté.
Le roi Jean (charte latine), sur la demande des conjoints, con-
sent à leur assigner ce revenu sur un territoire plus rapproché de
Paris, afìn que « quando dictos filium et filiam nostros in Fran-
« ciam venire contigerit, frequencius ipsos videre possimus quam
« eosdem videremus si in locis de Sumidrio predicto residerent »>.
Il fait rentrer Sommières dans le domaine royal, et choisit en
échange un territoire forme du chàteau de Moymer, des villes de
Vertus et de Rosnay, du chàteau et de la ville de La Ferté sur
Aube et de leurs dépendances; il forme un comté, ayant exacte-
ment les mémes droits et les mémes devoirs que celui de Som-
mières; c'est à dire que Galéaz et Isabelle auront le droit de tou-
cher tous les revenus du comté jusqu'à concurrence de 3000 1. t. ;
que le comté resterà a celui des dé^tx conjoints qui survivra à
l'autre; qu'après leur décès il reviendra à leurs enfants ; que s'ils
n*en ont pas, il fera retour à la couronne. Le comté aura toutes
les franchises ; l'hommage, cependant, en sera du au roi et il res-
sortira à la juridiction du Parlement. Il devra étre fait prisée de ce
nouveau comté. En dehors des 3000 1. de rente qu'ils pourront en
percevoir, le roi leur donne, en plus de l'estimation, les bàtiments
du chàteau de Moymer. La Chambre des Comptes de vrase charger
de la prisée.
(i) M. Longnon a préféré pubblier ce document d'aprés le texte qui en
existe au Trésor des Charles, J. 503, n.*' 3.
(2) Sommière, département du Gard, arrondissement de Nimes. Cf. Germer -
Durano, Dictionnaire topographique du Gard, p. 239.
JEAN GALÉAZ VISCONTI ET LE COMTE DE VERTUS 295
lei finit la charte de Jean le Bon et reprend celle de Charles V;
le roi dit qu'après que la prisée ordonnée, « escripte en un livre
« de parchemin seellé de nostre contre seel » (i), a été exécutée
« notre amé Bertran Guasch, escuyer, gouverneur du dit conte de
u Vertus, si comme il puet apparoir par lettres patentes seellées du
« grant seel de nostre dit frère [GaleasJ (2), dont le transcript est de-
« mouré en nostre dite Chambre des Comptes, se soit puis naguères
« trait par devers nous et nos dites gens des Comptes, et soy dolu
« et complaint de plusieurs villes et habitans d'icelles, nobles et au-
u tres du dit conte, qu'il disoit à lui estre baillez en la dite assiette
« lesquelz refusoyent et contredisoyent ».... D'un autre coté le comte
de Vertus devait au roi une somme (3361 livres) pour la raison
exposée plus haut; la Chambre de Comptes, comme nous Tavons vu,
rattache à la couronne un certain nombre de terres indiquées primi-
tivement comme faisant partie du comté (par exemple tous les biens
de Tabbaye de Clairvaux) mais, en méme temps, elle veut que Jean
Galéas paie la somme due. Après avoir pris ces mesures la Cham-
bre des Comptes dèci are que « toutes les autres parties, demaines
« et villes contenues en la dite prisée et assiette seront et demour-
« ront à tous jours de la conte de Vertus et ressort d'icellui
« conte ". Le roi approuve et ratifie ces mesures; il donne cepen-
dant u de grace espécial » pleine et entière quittance au comte
àe Vertus de la somme de 3361 livres et cela « pour et ou nom
« des enfens du dit conte et de nostre dite suer et pour contem-
« placion des dis meneurs ».
fol. 56 r.o Fin de la charte de Charles V; suit immédiate-
ment l'exposé de la raison pour laquelle la copie de la prisée a
été entreprise en 1446.
fol. 56 r.o - V ° Lettre du procureur de « Madame Marguerite
u d'Orléans, comtesse d'Estampes et de Vertus, dame de Cligon ",
demandant que l'on lui fasse une copie de « l'assiette et prisée
« qui fut faicte ja pie^a à feu le due de Milan ».
fol. 56 v.o « Ex ordinacione dominorum Compotorum.... cujus
(i) Voilà donc la description de l'originai de la « prisée », dont nous n'avons
plus que la copie.
(2) Notons ce fait : Galeas prévenait le roi des nominations qu'il faisait daps
l'intérieur de son comté.
296 HENRY COCHIN - JEAN GALÉAZ VISCONTI, ECC.
« assiete in dieta camera existentis facta fuit collacio hujus pre-
u sentis copie, die XVIIJ maii millesimo CCCC'"^ XLVJto, per yne
u (plus bas) Fromont »;
fol* 57» 5^ r° v.o blancs;
fol. 59 r.* n Copie de plusieurs adveuz et dénombremens de
« plusieurs terres et seigneuries tenues et mouvant de la conte de
a Vertus.... et aussi de certains previlèges.... baillez au temps que
« la prisée et assiete fut faicte, lors baillée en assiete de terre par
« le roy Charles le Quint de ce nom, à feue Madame Ysabel de
li France sa seur, fiUe du roy Jehan leur pére, et feu le comte de
u Milan son mary, et depuis apportez en la Chambre des Comptes
u à Paris, avec la dite prisée; lesquelz dénombremens et previlèges
« à la requeste de noble et puissante dame Madame Marguerite
a d'Orléans, à présent dame et comtesse de la dite conte de Ver-
« tus, par l'ordonnance de nosseigneurs des comptes ont esté et
« sont copiez et escriptz en ce présent livre et icelui livre ou copie
4i baillié à ses gens et officiers pour elle afìn d'avoir cognoissance
« de ses vassaulx et subgiez.... dont icelle dame ne ses gens et
« officiers ne povoyent avoir vraye cognoissance parce que les
« papiers, registres et autres anciens enseignemens d'icelle conte
« ont esté perduz, destruiz, ars, gastez.... ou la plus grant partie
« d'iceeulx par la fortune de la guerre ».
Suivent fol. 59 v.» à 163 v.o (fin du volume), les copies de nom-
breux aveux, de nombreux privilèges émanés surtout des comtes
de Champagne. Nous laisserons de coté ces pièces qui malgré leur
intérét évident pour l'histoire de France, sont en dehors de Fobjet
propre de la prisée et touchent peu Jean Galéas.
La coUation de la copie de toutes ces pièces a été faite le
20 juin 1447.
Henry Cochin.
L'ingresso di Francesco Sforza in Milano
e r inizio di un nuovo principato
IO intendimento è di esporre, nella presente Memoria,
gli ultimi giorni della lotta titanica fra il conte di Pavia
e la repubblica milanese, i primi del dominio della
casa sforzesca, la quale per potenza, per attività, per
benemerenze non fu certamente inferiore a quella che la prece-
dette e di cui fu la diretta e legittima continuatrice : la viscontea.
Dividerò pertanto il mio lavoro in quattro capitoli : nel primo trat-
terò delle condizioni di Milano sul tramontare di sua vita repubbli-
cana, de' tentativi da essa fatti per resistere al fortunato condottiere,
della laboriosa tela da costui ordita per prepararne definitivamente
la rovina ; nel secondo e nel terzo parlerò degli avvenimenti, che
si svolsero dalla prima entrata in Milano del vittorioso conte al
giorno in cui fu proclamato solennemente duca; nel quarto, infine,
accennerò al lavorìo diplomatico del novello duca per farsi rico-
noscere tale da' potentati italiani ed esteri, fino al momento in cui,
per rendere stabile la propria condizione, comprese essere neces-
saria la lotta con Venezia. Ad altra epoca, però, l'esposizione do-
cumentata di questa fino alla pace di Lodi; la quale, mentre chiuse
l'età de' grandi condottieri, segnò il principio di quel glorioso e
fecondo periodo, noto sotto il nome di « equilibrio italiano ».
CAPO PRIMO.
L'ultimo atto del grande dramma, che ha per suoi protagonisti
il popolo milanese, desioso di libertà, e il conte Francesco Sforza,
avido di succedere nell'ex-dominio visconteo, sta oramai per com-
298 ALESSANDRO COLOMBO
piersi. Né la catastrofe poteva essere diversa. La repubblica di S. Am.
brogio, guidata negli ultimi momenti da uomini inetti ed ambiziosi,
aveva creduto di trovare la propria salvezza nell'alleanza co' vene-
ziani; ma questi, suoi naturali nemici, mentre potevano benis-
simo difenderla (e lo fecero, crediamo, in parte), miravano in se-
greto a rovinarla, per estendere i propri domini fino all'Adda, ed
oltre. Le lunghe guerre e le continue scorrerie degli amici e dei
nemici avevano, d'altra parte, ridotto il paese all'intorno un vero
deserto ; e però le popolazioni che, fuggendo dalla campagna, si
erano agglomerate nella assediata città con la speranza di trovarvi
sicurezza e vettovagliamento, vi aveano accresciuto la miseria e la
desolazione. Si era, è vero, sul finire di febbraio, e cominciavano
allora i primi tepori della bella stagione ; ma molti mesi doveano
ancor passare prima della raccolta : e quale raccolta si poteva at-
tendere, sperare da un corpo smunto e disfatto, qual'era quello
del territorio di Milano? La carestia, pertanto, era l'unica prospet-
tiva possibile ; la fame, l' inevitabile e triste sua compagna. Ora,
si sa, contro la fame riescono vane tutte le ragioni, tutte le pro-
messe, fossero state anco più lusinghiere di quelle che si sforza-
vano di dare i veneziani ; e Francesco Sforza ne era tanto bene
persuaso, che, a buon conto, avea dato ordine rigoroso a' suoi di
non soccorrere gli affamati milanesi, che sarebbero venuti (e ne
venivano continuamente) a cercare un po' di alimento al campo.
Egli aveva deciso di vincere l'ostinata città con l'unico mezzo, che
ancora gli rimaneva nelle mani, dopo che gli era andato a vuoto
il tentativo di sorprendere Monza (i); e vi riusciva egregiamente.
Gli storici e i cronisti contemporanei ci hanno lasciato un quadro
abbastanza completo delle tristi condizioni di Milano in que' giorni,
e in modo particolare il Simonetta (2), che fra tutti è certamente
quello che ancora merita maggior considerazione. Sulla sua falsa-
riga si sono calcati posteriormente il Corio (3), il Ripamonti (4), il
(i) Addi I.! febbraio 1450.
(2) JoH. SiMONETTAE, De reb. gest. Frane. I Sfortiae, in Muratori, R, I. SS.^
to. XXI, ce. 593-94.
(3) B. CoRio, Storia di Milano^ voi. Ili, pp. 173-74, Milano, 1857.
(4) Jo3. RiPAMONTii Hist. patriae dee. Ili, lib. V, p. 402, Mediolani, 1641.
Le parole del R. sono riportate, tradotte in italiano, dal Cusani, Storia di Mi-
lano, Milano, 1861, voi. I, p. 207.
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 299
Rosmini (i), per non citare che i maggiori ; il Verri (2) ha creduto
bene di aggiungervi un documento, estratto dall'Archivio Civico, seb-
bene porti una data alquanto anteriore (28 aprile 1449). In una let-
tera, poi, dello Sforza a' fiorentini, scritta da Cassano il 21 dicem-
bre 1449 e pubblicata dal Sickel (3), si dice che tale era fin d'allora
la carestia in Milano, che molti cadevano « morti de fame per le
« strate ». \arì altri accenni di questo miserando stato di cose
potremmo ritrovare altrove (4); e che ne fosse edotto lo Sforza,
e in cuor suo forse se ne rammaricasse, appare da una minuta
lettera, senza indicazione di luogo, di tempo e di indirizzo, ma
scritta probabilmente al conte da un suo fido in Milano, poco prima
della resa della città (5). Ivi, infatti, si consiglia allo Sforza di non
allarmarsi delle cattive notizie, che gli potessero venire dagli as-
sediati, né di darne dimostrazione ad alcuno; perchè essi « scranno
u sempre boni Castellani », e se potranno resistere « fin che have-
« ranno da mangiare », l'avvenire è nelle mani di Dio. Quanto
fanno per essi i veneziani è semplicemente da « barbari » ; li lu-
singano a resistere, nella speranza che alla fine abbiano a gettarsi
nelle loro braccia; ma in ciò sono favoriti da pochi. Noi, per conto
nostro, dice l'autore ignoto della lettera, nulla lascieremo d'inten-
tato per conservare e salvare l'afflitta città « da tanti pericoli et
« affanni », e se fino ad ora « cum una mano se siamo scaldati per
« hauere Millano, da mo inanzi lo farimo cum doe ». Parlando poi
espressamente de' milanesi, li chiama « poueri homeni...., ali quali
u hauemo una grandissima compassione ». Noi insistiamo su tale
fatto, cioè della miserabile situazione economica della repubblica
in questi tempi, perchè siamo convinti che la fame e il triste mi-
raggio di un più fosco avvenire abbiano veramente indotto i buoni
(i) C. Rosmini, Storia di Milano, voi. II, p. 44, Milano, 1820.
(2) P. Verri, Storia di Milano, voi. Il, p. 27, nota i, Firenze, 1851. — Tale
documento è pure riportato, ma senza data, dall'annotatore del Corio, op. cit.,
voi. Ili, pp. 189-90.
(5) Th. SiCKhL, Beitràge und Bericht. ^ur Gesch. der Ewerb, Mailands durch
Frani Sforma, doc. XI, in Archiv fur Ktinde òsterr. Geschichtes-Quellen, Wien,
1855, XIV B.
(4) Fr. Philelphi, Epist,, lib. VII, p. 46, Venetiis, 1492 ; P. C. Decembrii,
Vita di Frane. I Sfor., in Muratori, R. I. SS., to. XX, e. 1042.
(5) Arch. di Stato di Milano, Docum. diplom., Repuh. Ambrosiana, 14^0 (ma-
lamente attribuita all'anno 1449).
300 ALESSANDRO COLOMBO
ambrosiani, più che la retorica del futuro conte di Valenza, a
sottomettersi al già odiato e vilipeso Sforza. A ciò si aggiunga il
rancore mal dissimulato contro i veneti, non ostante il formale
trattato di alleanza del 24 dicembre 1449 (i), rancore che s' era
andato sempre più rinfocolando dopo le disillusioni degli ultimi
avvenimenti, come proverebbero anche le parole della lettera sopra
citata: « alcuni citadini Milanesi gli adheriscono », e il fatto
che lo stesso partito della guerra, nelle cui mani era la somma
delle cose e che fino allora era rimasto l' idolo della moltitudine,
perdeva continuamente terreno. Eppure — strano a dirsi ! — a Ve-
nezia, ancora il 26 febbraio, si avea ferma fiducia di trionfare dello
Sforza ; e l' inviato milanese Righino de' Panigarola scriveva in
quel giorno stesso di là al suo governo, esortandolo a bene spe-
rare nelle promesse e negli aiuti della Serenissima, ma in pari
tempo a non esimersi dal concorrere per la sua parte nelle spese
della guerra campale (2).
(i) SrcKEL, op. cit., doc. XIV. — Il Bertolini, nella sua recensione a questo
importante lavoro (in Arch. stor. Hai, Nuova serie, XV, 2, p. 43, nota 43, Fi-
renze, 1862), dice che la copia, di cui si servi il Sickel (in Arch. di Stato di
Milano, Corrispond. ducale^ ^449)ì è però scorretta e manchevole, e perciò si
astiene dal trascriverla. Al postutto, le basi delle proposizioni fatte da Venezia
a Milano doveano essere le stesse di quelle da essa fatte allo Sforza, cioè a' suoi
inviati, il fratello Alessandro e gli oratori Andrea da Birago e Angelo Simonetta :.
trattative, com' è noto, andate a monte.
(2) Arch. di Stato di Milano, Docutn. diplom , Repub. ambrosiana, 14^0.
Esiste solo in copia cartacea; manca quindi della firma e del recapito. In fine ha
però questa annotazione: « Copia litterarura Righini de panicarolis ex uenetijs
« ad Mediolanum in cifra missa ex ferr.^ per ant. de tricio ». Tale lettera iu
dunque intercettata dall'agente sforzesco Antonio da Trezzo, di cui parlerò più
avanti, e da lui spedita poi in cifra al suo signore ? — Ecco che cosa dice in
sostanza il Panigarola : la Signoria di Venezia ha troppa carae al fuoco, ed ha
ormai sostenuto tante spese, che è anche giusto che Milano vi concorra per la
sua parte ; bastano 506 mila ducati : con questi si potrà levare gente in Pie-
monte, acquistare Novara « et quello paese, dal quale se hauerano uictualie ».
Il Conte, per tal modo, « hauerà tanto fuoco ale spale, chel non saperà come
« governarse ». Notevole, poi, l'accenno ad Innocenzo Cotta, fermato al campo
dì Sigismondo Malatesta, al quale avea chiesto un salvacondotto per Bergamo,
dove teneva il suo bagaglio, perchè la Signoria vedeva in lui un inviato segreto
dello Sforza ; anzi essa, nel mattino del 26 febbraio, avea scritto al Malatesta,
rimproverandolo di aver concesso al Cotta il salvacondotto, e dandogli ordine
di farlo venire a Venezia, perchè « questa S.rìa uole hauere da luy informatioae
l'ingresso di FRANXESCO sforma in MILANO, ECC. 30I
Del resto, neanche lo Sforza era rimasto per parte sua iao-
peroso ; e se gli avvenimenti- Io condussero alla vittoria finale, si
fu perchè egli seppe, con la sua consueta abilità, dirigerli a pro-
prio esclusivo vantaggio. Egli non si era mai create illusioni sulle
difficoltà dell'impresa di Milano ; basterebbero a provar ciò, se non
ci fosse altro, le prime parole della lettera più volte ricordata:
« Quando accade ala ex. vostra a parlare cum qualchuno da Mil-
H lano, che uada a Millano, ne intrare in rasonando deli facti de
« Millano, per niente non se mostra la ex. vostra alterata cum al-
« cuno.... ». Ma egli temeva non tanto da' milanesi, quanto da' loro
alleati e da quelli che si facevano chiamar tali. Prima sua cura per-
tanto era stata quella di diminuire il numero di costoro, staccandoli
naturalmente dall'orbita di Milano e di Venezia : il che gli era riuscito
in parte abbastanza bene, ricorrendo ora alle lusinghe e alle arti della
diplomazia, ora adoperando, se queste non bastavano, le minaccie
e le pressioni a mano armata. È noto quanto egli fece a proposito
di Guglielmo di Monferrato, allorché ebbe motivo di dubitare della
sua fedeltà (i); ma ben di rado ricorreva a questi estremi. Noi
possiamo seguire la politica dello Sforza consultando, oltre la
pregevole pubblicazione documentata del Sickel (2), i lavori del
Buser (3) e del Toderini (4). Nuovi documenti, da noi veduti al-
« di facti del Conte ». È pur ricordato (ciò che prova, come vedremo, che il so-
spetto del conte era giusto) il tradimento del marchese di Cotrone, ossia del
Ventimiglia, uno dei luogotenenti dello Sforza, incaricato di difendere Cantù dai
v^eti. II tradimento, come si sa, andò a vuoto per l'accortezza del conte ; tut-
tavia il Panigarola pare si contenti del semplice tentativo, quantunque certo alla
Signoria sarebbe piaciuto che fosse completamente riuscito. La elezione infine dei
nuovi capitani, conchiude la lettera, è riuscita molto grata alla Signoria, avendo
avuto assicurazione « che tuti sonno fidelissimi, et de dispositione prima de mo-
« rire che perdere la libertà ». AUudesi a' Capitani e difensori della libertà nomi-
nati il i.° gennaio 1450, de' quali avremo occasione di parlare più avanti.
(i) Guglielmo di Monferrato, rinchiuso nel castello di Pavia nel maggio
?:449, mentre lo Sforza moveva al campo contro Vigevano (cfr. il mio lavoro :
Vigevano e la Repubblica Ambrosiana nella lotta contro Francesco Sfor-^a in
Boll, della Soc. pav. di stor, patria^ fase. Ili, 1903, pp^ 18-19), ^^^ ^" rimesso
in libertà che dopo la presa di Milano.
(2) SicijEL, op, e loc cit., e Bertolini, ree, cit., dal titolo : // conquisto di
Milano, ecc., p. 40 sgg,
(?) B. Buser, Die Bexiehun. der M^diceer, ecc., Leipzig, 1879.
(4) Teod. Hoo^B^i^ Francesco Sforma e Fene^ia ia Arcb. Veneto, IX, 1875.
302 ALESSANDRO COLOMBO
TArchivio di Stato di Milano, serviranno a metterla in mag-
gior luce.
Non v' ha dubbio che l'alleanza tra Milano e Venezia, se fosse
stata sincera, avrebbe potuto distruggere tutte le speranze del no-
stro pretendente ; e difatti fu un momento, in cui egli si sentì quasi
solo, e comprese tutto l'orrore di una prossima rovina: tanto è
vero che, per guadagnar tempo, finse di riprendere le trattative
con quella repubblica, cui, dal trattato di Rivoltella in poi, si era
sempre studiato di ingannare. Ma l'abilità e la fortuna (i) non gli
mancarono anche in questa occasione. Senza contare l'appoggio
morale di Cosimo de' Medici, e per esso de' fiorentini, il conte era
riuscito a trarre a sé il Gonzaga (2), generalissimo de' milanesi,
e non pochi altri personaggi, già influenti in Milano stessa, quali
Pietro Pusterla (3) e Innocenzo Cotta (4). Dalla sua erano pure,
e lo mostrarono più tardi co' fatti, Pietro Cotta, Cristoforo Pagnano,
Gaspare da Vimercate e Guarnerio da Castiglione (5). Con promesse
poi di donativi, di impieghi e di onori cercava di tenersi avvinte
quelle persone, che altrimenti sarebbero sfuggite. Così fece per i
fratelli Toscani di Milano, con sua lettera in data Calco, 27 gennaio
1450 (6), relativamente al possesso di alcuni territori del nova-
(i) Cfr. I. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia^ traduzione
italiana del Valbusa, Firenze, 1899, voi. I, p. 25 sg,, pp. 43-44.
(2) Dopo la sommossa del settembre 1449, per cui il governo di Milano,
dalle mani de' nobili e ghibellini, passò in quello de' guelfi e plebei, il Gonzaga,
non sentendosi più sicuro in quella città in causa della anarchia che ne sussegui,
col pretesto di portare un rinforzo a Crema era passato con molti soldati a lui
devoti allo Sforza, ottenendo in premio 18.000 ducati e Tortona e Casalmag-
giore. Cfr. Crist. a Soldo, Istoria bresciana, in Muratori, R. I. SS., XXI, 860.
(3) Era fuggito al campo sforzesco in seguito alla sommossa del settembre,
che lo avea deposto dal supremo magistrato della repubblica, al quale era stato
chiamato nel luglio precedente insieme col Castiglione e Galeotto Toscano.
(4) Ved. la nostra nota 2 a p. 300.
(5) Il Gabotto, U attività politica di P. C. Decembrio, in Giorn. Ligustico^
1893, pone fra i fautori dello Sforza anche il Decembri.
(6) Arch. di Stato di Milano, Registri ducali, Frammenti, 14^-14^2 : « Fran-
« ciscus Sforila uicecomes Marchio papié etc. Attendando la justa et honesta ri-
« chesta di nostri seruitori Azzo et fratelli deli toschani citadini de Milano, Siamo
* contenti et motu proprio et ex certa scientia li prometemo, per la presente
« nostra littera, di confirmarli et liberamente darli in sua mano et possanza li
« luochi et terre de calpignano, sitiano et casalino, del territorio nouarese, nel
L INGRESSO DI FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 303
rese, già goduti dal padre loro Galeotto (i); ma prima vuole
avere « lo dominio de Miliario, uel saltem.... el nostro stato in
« pace » : clausola prudentissima e necessaria in que' tempi di ge-
nerale malafede; e la conferma non avvenne difatti, come vedremo,
che nel maggio. Quando infine vide ogni possibilità di accordo
con Venezia svanita, per non essere preso tra due fuochi, cercò di
assicurarsi dalla parte di Savoia; e ne trovò il duca ben disposto
a trattare. I preliminari vennero aperti sulla fine d'ottobre del 1449,
con la tregua d'un mese (2) ; ma la pace non fu conchiusa che il
27 dicembre successivo: per essa lo Sforza cedeva a Ludovico
alcuni distretti del territorio milanese (3). Dietro il duca di Savoia,
altri stati a lui vicini ed aderenti sottoscrissero -a quel trattato.
Infatti il primo articolo di esso stabiliva che, « entro un mese
« pross. fut., caduno de dicti Signori deba nominare suoi adhe-
« renti, colligati et recommandati, quelli sono et intendesseno in-
« elusi in questa pace, et la nominatione de quelli fare a l'altra
« modo, forma et ragione li hebbe el spectabile Galeoto quondam patre de dicti
« Azzo et fratelli dala recolenda memoria delo 111. S/^ quondam duca de mi-
c( lano.... ». La lettera, che porta la firma del conte, è controsegnata « Johan-
« ninus ».
(i) Ucciso nella predetta sommossa del settembre 1449.
(2) Il Gabotto, Lo Stato Sabaudo da Amedeo FUI ad Emanuele Filiberto,
Torino, 1892, voi. I, p. 11, nota 3, dice che il documento, con la data del
24 ottobre '449, si trova nell'Arch. di Stato di Torino, Trattati e protoc. ducali ;
il Bertolini (op. cit.) accenna a una lettera di Ludovico di Savoia allo Sforza
d. in Montecalerio il 2 novembre, con la quale quel duca ratifica la tregua, che
il Conte avea già ratificata in Melegnano il 26 ottobre : lettera esistente nell'Ar-
chivio di Stato di Milano (allora di S. Fedele), Corrispond. ducale, 1449. Cfr. Sickel,
op. cit, p. 212, nota 6.
(3) S. GaiCHENON, Histoire généal. de la R. Maison de Savoye, Lione, 1660,
to. II, p. 87 ; SiCKEL, op. cit., p. 248 e doc. XX. Esiste in copia cart., donde fu
cavata dal Sickel, nell'Arch. di Stato di Milano, Trattati, 1449, e porta, erronea-
mente in apparenza (cfr. la giusta osservazione di E. Rubieri, Francesco I Sfor:(a,
Firenze, 1879, voi. II, p. 196 e nota i), la data del 27 dicembre 1450. Copia
di questo documento il Gabotto (op. cit.) dice esistere nell'Arch. di Stato di
Torino, Tratt. e protoc. due, dove dice anche essere una « convenzione tra Mi-
c( lano e il duca di Savoia contro... lo Sforza... ». Questo documento, citato alla
nota 3 della p, 1 1, deve ascriversi al 6 marzo 1449 (^ quello cioè edito da A. Ca-
sati, Milano e i principi di Savoia, Torino, 1853, pp. 52-59); l'altro, ascritto al
27 dicembre 1450, è veramente del 27 id. 1449, detto 1450, perchè l'anno in-
comincia a nativitate.
304 • ALESSANDRO COLOMBO
M parte « ; aggiungendo che, « entro due mesi p. f., quelli adhe-
M renti, colligati et recommandati debano hauer ratifficato la dieta
n pace », con l'obbligo alle due parti contraenti di « certifficarse
u 1 uno 1 altro » nel predetto termine. E però, mentre con sua lettera
datata da Torino, 22 gennaio 1450 (i), il duca di Savoia citava, fra
i suoi aderenti e raccomandati, il re di Francia, il Delfino, il mar-
chese di Monferrato, il conte di Lavagna Ludovico del Fiesco, il
visconte di Reillane Ludovico Bolleri, Antonio di Romagnano e
Francesco di Novello, le comunità di Berna e del Vallese ; due
altri nuovi documenti dell' Archivio di Stato di Milano , finora
inediti, ci provano che, nel febbraio 1450, Antonio marchese di
Romagnano e Giovanni marchese di Monferrato entravano suc-
cessivamente nella lega tra il Savoia e lo Sforza, il primo il giorno
5 febbraio (2), il secondo il 21 dello stesso mese (3): e ciò, come
è detto in uno de' documenti, « prò ademplimento et executione
a contentorum in pace nuper, uidelicet die uigesimoseptimo mensis
« decembris proxime preteriti, in ciuitate Taurini celebrata per et
« inter prefatum Illust. et ex."»" dominum Ducem Sabaudie, seu
« agentes prò eo parte una, et Illustrem et Ex.*" dominum Fran-
« ciscum sfortiam uicecomitem marchionem etc. ac Papié comitem
« Cremone dominum etc, seu agentes prò eo parte alia.... » (4).
Che lo stesso abbia fatto il conte Francesco Sforza, risulta da mi-
nute di documenti da noi viste nel precitato Archivio, senza data,
e che furono sempre malamente ascritte a dopo il 26 febbraio 1450;
esse, infatti, non sono se non le bozze dell'elenco de' collegati, ecc.
che, giusta il concordato del 27 dicembre 1449, lo Sforza, uno dei
contraenti, doveva consegnare, nel termine d'un mese, all'altro,
vale a dire al duca di Savoia (5). In una minuta cartacea del-
(i) SicKEL, op. cit., doc. XXI.
(2) Arch. di Stato di Milano, Docum. diplom., Repub. Ambrosiana, 14^0.
Orig., perg., mill. 344 x 163.
(3) Ibid., Orig., perg., mill. 385 X 271.
(4) Richiamiamo l'attenzione del lettore su questo passo del documento in
data 21 febbraio 1450 (il che è ripetuto, sebbene non così esplicitamente, nel-
l'altro in data 5 id. id.), come prova irrefragabile che il famoso trattato ascritto
ai 27 dicembre 1450 è effettivamente del 1449. Detto passo è riportato anche dal
Sickel (op. cit., p. 212, nota 7) a conferma del doc. XX.
(5) Sono cinque minute cartacee, che si riferiscono sempre a uno stesso ar-
gomento. Colui, che le compulsò prima di noi e alla bell'e meglio le clasatìcò,
L INGRESSO DI FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 305
rArchivio stesso troviamo ancora quattro ratifiche, u facte prò
« I>aGe facta et firmata per 111.'""'" d.num d.num cum Duce Sa-
fl baudie « ; ma evidentemente solo le prime due sono da con-
siderarsi come conseguenza della predetta pace : quella con Ni-
colò, Sveva, Giano e Battista d' Oria, figli di Leonello, condo-
mini di Valle d' Oneglia, • e l'altra con Benedetto d' Oria fu Paolo,
di Finale od Albenga, entrambe del 20 febbraio 1450 (1). Oramai
lo Sforza, sicuro dalla parte del Ticino e della Liguria, poteva
spiegare tutte le sue forze contro il nemico principale, i veneziani;
e difatti impartì, come vedremo, gli ordini opportuni a' suoi ge-
vi scrisse sopra, in matita, « 1450, dopo il 26 febbraio ». Ricordiamo alcuni dei
principali aderenti del conte Francesco : la comunità di Genova, il duca di Mo-
dena e Reggio, il marchese di Mantova, le comunità di Bologna, Ancona e Lucca,
la confederazione degli Svizzeri, i Fieschi, i Campofregoso, i D'Oria, i Del Car-
retto, gli Spinola, i Guttuarii di Pavia, i marchesi di Ceva, i conti di Venti-
miglia e di Tenda, i nobili di Cocconato, i Borromei di Palestre, i nobili Grotti
di Robbio, i Rusca, ecc.
(i) Le altre due ratifiche sono rispettivamente del 7 marzo 1450, co' fra-
telli Luigi, Lancellotto e Galeazzo de' Grotti fu Galeazzo, di Milano, e del suc-
cessivo 18 marzo, col milite Biagio Assereto- Visconti fu Costantino, podestà di
Milano. — Riportiamo la parte del documento che a noi interessa (Arch. cit.,
Trattati, 1428-14$^, min. cart.) :
« M^CCCCLM
« Infrascripte sunt ratificationes facte prò pace facta et firmata per IlLmiiin
« d.num d.num cum Duce Sabaudie.
« Primo. Ratificatio Nicolay, Scene, Janis, et Baptiste de Auria filij, et procura-
« toris Sp.lis d.ni Leonelli de auria condomini Vallis vnelie, facta sub anno
« 1450 indictione XIIJ. die XXa februarij, presentibus Jeronimo noario, leo-
« nardo, petro et Georgio beuiardo districtualibus diete vallis, testibus etc.
« Subscripta per Girardum verceUinum notarum ' publicum imperiali aucto-
« ritate, qui scripsit et subscripsit se etc.
a Secundo. Ratificatio Sp.lis et generosi d.ni Benedicti de auria quondam d.ni
« pauli, facta sub die XXa februarij anni 14 50. Et subscripta, rogata, et
ce scripta per vincentium de campis de fenario (Finale) imperiali auctoritate
« notarium. presentibus Sp.'ì d.no Christoforo dentuto potestate Fenarij, egre-
« gio legum doctore d.no Johanne de ricijs vicario Fenarij, egregio legum
« doctore d.no Antonio de Judicibus de fenario. Franchino ricio Ciue alben-
« gane, et Nicolosio de valle de fenario, testibus etc. ».
Lo stesso Benedetto d' Oria, come vedremo, il 31 marzo 1450 firmò de' patti
e capitoli in Milano col conte Francesco, divenuto duca ; in essi egli è chiamato
" citadino zenouexe „
3o6 ALESSANDRO COLOMBO
nerali (i). Ma non contento degli ultimi « successi diplomatici »
ottenuti, cercò anche di aprire una breccia nel campo nemico ;
della qual cosa non si deve movergli rimprovero. Tradire o favo-
rire il tradimento, pur essendo convinti di essere a lor volta tra-
diti, era costume de' capitani di ventura d'allora, come di tutti i
tempi; immaginarsi poi quando le proposte venivano da quegli stessi,
cui premeva di attirare nel proprio partito ! Cosicché è a credere
che lo Sforza abbia accolto con vero piacere le proposizioni di
pace, che il conte Jacopo Piccinino gli veniva facendo a mezzo
del comune amico Luchino Palmieri, quantunque avesse molti mo-
tivi a non fidarsi troppo della lealtà del suo più acerrimo nemico.
A lui non parca vero di poter staccare un capo tanto valente dalle
file de' veneziani e di servirsi di lui stesso per combatterli : e però
rispose di sì a quasi tutte le domande del braccesco, sebbene alcune
fossero un po' gravose, affrettandosi anzi a fargli pervenire l'accetta-
zione per mezzo dello stesso Palmieri, redatta in altrettanti capitoli,
da lui scritti e firmati il 22 febbraio a Vimercate (2). Le pratiche non
ebbero seguito, perchè il Piccinino, pentitosi all'ultimo momento, e
forse anche temendo della sincerità delle concessioni troppo larghe
dello Sforza, preferì di restare ancora co' veneziani (3) ; ma il
(i) Tuttavia anche da quella parte egli aveva già in qualciie modo prov-
veduto, come fa fede una lettera in data Lodi 12 gennaio 1450, firmata Cichus
de Calabria e diretta al referendario e agli officiali a bullettarum » della sua
città di Cremona, nella quale, d'ordine del Conte, venivano dallo stesso Cicco
deputati « per bona guardia de questa citade... alle tre porte di essa citade » i
seguenti sei cittadini : Marco de' Cagnoli e Antonio de' Riccardi per il ponte e
la porta d'Adda, Pietro da Lodi e Daniele de' Cucardi per la porta Regale, Ga-
briele de' Gavazio e Luigi Nucardi per la porta Cremonese (Arch. cit., Registri
ducali. Frammenti, 14^0-14^2^ fol. 219).
(2) Doc. L Due copie cartacee, che chiameremo A q B. In quest'ultima si
trovano le risposte date direttamente dallo Sforza alle domande del Piccinino;
ed esse vennero ricopiate in A, per essere poi redatte tali e quali in istrumento,
una volta accettate dal Piccinino, mutando naturalmente i pronomi dalla prima
alla terza persona. Rioroduciamo ^ ; e le varianti di B sono messe in nota alla
nostra edizione.
(3) Il CoRio, che narra (op. cit., voi. Ili, pp. 171-72) la tentata defezione
del Piccinino copiando il Simonetta, la pone un po' prima del 20 febbraio, e ag-
giunge che egli " ingiustamente... ritenne Luchino „ e, dopo aver svelato tutto
al Malatesta e a' commissari veneziani, svisando il vero, " acciò non si potesse
" sapere il trattato, lo fece impiccare a un merlo del luogo di Bosisio „, dove
l'ingresso di FRANCESSO sforza in MILANO, ECC. 307
fatto di essere state iniziate è una prova di quanto asserivamo
più sopra, cioè che il conte Francesco, pur di riuscire nel suo
scopo, nulla lasciava d'intentato, sortisse poi buono o cattivo ef-
fetto (i).
Se noi ci facciamo ora a considerare il lato puramente militare
della sua linea di condotta, vedremo che lo Sforza stratega non
è inferiore allo Sforza diplomatico. Il Verri ha espresso in propo-
sito un giudizio abbastanza felice. Dopo aver fatto osservare che,
allora, era avvenuto un grande mutamento nell'arte della guerra (2),
così scrive : « .... il conte.... in ogni parte si presentò abilissimo
« generale nel postare il suo campo, nel prevenire il nemico, nelle
u marcie giudiziosamente condotte, nel cogliere il momento per at-
« taccare, nel dirigere la battaglia, nel provvedere di tutto l'armata
« propria e impedire la sussistenza al nemico, nel conservare la
u militare disciplina, risparmiare quanto era possibile la miseria
« de' popoli, e nel tempo stesso conservarsi l'amore de' soldati che
« giungeva sino all'entusiasmo w (3). E trova modo di fare un con-
si trovava accampato dopo la sua unione col Colleoni. Lo Sforza fu preso da
tanta ira, che giurò di vendicarsi acerbamente ; il che spiega e giustifica, fino a
un certo punto, la parte presa qualche anno dopo dallo Sfoiza alla cattura e
morte del Piccinino. Nel frattempo il Venti miglia, che si trovava a Cantù, cer-
cava di tradire il suo signore co' veneziani; ma avutone avviso il Conte, lo ar-
restò lui stesso e lo fece tradurre sotto buona guardia a Lodi, e poscia a Pavia,
a far compagnia a Guglielmo di Monferrato.
(i) Anche con Alfonso di Napoli cercò di accordarsi, approfittando della
comune inimicizia con Venezia ; e infatti gli inviò Niccolò Arcimboldo e Angelo
Simonetta, suoi oratori, quest'ultimo di ritorno dalla fallita ambascieria di Ve-
nezia. Si dice comunemente che i predetti oratori, prima che giungessero a de-
stinazione, furono richiamati indietro, avendo nel frattempo Io Sforza occupato
Milano. Ma una lettera scritta da Roma il 9 marzo 1450 dall'agente sforzesco
Vincenzo Amidano, e che noi vedremo a suo luogo (Arch. cit., Potenie estere,
Roma, i^^T-1^^4), ci fa conoscere che il Simonetta (solo) era giunto già a Na-
poli ; quindi le trattative devono essere state almeno iniziate, quantunque subito
interrotte per il pronto richiamo del Simonetta stesso. E per aprire eziandio trat-
tative col pontefice, non soltanto per informarsi di quanto avveniva a Roma, il
conte Francesco avea in pari tempo quivi inviato il predetto Amidano, che vi
giunse, come risulta dalle prime parole della lettera citata, il 4 marzo.
(2) Per questo cfr. E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura [in Italia,
Torino, 1844, voi. Ili, p. 155 sgg.
(3) Verri, op. cit., voi. Il, pp. 26-27.
308 ALESSANDRO COLOMBO
fronto tra lui e il re Enrico IV, venendo alla seguente conclusione:
« A Francesco* Sforza mancò un più grande teatro sul quale mo-
» strarsi, e spettatori più illuminati. Enrico ebbe per campo il
« regno di Francia, e per testimonio un secolo più colto » (i).
Tuttavia il Ricotti ritiene, ch'egli sia stato « forse il maggior ca-
u pitano che abbia avuto l' Italia dalla rovina dell' impero romano
« al XVI secolo.... » (2) ; e il Burckhardt, dopo aver accennato
alla sua grande popolarità e al credito personale che godeva presso
gli stessi nemici, osserva: « In nessun altro, quanto in lui, si parve
u la vittoria del genio e della forza individuale, e chi non voleva
« credere alla superiorità de' suoi talenti, dovea almeno riconoscere
« in lui il prediletto della fortuna » (3). Perdute infatti, in seguito
ad alcuni rovesci, le vantaggiose posizioni della Valsassina e l'im-
portante passo di Brivio sull'Adda, un altro al suo posto si sarebbe
dichiarato vinto o, quanto meno, avrebbe deposto ogni speranza;
il conte no. Ben comprendendo come l'essenziale era di far cono-
scere a' suoi che non fuggiva, ma che si ritirava semplicemente,
con alcune mosse ben combinate e approfittando dell'imperdona-
bile incertezza de' nemici, egli seppe in poco tempo riunire tutte
le sue truppe sur una nuova linea, la quale, se non era migliore
della precedente, avea però il vantaggio di stringere più da presso
la città di Milano. Cosicché, il mattino del i.° febbraio, egli oc-
cupava le seguenti località : a Calco (4), il quartier generale, e
quivi pure, o non molto lontani, i Sanseverino, il Torello, il Sa-
lernitano, Sacramoro da Parma, Paolo da Roma (succeduto a Luigi
dal Verme) ; a Carate, il Gonzaga ; sulle mosse per Canturio (oggi
Cantù), il Ventimiglia. Il grosso de' veneti, al comando di Sigi-
smondo Malatesta, era ancora al di là dell'Adda; ma un corpo di
avanguardia avea occupato Monte Barro, tendendo per tal modo
la mano al Colleoni, che si trovava non lungi da Bellagio, e al
Piccinino, accampato presso Como, ancora fedele a' milanesi. I due
eserciti belligeranti sono adunque quasi a contatto; ma entrambi
(i) Verri, op. e loc. cit.
(2) Ricotti, op, cit. e loe. cit.
(3) Burckhardt, op. cit., voi. I, pp. 43-44 citate.
(4) Il CoRio, op. cit., voi. III, p. 167, lo vorrebbe già a Vimercate, co-
piando naturalmente il Simonetta, op. cit., p. 587 ; ma noi, per ragioni che (fi-
remo in seguito, crediamo che non vi sia andato prima del 5 febbraio.
309
hanno poca voglia di venire alle mani: si combattono di astuzia
e, temporeggiando, cercano ciascuno di stancare l'avversario e in-
durlo a prendere per primo l'offensiva.
Abbiamo detto che il conte, dopo l'impresa di Monza, si tro-
vava ancora a Calco; ne diamo subito le prove. Nella cartella i?^-
gistri ducali, Frammenti, anni 1430-1452, n. 19, fra le non molte
lettere dello Sforza riferentesi a questo tempo, e pervenuteci nelle
loro minute cancelleresche, una ne trovammo davvero interessante:
è del 1.» febbraio 1450, ed è datata da Calco (i). Eccone il con-
tenuto. 11 comune e gli uomini di Abbiategrasso, affine di poter
far fronte al pagamento della « taxa bladorum gentibus armigeris,
« quas prefata D. V. iam mensibus duobus et pluribus ad ipsam
« [terram] logiandas transmisit », costretti come sono a prendere
a mutuo e con forte interesse la richiesta quantità di biade, « cum...
« anno preterito pauca vel quasi nulla biada colligere potuerunt,
« quoniam in herba per exercitum V. D. destructa fuerunt », e
d'altra parte non potendo ricorrere a nuove tasse, data la miseria
della popolazione, supplicano umilmente lo Sforza, acciocché dia
loro facoltà di alienare beni immobili comunali « usque ad quan-
<« titatem florenorum trium mille, ualoris sol. XXXIJ imper. prò
« floreno », non ostanti statuti e decreti in contrario; il che ac-
corda lo Sforza con detta sua lettera-patente, controfirmata « Jo-
« hannes ». Dello stesso giorno e medesima località, e pure con-
trofirmata « Johannes », è un salvacondotto a Sandrino de' Barili
di recarsi da Bergamo a Milano con otto compagni, e di ripartirne
con la cognata Caterina de' Calepio con cinque figli, due letti,
panni, vesti, ecc., della validità di giorni quindici (2). Ma anche il
2 e 3 febbraio pare che il conte non siasi mosso da Calco; perchè,
sotto tali date, troviamo due salvacondotti, di cui l'uno a Giov. Pao-
lino Brippio per recarsi nel Monferrato con dodici persone, e l'altro
a' nobili Ercole de' Modegnano e Cristoforo Porro, mercanti, per
condurre « ex partibus inferioribus extra territorium Comitis ad
« ciuitatem Laude, tam per terram quam per aquam, prò usu
a exercitu, sine aliqua solutione etc, modios 100 frumenti, modios
(i) Del registro originario, a noi giunto (come tanti altri della medesima
cartella) in modo frammentario, occupa i foli. 221 V.-222.
(2) Ibid., fol. 222.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXII, Fase. VI. 20
31 . ALESSANDRO COLOMBO
« 40 ordey et salmas 25 leguminum », entrambi valevoli per mesi
due ; sono controfirmati « Persanetes n (i). Non abbiamo documenti
per provare che lo Sforza abbia lasciato questa località il 4 o il
5 febbraio ; però è certo che egli, il 6, si trovava già a Vimer-
cate, come dimostra chiaramente un suo notevole decreto, a noi
pervenuto nella solita minuta cancelleresca, conservataci ne' Re-
gistri Ducali, Frammenti, 14^0-^2. E prezzo dell'opera soflfer-
marci su questo documento; perchè, oltre a fornirci una data certa
sur una delle più importanti disposizioni d'ordine interno emanate
dal conte, durante il blocco ch'egli fece di Milano, ci porge modo
di coordinarla ad altre analoghe disposizioni antecedenti, e di cor-
reggere certe inesattezze e notizie esposte in modo alquanto vago
dagli storici contemporanei.
Informato adunque il conte come molti de' suoi sudditi, con-
trariamente agli ordini dati, aveano portato e portavano di nascosto
temerariamente vettovaglie a Milano, « quod nobis molestissimum
« fuit et est, ac causa principalis qua ipsi mediolanenses obedientie
« nostre in hodiernum usque diem non peruenerunt », per impedire
che un tal fatto avesse a rinnovarsi, nominò Mafino de' Stanga
suo « commissario », con l'incarico speciale di investigare e tradurre
in arresto chiunque si fosse attentato di condurre o far condurre,
o in qualsivoglia altro modo favorire che si conducessero vettovaglie
a Milano; i beni mobili ed immobili de' contravventori saranno
confiscati a favore della camera comitale; il commissario Stanga
avrà in proposito pieni poteri ; e tutti gli ufficiali, rettori, sudditi
e militari saranno in obbligo di aiutarlo e favorirlo (2). Gli scrit-
(i) Ibid., fol. 220.
(2) Ecco il documento, nella sua integrità :
a In uicomercato, sexto fehruarij 14^0.
« Franciscusfortia uicecomes etc. Piene informati de uictualibus Mediolanum con-
« ductis, tempori uetito et contra ordines nostros, per quamplures ex sub-
« ditis nostris ex eorum audacia et teraeritate, quod nobis molestissimum
« fuit et est, ac causa principalis qua ipsi mediolanenses obedientie nostre in
« hodiernum usque diem non peruenerunt. Et quorum uigore ipsi ueniunt
« merito condempnandi et puniendi, eosdem tales inuestigari uolumus et
« haberi debere. Et quos haberi poterit personaliter, in habere ac persona
a puniri. Et quos non haberi, saltim in habere, ut ceteris transeat in exem-
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 31I
tori milanesi ricordano benissimo quest'ordine perentorio dello
Sforza, ed anzi il Corio allude chiaramente allo Stanga, senza
però nominarlo, là dove dice che fu mandato un commissario
a far dovunque incetta di grano per l'esercito sforzesco (i); ma
nessuno, da quanto ci consta, ha saputo precisarne la data e le
circostanze. E siccome dalla narrazione di quelli (2), se non dai
documenti, che al riguardo fanno difetto, appare essere avvenuto
anche uno spostamento nelle singole posizioni de' belligeranti; noi
possiamo ragionevolmente dedurre che intorno al 6 febbraio, e cioè
quando avveniva la nomina dello Stanga, lo Sforza avea già im-
partito tutti gli ordini per fortificare la linea Melzo-Vimercate-Se-
regno-Carate-Cantù, e i veneziani aveano finalmente operato la loro
congiunzione co' milanesi, occupando la linea che da Como, lungo
i monti della Brianza, andava sino a Olginate, spingendosi anche
al di là dell'Adda. I quartieri generali erano rispettivamente, quello
del conte a Vimercate, quello del Malatesta a Galbiate; e avamposti
del primo, costituiti dalla cavalleria e fanteria scelta di Roberto da
Sanseverino e del Salernitano, mantenevano di continuo il contatto
col nemico, per impedirgli di scendere al piano e portar così soc-
corso agli affamati milanesi.
« plum et omnibus sit animo nostris stare mandatis. Confidentes igitur de
« prudentia, fide ac solicitudine dilecti nostri Mafini de Stanghis, tenore pre-
« sentium, elligimus, creamus et deputamus eundem Mafinum in officium
« nostrum specialem ad predicta et infrascripta exequenda. Dantes et conce-
« dentes eidem Mafino potestatem, auctoritatem et baliam in toto territorio
« nostro possendi et debendi omnes, et sint qui uelint, qui conduxerunt
« seu conduci fecerunt, uel conducentibus concesserunt auxilium siue dede-
« runt, seu dare fecerunt modo aliquo aliqua uictualia Mediolanum, ut dictum
« est, contra ordines et sine licentia nostra seu officialium nostrorum, inue-
ii stigare, arrestare, capere et detinere personaliter. Et ipsorum omnium bona
« queque, tam mobilia quam immobilia, describere et camere nostre appli-
« care, ac uendere, alienare, deponere et transportare, seu describi, applicar!,
c( uendi, alienari, deponi ac transportari facere, prout sibi uisum fuerit et
a uidebitur expediens, ac peccunias eorum omnium recipere, ac confessiones
« facere opportunas. Et queque alia facere prò predictis exequendis, que
« nostre camere cedere nouerit utilitati etc. Persanetes i..
(i) CoRio, op. cit., voi. Ili, p. 171.
(2) Cfr. Simonetta, -op. cit,, p. 593; Gagnola, Cron, milan.,, in Archivio
stor. ita]., serie I, voi. Ili, p. 120 ; Corio, loc. cit.
312 ALESSANDRO COLOMBO
Abbiamo detto più sopra che la nomina dello Stanga a com-
missario per l'incetta de' viveri, e proibizione di condurne a Milano,
ci richiama alla mente altre analoghe disposizioni anteriori dello
Sforza; il sunto di queste, o per lo meno i provvedimenti presi
dagli agenti del conte in una determinata regione contro i loro
contravventori, ci fu conservato in un registro frammentario (i):
e noi ci affrettiamo a riassumerlo, potendo da esso ricavare par-
ticolari notevoli su questo periodo fortunoso di storia lombarda.
Sono cinque verbali di interrogatori, tenuti da una specie di corte
marziale, stabilita nel castello di Lodi e presieduta dal famoso Cicco
Simonetta (2); vanno dal 17 gennaio 1450 al 3 febbraio succes-
sivo. Non fu conservato il testo del decreto di Francesco Sforza
contro quelli, che si attentavano di far pervenire vettovaglie a Mi-
lano; è lecito però supporre che esso non differenziasse gran che
da quello emanato il 6 febbraio a favore dello Stanga : ma i punti
o capitoli, sui quali dovevano essere interrogati i rei o sospetti,
per conoscere la loro colpabilità e giudicare in merito, ci sono
noti, incominciando con essi il frammento di registro. E sono:
i.o Quale e quanta vettovaglia fu condotta in Milano; 2.° Quante
volte; 3.^ In che tempo; 4,° Donde fu tolta e per qual via introdotta
in Milano, da chi fu comperata e a chi venduta; 5.° Se all'imputato
è noto che altri abbiano fatto la stessa cosa, e quali sono coloro
che lo accompagnarono o favorirono; 6.° Se vi siano altre circo-
stanze degne di nota. Sei individui vennero esaminati (« rasonnati »
leggesi nel documento) ne' giorni 17 e 18 gennaio 1450. 11 primo
fu certo Dionigi di Stefano da Castello, abitante a Bescapè e di
professione oste. Egli riferisce, previo giuramento, che, in una notte
del passato dicembre, Giovanni Moco di Sant'Angelo con due suoi
compagni, di cui ignora i nomi, e centonovanta persone, con un
carico a spalla di duecento porci circa e formaggi, venendo di là
da Po si avviarono a Milano, dopo aver mangiato e bevuto alla sua
(i) Arch. di Stato di Milano, Militare, Guerre, 142^-60. Cart., di foli, io,
di cui cinque scritti, mìll. 300 X no.
(2) Così appare da una lettera del Conte in data Calco, 23 gennaio '450,
trascritta nel Registro. Gli altri membri erano : frate Bassano di Lodi, dell'or-
dine di S. Francesco ; frate Giovanni di Lodi, dell'ordine di S. Agostino ; mes-
sere Michele de' Mariani di Milano; Venturino de' Brambilla, castellano di
Lodi.
L* INGRESSO DI FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 313
osteria. Parimente intorno a quel tempo, narra sempre il nostro
oste, certo Panica da Landriano e un suo figlio portarono a spalla
due sacchi di pane a Milano; un tal Facio da Bescapè gli vendette
dieci libbre di sale, cui egli rivendette ad alcuni milanesi, venuti
con que' tali de' porci; e altri infine, tra cui il Guercio e un mor-
tarese, con tre carichi (« cavallate ») di sale, dopo aver cenato al-
l'osteria, si diressero alla volta di Milano. Non meno interessante
è la deposizione di certo Bartolomeo di Leone Chioppo da Lodi,
fatta dopo quella di Dionigi da Castello. Prestato il dovuto giura-
mento, egli narra come, lo scorso dicembre (il giorno non dice), si
trovò insieme con Taddeo Busello e Giacomo Lanzani da S. Co-
lombano, Antonino Poltrono da Chignolo, maestro Giacomo pure
da Chignolo e Giorgio Maizo da Lodi nella terra di S. Colombano,
e, richiesto dal sopracitato Antonino, anche a nome degli altri
compagni, se voleva unirsi loro per condurre a Milano sessantatre
porci menati di là da Po, accettò ben volontieri l'offerta; ma, mes-
sosi con quelli in cammino, a un miglio circa dal ponte^del Lambro,
nel territorio di S. Angelo, si scontrò con un reparto di fanteria
milanese e fu derubato de' porci. Recatosi allora a Milano con un
certo Pollo, riferì il furto a Domenico da Pesaro, capitano di giu-
stizia, quello stesso che noi ritroveremo più tardi il giorno della
sommossa in piazza della Scala, e, per mezzo suo, potè ottenere
la restituzione de' famosi porci. Riferisce ancora il nostro Barto-
lomeo che, nel dicembre 1449, in quel di S. Colombano, Giovanni
da Monza e Francesco da Lodi aveano pure de' porci da condurre
in Milano; che, sempre in quell'anno e nel mese di novembre, egli
si era recato, insieme con altri dodici, da Lodi a Caorso (nel Pia-
centino) per acqua e di qui a Chiavenna-Landi (i) per terra, com-
perandovi 91 porci, i quali, per la via di Monticelli-S. Colombano-
S. Angelo, furono condotti a Milano e ivi venduti; che infine,
trovandosi egli in questa città la notte di Natale p. p., vide come
Antonio Fornaro da Melegnano, Tommaso da Robba (Robbio?),
Taddeo Bosello, Antonino Poltrono da Chignolo, Bassiano Chioppo
(i) Nel Registro è scritto solo « Chiauenna » e a Chiuenna », ed è un
torrente tributario di destra del Chero, affluente a sua volta di destra del Po.
Sulle sue rive, noti lungi da Corte-Maggiore, evvi un borgo o meglio cascinale,
chiamato Chiavenna-Landi ; un Chiavenna-Torretta esiste pure presso Lugagnano :
ma il primo è nel piacentino^ il secondo nel parmigiano.
314 ALESSANDRO COLOMBO
da Lodi e Domenico de' Fayni vi condussero e vendettero otto
porci, due carichi (« cavallate ») di pane e uno di strutto (« sonza »).
Più breve è la deposizione di Cristoforo di Bassano Chioppo da
Lodi, certo un cugino del precedente, esaminato per terzo. An-
ch'egli, fatto il dovuto giuramento, narra che nel dicembre 1449 si
recò, con altri dodici compagni (i), a Chiavenna-L. per comperarvi
90 porci, i quali, per la via di S. Angelo, furono tutti condotti e
venduti a Milano a diverse persone; e noi abbiamo ricordato questa
testimonianza, perchè essa conferma in parte l'altra del cugino
Bartolomeo, ove si tolgano la differenza del mese e qualche va-
riante nei nomi de' compagni (2). Viene quarto Domenico de' Fayni
da Lodi, accusato concordemente da' due cugini Chioppo come uno
di quelli, che presero parte alla nota spedizione de' novanta porci;
ma egli, non ostante la prova palese e la tortura subita per ben
tre volte, stette sempre sulla negativa: per cui quella specie di
corte marziale si vide costretta a chiedere consiglio al conte Fran-
cesco sulla pena da applicarsi a quell'ostinato, e la risposta venne
cinque giorni dopo, e fu per l'impiccagione, come già si era fatto
per i due Chioppo, accusatori e in pari tempo rei confessi (3). Gli
ultimi due interrogati il giorno 18 gennaio sono Antonio da Piscina
da Bescapè e Antonio de' Petrino da Broni : il primo riferisce che
il proprio fratello Zannetto, unitamente ad altri due, condusse lo
scorso anno d'Oltrepò, per il passo della Napola, un carico di sale
a Milano; il secondo che il passato dicembre tali Bartolomeo detto
Cariò del Mostone, Carlo dell'Aguzzafame, Antonio de' Gualtero e
Zannino de' Scalfì da Zibido comperarono a Stradella quattro ca-
richi di sale ed olio, e li vendettero a Zibido stesso a un certo
Pietro da Landriano: anch^essi è da credere che abbiano seguito
la sorte de' due Chioppo e del Faini.
(i) Eccone i nomi: Antonio Fornaro, Giovanni da Monza, Tommaso da
Robba, Bartolomeo Chioppo, Domenico Fayni, Lanzino da Lodi, Scaramuzino da
Lodi, Bassano Chioppo e il fratello Rainaldo, Giovanni de' Baldo di Milano,
Francesco da Lodi e Pollo da Gallomozo.
(2) Antonio Fornaro è detto di Melegnano; Lanziano da Lodi, anziché
Lanzino; Scaramuza invece di Scaramuzino.
(3) Chi scrisse la lettera al Conte fu Cicco ; e la risposta (della quale è ri-
portata testualmente la parte che interessa) ha la data di Calco, 25 gennaio '450,
ore 8 di notte, controfirmata Persanete. Forse con quella delazione i Chioppo
speravano di aver salva la vita.
i
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 3X5
Non meno interessanti, per la storia del blocco di Milano, sono
le interrogazioni fatte il ai, 23 e 27 gennaio, e il 3 febbraio 1450.
Due furono chiamati a rispondere nel primo giorno: Antonino
de' Faini da Landriano, e Tommaso de' Mozano. Richiesto da Luigi
Prina e Giovannino Restocco, la notte del i.° gennaio, se voleva
unirsi a loro per condurre a Milano del pane, fatto venire co' ca-
valli da Pavia a Lodi, il Faini accettò, ed anzi pattuì il prezzo di
soldi 17; ma egli non vi andò personalmente, incaricando di por-
tare due formaggi il proprio fratello; il pane, il formaggio ed altri
viveri furono poscia condotti a Milano ed ivi venduti da circa 140
persone, di alcune delle quali sono ricordati i nomi. Il Faini narra
ancora, che messer Francesco da Landriano inviò più volte, e in
diverse epoche, del pane e altre vettovaglie a Giovanni Pietro da
Landriano, abitante in quella città; e che altrettanto faceva Gabriele
di Giovanolo da Landriano, spedendo a Milano il pane, cotto in
casa sua, per mezzo di un proprio massaro, per nome Ambrogio
Moraga. La deposizione del Faini viene confermata in alcuni par-
ticolari da Tommaso de' Mozano; questi poi aggiunge di aver ri-
cevuto, sempre nel mese di gennaio, da Giovan Bello da Landriano
18 pani di miglio, che vendette in Milano al prezzo di soldi 50,
tenendo per sé soldi 16. Uno solo fu sottoposto ad interrogatorio
il 23 gennaio: Leone de' Lagriago da Landriano. Questi racconta,
previo giuramento, come addì i.» gennaio comperò da Beltramo
Pachia, pure da Landriano, due formaggi, del peso di circa lib-
bre 22, al prezzo di soldi 5 V2 ^^ libbra, e li portò a spalla entro
un sacco a Milano, vendendoli a Cristoforo del Magro postiere per
soldi 7 la libbra: pagato nel suo ritorno il Pachia, che gli avea
venduto i formaggi sulla parola, prese per sé il guadagno netto
(soldi 33); furono con lui compagni, portando ciascuno viveri di-
versi, da vendere per proprio conto, Tommaso da Sala, Cristoforo
da Milano, Stefanino da Lina, Giacomo Prina, Antonio Dotto, Gia-
como del Bezozo, Giovanni de' Griffini e altri (circa 40), de' quali
però ignora i nomi, essendo o di Milano o di Bescapè o addirittura
forestieri. Chiestogli se fu altre volte a Milano, rispose che sì, ma
sempre con salvacondotto. Addì 27 gennaio Antonino dal Pro, fu
Guglielmo, da Borgonovo, il solo esaminato in quel giorno, depose
che in questo stesso mese, trovandosi a Ticozzo con la sua ca-
valla, ebbe l'invito da certo Antonio Poltroni di unirsi a lui e ad
altri soci, per condurre fino a Po sette « cavallate » di sale e una
3l6 ALESSANBRO COLOMBO
a asinata » di burro: il compenso sarebbe stato di un fiorino. Ma^
giunti alla riva del fiume, mentre il Poltroni e compagni (il dal Pr o
pare li avesse lasciati) stavano per passarlo al luogo detto « in
« bocca d'ambro », con l'intenzione di condurre il burro e il sale
con un « borchiello » a S. Colombano, e di qui a Milano, furono
sorpresi dalla retroguardia del conte e dagli uomini di Pavia e di
Arena, e spogliati del lor carico. Finalmente il 3 febbraio tal Gio-
vanni Vigono, fu Bartolomeo, da Vigone, riferì che nel dicembre
e gennaio scorsi Paviglono, « compagno del nostro IH. S. et suo
u habitatore et guardiano de la terra de pischera, contado de Milano »,
inviò a diverse riprese, per mezzo di un suo famiglio, il Rossetto,
e di un fante di Domenico Buzano, pane, farina ed altre vettova-
glie a Milano, facendole recapitare, per rivenderle, in casa di Cal-
dino da Robecco, abitante a porta Tosa; il fatto fu riconfermato
da Giorgio, detto il « Rinegadio », da Patarini, contado milanese,
narrandolo a un tal Caldino da Milano, fu Giovanni. Così finisce
l'elenco degli esaminati; né è da credere che quella specie di
corte marziale, stabilita nel castello di Lodi, abbia continuato an-
cora molto nel proprio ufficio: tre giorni dopo, avveniva la no-
mina dello Stanga; e con questa, virtualmente, essa decadeva dal
suo mandato.
Molte considerazioni possiamo dedurre dall'ultimo documento,
sul quale, non senza motivo, ci siamo così a lungo soffermati. An-
zitutto, che la carestia in Milano s'era incominciata a far sentire
fin dal novembre 1449, e che, non ostanti gli ordini dello Sforza
e l'attenta sorveglianza esercitata dalle sue truppe e da' suoi amici,
le vettovaglie continuavano a giungere in quella città, pagate na-
turalmente a carissimo prezzo, date le difficoltà dell' incettamento
e del trasporto; che i paesi, ne' quali le dette vettovaglie venivano
specialmente raccolte, erano quelli posti al di là del Po; che il
maggior contingente degli arditi contrabbandieri era dato dal lodi-
giano; e che la via da essi più battuta, perchè meno guardata dagli
sforzeschi, era quella di S. Colombano e di S. Angelo. Gli storici
milanesi, poi, concordemente affermano che da Monza e da Como
venivano in gran parte viveri a Milano; ed era naturale: quelle
città erano ancora fedeli alla repubblica. Non è quindi a stupirsi
se questa potè tanto resistere, non ostante fosse politicamente e
finanziariamente sfasciata. A ciò s'aggiungano le mosse de' veneti,
del Piccinino e del Colleoni, non sempre decise; la necessità, per
L INGRESSO DI FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 317
il conte, di tener sempre divise le proprie forze, a fine di aver
l'occhio a tutto, che gli impediva di operare con quella energia e
celerità che avrebbe desiderato; la difficoltà, sempre grave per un
esercito, dell'approvvigionamento. Noi abbiamo visto come lo Sforza,
con la nomina dello Stanga, potè ovviare in parte a questo incon-
veniente; inducendo quindi con l'astuzia il Mal atesta a passare
l'Adda e a riunirsi co' generali milanesi, ottenne il doppio scopo
di inchiodarlo, per così dire, sulle montagne della Brianza e di
concentrare i proprii soldati in un punto solo. In tali condizioni
di cose, la caduta di Milano non era più che questione di tempo.
Tuttavia i documenti, che ci rimangono, non portano gran luce
sugli avvenimenti, che caratterizzano gli ultimi venti giorni della
libertà milanese. Giacché i cronisti sincroni, senza lor colpa, si sono
più tosto compiaciuti di narrare le vicende interne della città, che
di mettere queste in relazione co' fatti esteriori; e come non ci sono
note tutte le mosse dello Sforza dal 6 al 26 febbraio, allorché an-
dava stringendo le fila della sua politica, così rimane in parte nel-
l'oscurità quanto fecero i veneti, in sul tramontare della ormai de-
crepita repubblica ambrosiana. Se ne deve ad essi la completa
rovina, oppure essi hanno fatto tutto il possibile per impedirla? I
pochi fatti, che verremo ancora esponendo, prima di passare a
quello che forma oggetto del nostro studio, ci proveranno quale
sia l'opinione da preferirsi.
Da Vimercate, dove aveva trasportato definitivamente il proprio
quartier generale, è certo che lo Sforza non si mosse più per tutto
il mese di febbraio, e nemmeno per la prima decade del marzo
successivo, ove si faccia eccezione di quando venne a Milano, a
prendere per la prima volta possesso del nuovo dominio: lo pro-
vano, oltre il documento primo, che contiene l'abbozzo de' capitoli
per la condotta del Piccinino, alcuni salvacondotti concessi appunto
a Vimercate, il 20 febbraio, a gente che diceva di recarsi a Milano
per suoi affari (i), non che diverse lettere le quali, per essere di
data posteriore al 26, saranno da noi studiate più avanti. E a Vi-
mercate egli naturalmente cercò di riunire il maggior nerbo delle
(i) Arch. cit., Reg. due, Framm., 1430-^. Sono tre salvacondotti: l'uno
ad Antonello de' Merate di Lodi ; l'altro a Giovanni de' Spazini ; il terzo ad
undici persone, che chiedono di recarsi a Milano per parlare col ministro del-
l'Ospitale di S. Lazzaro, a proposito della coltivazione di certe terre.
3l8 ALESSANDRO COLOMBO
sue truppe: su questo vanno d'accordo anche i cronisti. Ma che
cosa fece in questo frattempo? Tre cose precise noi conosciamo
soltanto, dalle narrazioni sincrone: la fortificazione del campo a
Vimercate con argini e fosse e lo sbarramento di tutte le vie con-
ducenti a Milano; l'ordine simile impartito a' connestabili e capi-
squadre dislocati altrove, a Carate, a Seregno, a Cantù, a Melzo;
il tentato tradimento del Ventimiglia. I documenti poi ci hanno
confermato, in modo indiretto, che lo Sforza, in questi ultimi tempi,
aumentò d'assai la sorveglianza sulle vettovaglie, che si cercavano
di far penetrare nella bloccata città, facendole, dove poteva, re-
quisire per proprio conto; e, direttamente, che furono aperte sul
serio delle trattative fra il conte Francesco e il conte Jacopo Pic-
cinino. 11 Verri (i) infine ci fa sapere che, con biglietto de' Capi-
tani e difensori della libertà in data 20 febbraio, Gaspare da Vi-
mercate, quello stesso che inutilmente avea offerto Crema allo
Sforza e che, per esser stato a lungo sotto le sue bandiere, ne era
sincero e caldo fautore, avea ottenuto di poter uscire « tute, libere
u et impune » da Milano, con otto servi e tutte le sue robe, pur-
ché non si recasse « ad partes hostiles », ma dritto dritto « ad
u illustrem dominum Sigismundum Pandulphum de Malatestis Ari-
u minensem ac illustrissimi dominii Venetorum etc. Capitaneum
a Generalem ». Il Verri osserva che, anziché abboccarsi col Ma-
1 atesta, il Vimercate concertò probabilmente col conte la dedizione
di Milano; e la cosa potrebbe essere verosimilissima, ove tal viaggio
fosse realmente avvenuto. Ma, fino a prova contraria, rimane sempre
l'attestazione del Simonetta, non essersi cioè il Vimercate mai
mosso dalla città, prima che questa si rendesse allo Sforza (2). E
però troviamo ragionevole l'osservazione del Bertolini (3): « nel
« passaporto..., sovra cui il Verri poggia la sua narrazione, non
a altro si attesta, fuorché Gaspare avea avuto l'intenzione di fare
« il viaggio ». Il precipitarsi degli avvenimenti, e forse anche qualche
avviso pervenutogli a tempo (poiché non è a credere che fossero
(i) Verri, op. cit., voi. II, p. 29, nota i. Il documento [è dell'Archivio Civico
di Milano, Gridarium, Reg. C, fol. 13$ v.
(2) Il RuBiERi, op. cit., voi. II, pp. 203-204, non sappiamo con qual fon-
damento, dopo aver ammesso che il V. si recò dallo Sforza il 20 febbraio, ag-
giunge che il 25 era già di ritorno a Milano!
(3) Bertolini, op. cit., p. 45. Cfr. Sickel, op. cit., p. 214 e nota i.
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 319
tutte sincere quelle persone, che chiedevano e così facilmente ot-
tenevano dallo Sforza de' passaporti, il giorno 20 febbraio, a Vi-
mercate), avranno indotto il futuro conte di Valenza a non moversi
più dalla città.
Ma neanche Venezia se ne stava inoperosa. Appena conchiusa
la pace con Milano, essa si era affrettata a dar ordine a' suoi ca-
pitani, che militavano sotto lo Sforza, di abbandonarlo, di ripassare
l'Adda e di desistere tosto dalle ostilità contro quella repubblica,
non più nemica ma alleata; e, quantunque conoscesse a fondo il
pensiero del conte, gli avea inviato al campo il solito Malipiero,
perchè gli annunciasse ufficialmente il nuovo orientamento politico
e le ferme intenzioni del proprio governo. Quale ambasciatore ve-
niva quindi spedito a Milano, con regolare passaporto, il Venier,
vittima più tardi del tumulto del 25 febbraio; e mentre effettiva-
mente era una bravata della Serenissima il sostenere come già av-
venuta la pace generale di tutti gli stati della penisola (i), noi
abbiamo forti motivi per credere che, almeno nell'intenzione di
liberare Milano dall'assedio e dalla fame, la repubbUca veneta fu
sincera. Che poi il Malatesta non sia stato pari al suo ufficio e che
le molte vettovaglie, radunate nel bergamasco, non abbiano potuto
giungere fino a Milano, è un'altra questione. Se i documenti ri-
guardanti Venezia in questo tempo non facessero difetto, noi po-
tremmo meglio corroborare la nostra asserzione; tuttavia, per il
nostro scopo, basterà l'esame di una lettera, che va sotto l'anno 1449,
e che un agente dello Sforza scriveva al suo signore il 23 no-
vembre da un paese oltre l'Adda, che potrebbe anche essere non
molto lontano da Brescia (2). In essa si avvisa anzitutto il conte
che Sigismondo Malatesta (« el S. Gismundo »), generalissimo dei
veneti, ha dato ordine a' suoi di concentrarsi, « come sentono il
« signale delle bombarde che traranno », a Pontoglio, e ivi di at-
tendere sue ulteriori e più precise disposizioni: certo, passando per
(i) Non era nemmeno certa la sua alleanza con Napoli, come si rileva
dalla lettera in data Roma, 9 marzo 1450, già ricordata addietro: «... Se altro
« sentirò più chiaro de decto acordo del Re cum Venetia, lo quale non credo,
a perchè né N. S. né lo amb.re vca.°, secondo sento, affermano non ne sapere
« niente... ».
(2) Arch. di Stato di Milano, Militare, Guerre, 142^-60. Min. cart., senza
indirizzo né indicazione di luogo e di anno.
320 ALESSANDRO COLOMBO
Trezzo o per Brivio, egli mirava ad unirsi con Jacopo Piccinino^
successo al padre suo Francesco nel comando delle milizie ambro-
siane. Che r alleanza tra Milano e Venezia fosse dunque un fatto
quasi compiuto, non v'era più luogo a dubitare; l'agente sforzesco
raccomanda pertanto al suo signore di provveder presto « al facto
« nostro ». Ma v'ha di più: e forse, a questo riguardo, il dettò
agente riferivasi più tosto a voci che correvano, che non a notizie
attinte, come la prima, da fonte sicura. 11 vescovo di Rimini, Jacopo
da Cortona, informa il Malatesta d'un accordo tra il papa e Ve-
nezia, ormai condotto a buon punto; e certo Luca fa sapere da
Venezia che un Giovanni da Ricordati è stato inviato segretamente
« ad tractare l'accordio tra lo S. Gismundo et lo Re de Ragona » (i).
E pure informato, continua il nostro agente, dell'ambascieria di
Angelo Simonetta al Senato veneto; ma egli non crede all'offerta
di Parma, per parte del suo signore, a Venezia, in compenso di
un problematico aiuto nella impresa di Milano: poiché, cedendo
Parma, si può benissimo cedere anche Piacenza, e « demum el
« resto ». Tuttavia i milanesi, avvertiti di queste mene segrete
dallo stesso Malatesta e dal Panigarola, loro ambasciatore a Ve-
nezia, ne muovono aperto lamento, e pregano il Malatesta di ac-
correre sollecitamente in loro aiuto, affinchè non abbiano a cadere
nelle mani del conte Francesco. Sigismondo comunica tosto al Se-
nato le richieste de' milanesi; ma dice che egh non potrà muoversi,,
fintantoché non gli siano giunti in Brescia i tremila ducati richiesti
e promessi. È una pura finzione l'ordine dato da' rettori bresciani
di adattare" la strada da Brescia a Pontevico: forse con ciò essi
sperano che il conte abbia a rivolgere tutti i suoi sforzi da quella
parte, cioè verso Parma, lasciando scoperti Trezzo e Brivio, a' quali
mira il Malatesta, come lo dimostra il concentrarsi di tutte le sue
truppe a Pontoglio. Tuttavia sarà opportuno guardare da ogni
parte: l'agente nostro confida assai nell'abilità e saviezza del suo
signore; ma sopratutto vuole che egli conduca le cose in modo,
« che qua non se acorga ve ne sia facto aduiso de qua ». In un
poscritto poi l'avverte, che la signoria di Venezia fa di tutto per
'indurre il marchese di Ferrara ad addossarsi l'impresa di Parma.
(i) Quale importanza si debba dare a questa alleanza, e all'altra col pon-
tefice, vedremo esaminando la più volte ricordata lettera del 9 marzo 1450.
321
Che le informazioni dell'agente a noi ignoto fossero in gran
parte esatte, dimostrarono in seguito gli avvenimenti: non molto
dopo infatti, e quando probabilmente il Malatesta ebbe da' veneziani
tutto ciò che desiderava, si aprivano palesemente le ostilità tra
costui e il conte. Il Malipiero aveva ormai abbandonato il campo
sforzesco.
CAPO SECONDO.
Quanto avvenne prima e dopo la resa di Milano allo Sforza
è troppo noto, almeno nelle sue linee generali, perchè noi dobbiamo
semplicemente ripeterlo: sarebbe davvero come portare vasi a Samo
e nottole ad Atene. Altro è lo scopo che ci siamo prefissi nel det-
tare questa memoria; e sebbene non pretendiamo di dire cose del
tutto nuove, o solamente tali, tuttavia desideriamo che quelle, già
narrate da altri, messe al vaglio della critica e alla stregua de' do-
cumenti, siano finalmente « un po' meglio conosciute ». Giacché è
proprio qui il caso di osservare, che molti sono stati tentati dalla
grandiosità dell'avvenimento, ma nessuno è riuscito a sciogliere
ogni dubbio. Lo stesso Sickel, che al riguardo lasciò scritto il più
notevole lavoro che io conosca (i), mentre avrebbe potuto, con
l'acutezza dell'ingegno che lo distingue, chiarire molte circostanze,
si è pur troppo fermato al punto, in cui comincia il nostro lavoro ;
cosicché l'ultimo documento da lui edito, che va sotto la data del
26 febbraio (2), lasciato a sé ha potuto condurre qualcuno (3) a
deduzioni, della cui attendibilità ci é lecito dubitare. Qualche cosa
di nuovo ha fatto il Formentini, nel suo interessante lavoro sul
« ducato di Milano » (4); ma se noi ci dovessimo unicamente fon-
dare su di lui, ci troveremmo davvero più imbrogliati di prima.
(i) Sickel, Beitràge, ecc., citata.
(2) È il doc. XXII della raccolta. Egli ricorda, è vero, e descrive (p. 214,
nota 3) tre altri documenti da lui veduti all'Archivio notarile di Milano, riguar-
danti sempre i capitoli del 26 febbraio ; ma, fuori del primo (pubblicato imper-
fettamente, e con errore di data, dal Formentini ; cfr. nota 4), essi non furono
mai editi.
(3) Bertolini, // conquisto di Milano, ecc., pp. 45-46.
(4) M. Formentini, Il ducato di Milano, studi storici documentati, Milano,
Brigola, 1877.
322 ALESSANDRO COLOMBO
D'altra parte il Verri (i), non ostante le bizze partigiane e il ce-
sarismo troppo spiccato, che informano il suo lavoro, non è sempre
da disprezzare: i pochi documenti che egli cita, ove fossero stati
meglio conosciuti, avrebbero infatti potuto arrecare qualche luce
sull'argomento, o almeno spingere lo studioso a proseguire e com-
pletare, fin dove fosse possibile, le ricerche d'archivio-. Il che pre-
cisamente noi abbiamo fatto. La fortuna, questa volta, ci secondò ;
e quali ne sian stati i risultati, giudicherà da sé stesso il lettore.
Il primo dubbio, che ci si presentava alla mente, era quello
del giorno preciso in cui scoppiò la rivolta in Milano. Rispetto alle
cause, che la determinarono, non avevamo la benché minima preoc-
cupazione, essendo convinti che esse furono varie e molteplici, e
non dovute soltanto all'imperizia e al fanatismo di quelli, che allora
reggevano la sciagurata repubblica. Tuttavia converrà che il lettore
si ricordi di quanto già abbiamo esposto nel precedente capo; e
perché il suo giudizio sia pieno e completo, aggiungiamo che, oltre
alla famosa grida del lunedì 23 febbraio (2), con la quale si com-
minavano pene severissime ai bestemmiatori e ai libertini, un'altra
più notevole fu pubblicata il 26 successivo (3), da cui appare che
il ducato d'oro era sceso al valore di tre lire e quattro soldi im-
periali. Abbiamo detto: più notevole. Infatti, se la prima ci dimo-
stra chiaramente la sfacciata corruzione de' milanesi in que' tempi,
e potè sembrare a qualcuno la goccia che fece traboccare il vaso
già pieno (4); la seconda rimane sempre un documento irrefragabile
(i) Verri, op. cit., voi. II, cap. XVI. — Affatto destituito d'ogni fonda-
mento critico è il citato lavoro del Rubieri, Francesco I Sforma, ecc. ; e nulla
di nuovo, per questo momento storico, aggiunge il Perret, Histoire des relations
de la France avec Venise^ Parigi, 1896, voi. I, p, 218.
(2) Verri, op. cii,, voi. II, p. 3 1, in nota. Fu edita nuovamente dal Cantù,
nelle annotazioni al Corio, Storia di Milano, voi. Ili, pp. 190-95.
(3) Argellati, De monetis Italiae, etc, Milano, 1750, voi. II, p. 27. — Il
GiULiNi, che lo ricorda {Memorie, tcc.^ Milano, 1857, voi. VI, pp. 465-66), e
dietro a lui il Cantù (in Corio, op. cit., voi. Ili, p. 192) traggono la conse-
guenza, " che la proporzione fra le monete di que' tempi e quelle delle nostre
« era come dall'uno al cinque ; e cosi una lira, un soldo e un denaro corrispon-
« deva a cinque lire, cinque soldi e cinque denari d'oggidì, secondo la grida „.
(4) A. BiANCHi-GioviNi, La repubblica di Milano dopo la morte di Filippo
Maria Visconti, Milano, Silvestri, 1848, p. 155: " Il libertinaggio in Milano era
« grandissimo.... Non è quindi inverosimile che in un momento di crisi, e quando
« bollivano tante altre passioni, una legge così poco opportuna abbia contribuito
« 4id accrescere il numero de' malcontenti e a sollecitare la catastrofe.... ».
L INGRESSO DI FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 323
di quella grave crisi economica e finanziaria (i), che fu la cagione
precipua della rivolta del febbraio (2).
Ed ora eccoci a stabilirne la data. A questo riguardo osser-
viamo subito che soli il Sanuto (3) e il Bonincontro (4), fra gli
scrittori contemporanei, ce ne hanno lasciata una esplicita : il 25
febbraio. Gli altri, pur ammettendo il 26, quale giorno della resa allo
Sforza, si limitarono, per quello della rivolta, a un semplice cenno:
così il Decembri (5) e il da Soldo (6). Altri ancora, come il Brac-
(i) A maggior conferma di ciò, ricordiamo che allora il prezzo della farina
era salito a denari 34 la libbra, per cui addi 22 febbraio 1450 la Fabbriceria
del Duomo si trovò nella dura necessità di " differire a tempi migliori la cele-
(c brazione dell'anniversario ordinato dalla fu Maria de' Codevacca, specialmente
« perchè bisogna distribuire la farina di frumento... » {Annali della Fabbrica del
Duomo di Milano, ecc., Milano, Brigola, 1877, voi. II, p. 135).
(2) Con questo non neghiamo assolutamente la complicità dello Sforza e de'
suoi favoreggiatori in Milano, a capo de' quali appare essersi subito messo Ga-
spare da Vimercate ; ma considerando obbiettivamente il fenomeno e il disordine
nel quale incominciò, dobbiamo credere che, almeno in principio, gli sforzeschi
non vi abbiano avuto gran parte txl lo abbiano direttamente provocato.
(3) Sanqto, Vite de' duchi di Fene^ia, in Muratori, R. I. SS., XXII, e. 11 37.
(4) BoNiNcoNTRi, Annales, in Muratoci, R. I. SS., XXI, e. 155.
(5) Decembri, op. cit, p. 1043,
(6) Cristoforo a Soldo, Istoria bresciana, in Muratori, R. I. SS., XXI,
p. 863. Lo stesso dicono il Cagnola, op. cit., pp. 125-26; il Corto, op. cit.,
voi. Ili, p. 175 sgg. ; il Ripamonti, op. cit.; il Verri, op. e loc. cit. Ne' Gior-
nali Napoletani (Muratori, R. I. SS., XXI, e. 1030) troviamo queste sole parole •
« L'Anno 1450 del Mese di Febraro il Conte Francesco Sforza si i&zt Duca di
« Milano » ; e il Ghilini, Annali d'Alessandria, all'a. 1450, ediz. Bossoli dell'an.
1903, voi. I, p. 479, pone addirittura il 27 febbraio come data del solenne in-
gresso, senza ricordare affatto un'altra entrata. Piìi preciso è il Giulim, op. cit.,
voi. VI, p. 466; il quale, ammettendo il 25 (stampato erroneamente il 15) quale
giorno in cui scoppiò la sedizione, dice che essa « sul principio non era formata
« che di 500 persone » ; il primo ingresso dello Sforza avvenne il 26 (ibid., p. 469).
Anche il Rosmini, op, cit., voi. II, pp. 446-48, fa cominciare il tumulto il 25,
nel qual dì la Reggenza milanese avea convocato il Consiglio generale in Santa
Maria della Scala per deliberare; una nuova adunanza fu tenuta il 26 (ibid., p. 449),
dove lo Sforza venne acclamato duca (ibid., p. 450) ; ed egli fece, in quel giorno
medesimo, la sua prima comparsa in Milano (ibid., p. 4$i). Seguono il racconto
del Rosmini : il Cubani, op. cit., voi. I, pp. 207-09, e il Ricotti, op. cit., voi. Ili,
pp. 148-50. Il RoMANiN, Storia documentata di Venezia, Venezia, 1855, voi. IV,
p. 222, mentre fa scoppiare il tumulto la sera del 25, aggiungendo che per esso
fu cacciata la Signoria milanese, non accenna punto all'entrata dello Sforza av-
venuta il 26" (quantunque ricordi che in tale giorno egli fu gridato duca), ma
324 ALESSANDRO COLOMBO
ciolini (i), il Platina (2) e l'autore degli Annali di Piacenza (3),
vorrebbero, non sappiamo con qual fondamento, anticipare addi-
rittura di un anno. Rimane sempre il Simonetta (4); ma egli, se-
condo il suo costume, non si cura quasi mai della cronologia. Per
cui noi ci troveremmo davvero in grave imbarazzo, pur avendo
dinanzi una narrazione particolareggiata e, per molti punti, atten-
dibilissima, se da altra parte non ci venissero forniti quegli ele-
menti, i quali a ragione furono detti gli « occhi della storia ».
Fermo adunque rimanendo che il 26 febbraio lo Sforza fece il suo
primo ingresso in Milano (tutti i documenti, del resto, ce lo atte-
stano (5), anzi ci dicono qualche cosa di più, e cioè che fu « nel
n pomeriggio ») (6), possiamo con più fiducia esaminare il racconto
solo a quella solenne del 25 marzo. Infine il Beltfami, // Castello di Milano, ecc.,
Milano, Hoepli, 1894, P- 5^» citando un passo della Cronica di Zorzi Dolfin
esistente nella Marciana, ammette come giorno del tumulto e uccisione del Ve-
niero il 25 febbraio.
(i) P. Bracciolini, Hist. pop. fior., in Muratori, R, L SS., XX, e. 426.
(2) Platina, Historiae manhianae, in Muratori, R. I. SS., XX, e. 848.
(5) Annales Piacentini, in Muratori, R. I. SS., XX, e. 901.
(4) Simonetta, op, cit., pp. 597-602.
(5) Ricordiamo qui per il momento il decreto ducale da Monza 16 marzo
1450, con cui lo Sforza obbliga tutti i salariati del suo territorio a offrire alla
Fabbriceria del Duomo " pars decima salarii sui unius mensis », in memoria del
suo ingresso in Milano, avvenuto « vigesima sexta die mensis februarij anni
« praesentis, intercessionis gloriosae Virginis Mariae... » (Ann. Fahh. del DuomOj
voi. II, pp. 156-37)-
(6) Che lo Sforza sia entrato in Milano alle ore 20 conferma, oltre
l'autore degli Ann. Plac. (loc. cit.) e il Bracciolini stesso (loc. cit.), sebbene con
errore di anno, la famosa iscrizione edita dal Verri (op. cit., nota in fine al
cap. XVI), dal Giulini (op. cit., voi. VI, p. 469), dal Cantù (in Corio, op. cit.,
voi. Ili, p. 193, note) e dal Bel trami (op. cit., p. 61) : una lapide di marmo
già adoperata, come davanzale di finestra, in una casa attigua alla chiesa di San
Donnino alla Mazza. Coloro che hanno pubblicato detta iscrizione (e in modo
speciale il Beltrami, che ne fa la storia fino a questi ultimi giorni) ci dicono
che essa fu rinvenuta nel 1774 mentre si fabbricava la casa Delfinoni, vicino
agli archi di porta Nuova ; che, murata nello scalone della casa già Balabio al
n. 45 di via Monte Napoleone, venne dall'attuale proprietario signor Abrami
gentilmente donata, nel 1887, al Museo archeologico di Milano. Essa suona preci-
samente così : tRANCISCVS . SFORTIA . VICECOMES . DVX || Illl . ET . ANIMO '. INVICTO .
ET . CORPORE 1 1 ANNO . MCCCCL . AD .IIII . KAL. MARTI AS \\ HORA . XX. DOMINIO . VRBIS.
MEDiOLANi 11 POTiTVS . EST Come SÌ vede, è incorppleta; e il Beltrami fa os-
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 325
simonettiano; e vedremo precisamente che in esso si parla di tre
giorni distinti. La rivolta pertanto sarebbe scoppiata il 24; era al-
lora di martedì. Ma lasciamo la parola al biografo del futuro duca.
Volendo far credere al popolo affamato e ormai tumultuante
che si faceva in prò suo qualche cosa, i Capitani e difensori della
libertà avevano per l'ultima volta radunato a consiglio, nella chiesa
di Santa Maria alla Scala (i), i principali rappresentanti delle varie
porte: non si sa però quali deliberazioni ivi siano state prese, o
se almeno si sia tentato di prenderne. Il Rubieri (2) suppone che
il consiglio fu raccolto per decidere intorno al modo di cedere la
città a Venezia. E veramente, se noi badiamo al fatto che due fra
i più autorevoli cittadini e benemeriti della repubblica, Pietro
Cotta (3) e Cristoforo Pagnano (4) , uomini , come dice il Si-
monetta, « animo non desides et tyrannicae conjurationi minime
« grati », si rifiutarono di prender parte all'adunanza, e più tardi
tutta l'ira del popolino si riversò sul Venier, il noto ambasciatore
veneto, facendo miserando strazio del suo corpo, la congettura può
avere qualche fondamento. Ma, esaminata poi con più attenzione,
servare, che « le lettere dell'ultima linea mancano nella metà inferiore, essendo
« stata in questo lato della lastra di marmo incavata la battuta per il davanzale
« di finestra > (op. cit., p, 61, nota i). Noi vogliamo aggiungere qualche cosa
di più, e cioè che essa fu anche taghata, o meglio segata sotto quella linea ;
dimodoché non sarebbe che la prima metà (superiore) della lapide posta sulla
porta della Rocchetta : lapide citata pure dal Beltrami, e della quale ci ha la-
sciato il testo completo il Giulini (op. cit., voi. VI, p. 481). L'altra metà (infe-
riore) ricordava appunto la data della ricostruzione del Castello ; e noi avremo
modo di parlarne, più avanti. Intanto, quello che è^ certo si è che, nell'ultima
linea della soprascritta iscrizione, seguivano le parole : idem . ill . princeps ; e
poi, in altre tre righe, il resto della lapide riportata dal Giulini.
(i) Da una lettera in data Monza 18 marzo 1450, che vedremo, appare che
era allora prevosto di detta chiesa Marco de' Benzoni.
(2) Rubieri, op. cit., voi. II, p. 204.
(3) Di nobile famiglia e abitante a porta Nuova. Fu tra i primi Capitani
e difensori della libertà (allora in numero di 24). Cfr. il mio lavoro intitolato :
Vigevano e la Repubblica ambrosiana nella lotta contro Francesco Sforma, in Bollet-
tino della Società Pavese di storia patria, a. 1903, fase. III-IV, doc. I.
(4) Pur esso di nobile famiglia e abitante a porta Nuova [parrocchia di
S. Domenico (Donnino ?) alla Mazza]. Fu de' primi 24 sindaci o procuratori della
libertà. Cfr. Vigevano, ecc., doc. I. Fu anche Capitano e difensore della libertà
con l'Appiani e l'Ossona (prima volta ?).
Arch. Star. Lomb., Anno XXXII, Fase. VI. ai
326 ALESSANDRO COLOMBO
anche senza tener calcolo della mancanza assoluta di prove, essa
ci pare improbabile, o per lo meno poco opportuna. Perchè o le
mire de' veneti su Milano non erano più un segreto per alcuno, e
allora non c'era bisogno di fingere questa assemblea; o si prepa-
rava segretamente la dedizione alla Serenissima, e allora non era
consigliabile farla sapere e, quel che è peggio, ratificare da tanta
gente. Comunque sia i due dissidenti, rimasti fuori, sulla piazza
attigua, non si presero scrupolo di nascondere il loro vivo ram-
marico per le tristi condizioni attuali ; li udirono altri, che per caso
o deliberatamente ivi si trovavano; e in breve l'assembramento
divenne folla, la folla confusione. Si sa bene: basta spesso una
fiammella per destare un incendio; e così avvenne in quel dopo
pranzo in Milano. Intanto altri tumulti erano scoppiati in diversi
punti della città: il male ha sempre in se del corftagioso; e porta
Nuova fu la prima a prendere le armi.
Ma dove la sommossa avea ormai raggiunto il grado di aperta
rivolta era in piazza della Scala. Quivi i malcontenti, fatta certa-
mente causa comune con quelli, che si trovavano adunati in chiesa
e che indarno attendevano l'arrivo de' Capitani e difensori della
libertà, avevano già messo in fuga Lampugnano Birago, uno dei
membri del governo, mandatovi appunto da' suoi colleghi, perchè
cercasse di portare la calma con le buone parole e con le promesse ;
essi però si erano ben guardati, alla prima notizia de' disordini, di
abbandonare l'Arengo, loro sede abituale. Né miglior fortuna era
toccata, poco dopo, al capitano di giustizia Domenico da Pesaro,
che noi già conosciamo. Quantunque accompagnato da buon numero
di sgherri e dal boia, egli dovette ritirarsi dinnanzi all'attitudine
minacciosa de' ribelli: anzi quella comparsa provocante fu come il
segnale della battaglia. Si dà mano alle campane; d'ogni parte ac-
corrono nuovi cittadini; e il movimento finalmente si coordina me-
glio, mercè la risoluta direzione di Gaspare da Vimercate, eletto
liberamente da' rivoltosi e coadiuvato, oltre che da' predetti Cotta
e Pagnano, da' cinque fratelli Stampa (i). Il grido « all'Arengo! »
scuote tutta quella moltitudine, come un sol uomo: la distanza è
breve; e come un sol uomo, tumultuando, essa corre all'assalto del
(i) II Simonetta nomina soltanto il primo, Giovanni. Sulla famiglia Stampa
cfr. quanto dice il Cantù, nelle sue note al Corio, op. cit., voi. Ili, p. 192.
327
palazzo. Ma è respinta da' soldati che vi sono a guardia: alcuni ne
escono malconci; i più, presi da panico, si danno a fuggire disor-
dinatamente verso porta Orientale. Un giovinetto animoso, Fran-
cesco da Triulzio, riesce a trattenerli con un semplice rimbrotto:
« Quo fugimus (egli grida), cum nos insequatur nemo? » Parole
semplici; ma, appunto perchè tali, di grande effetto. Molte volte i
fanciulli hanno delle esclamazioni, che fanno maravigliare i grandi;
e la storia, antica e moderna, ne dà frequentemente gli esempi.
Ecco perchè noi qui non osiamo porre in dubbio la veridicità del Si-
monetta, e credere che egli abbia voluto soltanto infiorare il suo rac-
conto di una leggenda inutile. Il Pagnano, che si trovava vicino al
Triulzio, e indarno avea forse cercato di raccogliere più volte i
fuggiaschi, approfitta del momento opportuno per rincorarli e in-
durli a tornare indietro; si unisce a lui il Vimercate, rimasto con
pochi alla retroguardia ; e mentre quest'ultimo rivolge alia moltitu-
dine, di nuovo riordinata, alcune parole di occasione, giunge ina-
spettato il rinforzo di Melchiorre Marliano (i) « cum non mediocri
« armatorum manu ». Solo il Cotta non vi è più presente: egli,
staccatosi senza dubbio dal grosso de' compagni nella confusione
successa dopo il primo e vano assalto all'Arengo, si era dato alla
fuga con pochi seguaci verso porta Comacina; ma, inseguito dai
suoi nemici, vi fu con facilità preso e subito rinchiuso in carcere (2).
Una tale notizia, giunta ben tosto agli orecchi di coloro, che si
provavano poco lungi da porta Orientale, non mancò di eccitare
maggiormente gli animi già scaldati; però, in massima, si era in-
decisi sul partito da prendere. Chi voleva si corresse subito a
porta Nuova, dubitando, e a ragione, di Ambrogio Triulzi, che vi
era stato posto a guardia da' capi della repubblica; chi invece si
desse nuovamente l'assalto all'Arengo, per troncare d'un colpo la
testa all'odiato governo. Prevalse alla fine quest'ultimo parere,
tanto più che un certo Giovanni Andrea Toscano (3), il quale avea
(i) Con lettera da Vimercate i.o marzo 1450, che vedremo, lo Sforza con-
cede ad Antonino de' Marliano e a' suoi nipoti detti « Vedanini », cittadini milanesi
e abitanti in Varese, esenzione da' pesi sui beni che hanno in quel territorio.
{2) Fu messo in libertà il giorno dopo e poscia ricompensato dallo Sforza,
in premio de' suoi servizi, con donazioni; cfr. lettera da Milano 14 maggio 1450
(Reg. due, Framm., i4p-^2, n. 19).
(3) Probabilmente fratello di Azzo, già beneficato dallo Sforza; cfr. lettera
da Calco, 27 gennaio 1450, già citata.
328 ALESSANDRO COLOMBO
sempre libero Taccesso all'appartamento della duchessa vedova,
situato appunto nella parte posteriore di quel palazzo, meno cu-
stodita e quindi più facile a prendersi, si era di proposito offerto
ad essere guida.
Intanto « era giunta la notte » ; e le tenebre favoriscono molto
bene quelle imprese, nelle quali entra in parte o in tutto il tradi-
mento. Cristoforo da Soldo (i) narra, che dal primo al secondo
assalto de' milanesi all'Arengo corsero « forse tre ore », e che en-
trambe le volte il Vimercate avea con sé « qualche cinquecento
« persone ». Tenendo calcolo che nel mese di febbraio si fa notte
molto presto, noi abbiamo un dato sicuro per stabilire che la ri-
volta incominciò « intorno alle due pomeridiane », vale a dire « dalle
« ore venti alle ventuna », secondo il computo italiano. Non sap-
piamo quanta fede meriti 1' asserzione 'dello stesso da Soldo (2),
essersi il Venier in persona opposto ai rivoltosi la prima volta, che
cercarono di irrompere nell' Arengo; certo lo fece temerariamente
la seconda volta, ma vi trovò pur troppo la morte (3).
Condotti dal Toscano, il Vimercate, uno de' fratelli Stampa,
Giovanni, e m.olti altri cittadini, armati, erano riusciti a penetrare
nel palazzo del governo; non v'ha dubbio che per questo si fos-
sero già presi precedenti accordi tra il Toscano stesso e coloro,
che erano posti a guardia della entrata segreta. Saliti in fretta le
scale, gli invasori, tumultuando, giunsero ben presto, per il corri-
doio superiore, alla porta che metteva nella sala, ove erano soliti
risiedere i Capitani e difensori della libertà; ma essi, avvisati dal
rumore, erano già fuggiti: solo il Venier, che non senza motivo
dovea trovarsi colà, volle opporre resistenza e fu barbaramente
trucidato (4). In breve tutto il palazzo si riempì di grande confu-
(i) Soldo, op. cit., p. 863.
(2) Ibid.
(3) La uccisione del legato veneto è confermata da tutti gli storici e cro-
nisti contemporanei, non che da documenti. Il Sanuto, veneziano, dice che fu ta-
gliato a pezzi e la sua famiglia fatta prigioniera (loc. cit.}. Gli Annales Piacentini
(loc. cit.) aggiungono, che fu trucidato anche « Galoso Thoscano, prò liberiate
« domino » ; gli altri riuscirono a mala pena a fuggire, scampando così la vita,
non il carcere.
(4) Il Simonetta afferma che il primo a vibrargli il colpo fu Giovanni
Stampa ; la Cronaca del Dolfin (cit. dal Beltrami) che fu ucciso « per lo mezo
« de uno cittadino de Crivellis » ; il da Soldo che fu a tagliato a pezzi » sulla
L INGRESSO DI FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 329
sione: quelli, che erano rimasti fuori e non aveano potuto seguire
il Vimercate, fatti arditi dalla facilità dell' impresa, lo aveano invaso
dalla parte anteriore; cosicché, in pochi istanti, i rivoluzionarii si
trovarono padroni del campo. Fu naturalmente dichiarato decaduto
l'antico governo; e nella notte, passata fra il terrore e il sangue,
furono conquistate anche tutte le porte della città, compresa quella
ove si trovava il fiero Triulzi (i).
Solo alla mattina si ebbe un po' di quiete (25 febbraio); e al-
lora da quelli, che aveano diretto il movimento e che dovevano
aver tosto costituito una specie di governo provvisorio, si pensò
al modo di dare consistenza e stabilità al nuovo ordine di cose. E
nella stessa chiesa di Santa Maria della Scala, donde si può dire
fosse partito « tam praeclaH facinoris.... initium », come osserva
il Simonetta, fu in questo giorno medesimo tenuta un'assemblea
di primarii cittadini. La seduta riuscì naturalmente tempestosa,
lunghe furono le discussioni, e i pareri infiniti: chi voleva conti-
nuare il reggimento repubblicano, mettendovi però alla testa uo-
mini saggi e onesti; era questa forse la piccola fazione triulziana;
chi invece desiderava il protettorato, se non addirittura la signoria
di un principe. Il re di Francia ed Alfonso, il duca di Savoia e il
pontefice si videro proposti e ben presto scartati; solo de' veneziani
nessuno osò fiatare. Prése la parola il Vimercate, e con abile di-
scorso seppe indurre i milanesi a non fidarsi che dello Sforza, il
marito di una propria concittadina, colui solo che avrebbe potuto,
« uno die, et bello et rei frumentariae inopia oppressam civitatem
u liberare ». Incredibile, ma vero: gli animi di tutti si rivolsero,
come per incanto, al Conte, già tanto detestato fino allora; ed ac-
cettata la proposta per acclamazione, si pensò tosto di fargliela
pervenire. Il Simonetta afferma che ne fu dato l'incarico allo stesso
proponente; ma non pare che egli si sia mosso dalla città; giacché
subito dopo quello storico aggiunge, che lo Sforza fu avvertito di
scala. Sui funerali dell'infelice Venier, « celebrati onorevolmente e lodevol-
« mente » con denari della Fabbriceria del Duomo, cfr. Ann. della Fabh. del
Duomo, voi. II, p. 136.
(i) Egli si arrese, dicono gli storici tutti, seguendo il Simonetta, dietro le
esortazioni del suo congiunto Melchiorre Marliano. Pare però che si sia riservata
per sé e i suoi seguaci piena libertà d'azione, come vedremo.
330 ALESSANDRO COLOMBO
quanto avveniva in Milano da Leonardo Gariboldo (i) e da un
certo Luigi Trombetta, anzi, per tutto quel giorno, fu un incessante
andirivieni di messi da Vimercate e da Milano, quasi per avere o
dare nuove e più sicure informazioni. Lo stesso storico fa poi
comprendere la gioia immensa provata dal suo signore al lieto
annunzio; ma in pari tempo dice che egli non perdette la precisa
visione del momento, e che aumentò la vigilanza sul nemico, dando
ordini precisi in particolar modo al Salernitano e a Roberto San-
se verino, i quali, com'è noto, si trovavano quasi a contatto co' ve-
neti. Il giorno appresso, giovedì 26, radunò un consiglio di guerra:
ciò avvenne senza dubbio al mattino; ivi furono ventilati e discussi
due progetti, se cioè si dovesse assalire il nemico o marciar tosto
su Milano; prevalse alla fine il secondo, sostenuto dal Conte, che
ben sapeva come i fatti compiuti valgano molto di più de' diritti
più o meno pretesi: e poco prima del mezzodì egli in persona,
accompagnato dal Gonzaga « con forse cinquecento cavalieri w (2),
mosse dal campo di Vimercate. alla volta dell'arresa città. 11 viaggio
fu veramente trionfale. Lungo la strada, gli vennero incontro molti
illustri milanesi, fra i quali Gaspare da Vimercate, non che una
folla di popolo esultante (3); quando arrivò a porta Nuova erano
circa le ore venti (i pomeridiane). E qui lo lascieremo per un mo-
mento, parendoci- opportuno fare alcune osservazioni sopra il rac-
conto, qualche volta incompleto, del Simonetta.
Questi ad esempio, nel descrivere l'assemblea del 25 febbraio,
tenuta nella chiesa di Santa Maria alla Scala, si limita a far sapere
che ivi si discusse della forma del nuovo governo e della scelta
del nuovo signore, lasciando comprendere come dopo l'orazione
del Vimercate fu sciolta affatto. Ma i documenti da noi veduti, e
citati in parte anche dal Sickel (4), ci dimostrano che in quella
(1) Faceva parte del collegio de' dottori (giureconsulti), ed abitava proba-
bilmente a porta Comacina ; cfr. più avanti.
(2) Soldo, loc. cit. ; il Gagnola, op, cit., p. 126, dice solo : " con ca-
" valli e fanti „. E lo Sforza stesso, nelle sue « istruzioni » all'Arcimboldo, che
vedremo (in data Piacenza, 24 ottobre 1481), afferma che erano 50, per di più
« disarmati ».
(3) Uno de' primi popolani ad acclamarlo fu, come diremo più avanti, un
certo Jacopo del Palazzo, detto il « Casamatta », il quale venne, per questo ed
altri suoi servigi, ricompensato in seguito dalla duchessa e dal duca ; cfr. cap. III.
(4) Sickel, op. cit, p. 214, nota 5.
331
seduta stessa, o in un'altra tenuta nel pomeriggio, furono trattati
altri argomenti non meno importanti e vitali per la città. Lo storico
sforzesco, senza dirlo in modo assoluto, fa capire che in Milano
c'era tuttavia una frazione, benché piccola, la quale voleva salva-
guardare i diritti della abolita repubblica, pur riconoscendo in mas-
sima le benemerenze del conte Francesco. Questa frazione, come
abbiam detto, era capitanata dal Triulzi. Se così non fosse, non
si potrebbe spiegare il fatto che egli si appostò, [insieme coi suoi
seguaci, a porta Nuova e lì impose allo Sforza, che stava per ol-
trepassarla, l'accettazione di alcuni « capitoli ». Bene è vero che
il Simonetta aggiunge, essere poi lo Sforza riuscito ad entrare in
città, « omissis civium postulatis » (i); ma ciò non nega che essi
furono effettivamente compilati e discussi. Lo dimostra, se non ci
fosse altro, il documento edito la prima volta dal Sickel (2); e
sebbene esso porti la data del 26 febbraio, un altro documento,
che verremo tosto ad esaminare (3), ci proverà in modo non dubbio
che la famosa « capitolazione di Milano » era stata preparata, in
tutti i suoi minuti particolari, fin dal giorno precedente.
Fu sempre asserito che Io Sforza ebbe il dominio del ducato
milanese per « libera elezione di cittadini » ; questo è vero, e
si trova confermato in forma solenne anche in un atto dello stesso
duca, cui più innanzi avremo occasione di studiare (4). Ma dal dir
ciò, e noi sappiamo già in quale senso, al sostenere, come fa il
(i) Simonetta, op. cit., p. 601.
(2) È il doc. XXII, già ricordato. A questo proposito ci piace di far no-
tare che il Bianchi-Gicvini, mentre riassume largamente tale documento (op. cit.,
pp. 163-66), osserva in appendice {Nota sulla capitoìaiione di Milano^ pp. 195-96)
che ne ha sott'occhio due copie, Tuna ricavata dal Reg. G, esistito altre volte
nell'Aich. civico del Broletto (è quella studiata dal S., ora nell'Arch. civico sto-
rico di Milano, Dicasteri, n. 4), l'altra posseduta dall'Ambrosiana nel voi. I delle
Miscellanee Marelliane, perfettamente conformi, a rogito del notaio Jacopo de' Pe-
rego. La deduzione però, che ne fa l'A. (p. 197), è inesalta.
(3) Arch. di Stato di Milano, Potenze sovrane, c?,rt. II, fase. II. Porta la
data dell' II marzo 1450, e in parte fu pubblicato dal Formentini (op. cit., pp. 182-
192), dimostrando tuttavia di averlo poco compreso. È, come vedremo, il rias-
sunto di tutti gli atti relativi alla capitolazione della città e investitura del nuovo
duca. Altre copie di tale documento si trovano e presso l'Arch. civico storico e
presso la Trivulziana ; cfr. doc. IV.
(4) Le « istuizfoni all'Arcimboldo » già citate.
332 ALESSANDRO COLOMBO
Bertolini (i), che « la resa fu di natura affatto incondizionata »,
corre un po' di differenza. Se egli infatti si fosse fermato a consi-
derare con più attenzione i tre documenti citati dal Sickel, a com-
plemento di quello del 26 febbraio, e avesse avuto modo di vederli
nella loro forma integrale, non che di studiarne qualche altro, forse
la sua conclusione (che in fondo è quella del S. stesso) sarebbe
stata alquanto diversa, o per lo meno avrebbe compreso che
r « affare della resa » ebbe una importanza maggiore di quella che
si possa imaginare, e che, trascinato avanti per parecchio tempo,
fu in ultima analisi la vera cagione della lunga proroga data al
solenne ingresso dello Sforza in Milano, e alla conseguente formale
investitura del ducato milanese (2). Ma non precorriamo gli avve-
nimenti.
Da quanto si legge nel principio dell' istrumento 11 marzo 1450,
a rogito de' notai milanesi Jacopo de' Perego e Damiano de' Mar-
liano, appare che, dopo essere stato riconosciuto lo Sforza, fra" i
varii pretendenti al trono duchesco, l'unico degno di salirvi, « unicus
« sapientissimus princeps Franciscus Sfortia visus est omnibus
« dignus, ad quem tota regendi summa deferreretur », esponendo-
sene in breve i motivi (3); ecco così confermata la veridicità del-
l'assemblea descritta dal Simonetta; tutti i « primari cittadini » e
i u popolari » si riunirono nelle loro singole porte e parocchie per
discutere, « sponte, libere, omni impressione cessante », degli affari
e avvenimenti della giornata. Ciò avvenne senza dubbio nel po-
meriggio del 25 (4), giusta il concerto preso avanti si sciogliesse
l'adunanza del mattino; e mano mano che ogni consiglio particolare
(i) Bertolini, op. cit., pp. 4S-46.
(2) Non si devono però trascurare le ragioni di alta politica e la neces-
sità, per parte dello Sforza, di premunirsi da qualsiasi improvviso attacco de' ve-
neziani.
(5) Eccoli : la donazione del defunto duca (cfr. a proposito quanto scri-
vemmo nel nostro lavoro Vigevano, ecc., cap I); la fama guerresca del conte
Francesco ; la reverenza verso la di lui moglie Bianca Maria, già solennemente
legittimata dal padre Filippo Maria.
(4) Così risulta anche dalle prime parole della proposta prima (o interro-
gazione) rivolta al popolo, adunato in generale comizio il detto giorno 11 marzo,
dal presidente Guarnerio da Castiglione: « Primo, videlicet attento quod pridie
« mensis preteriti vigesimo sexto... » ; dove il Formentini (op. cit , p. 184), non
sappiamo perchè, legge per die anziché pridie.
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC.
333
o di porta era riuscito a mettersi d'accordo ne' punti principali,
sempre secondo l'intesa, si trasportò in massa, per l'assemblea ge-
nerale, alla solita chiesa di Santa Maria alla Scala. Il nostro do-
cumento dice che anche questa riuscì numerosissima: « conuene-
u runt in magno numero »; e subito procedette alla nomina di 24
fra i più cospicui cittadini, quattro cioè per ogni porta, deputan-
doli espressamente « ad prouidendum Statui et Ciuitati et ad ca-
u pitulandum cum.... Ill.'no domino Francisco Sfortia », munendoli
de' necessari poteri, e per di più dando loro, ove lo avessero cre-
duto necessario, facoltà di farsi per ciò sostituire da sei cittadini
scelti nel proprio seno, uno per porta. I 24 eletti furono appunto
i seguenti:
Pietro Cotta
Bartolomeo Morone
Franceschino di Castel S. Pietro
Cristoforo Pugnano
Guarnerio da Castiglione
Jacopo d*Angera
Giovanni Corio
Francesco Meravigli
Ambrogio de Clivio
Tommaso Amicono
Bartolomeo Gallar ano
Simone di Abbiate
Antonio de Pozzi
Antonio de Tr inizio
Bartolomeo Visconti
Giovanni de Pietrasanta
Giorgio Piatti
Lanzalotto Grotti
Gaspare del Conte
Giovanni Stampa
Dott. Jacopo de' Dugnano
Dott. Stefano dt Bossi
Dott. Ambrogio de Pagani
Dott. Leonardo Gariboldo
per porta Nuova
per porta Vercellina
per porta Orientale
per porta Romana
per porta Ticinese
per porta Cumana
Costoro seduta stante, dietro invito anche del popolo e de' cittadini
(nobili), deputarono « ad omnia predicta peragenda n quattro dei
334 ALESSANDRO COLOMBO
propri, il Castiglione, il Pagnano, il Pietrasanta e il Cretti, e due
altri scelti fuori, Melchiorre de' Marliano e Giovanni Antonio da Vi-
mercate.
Ed eccoci oramai al nocciolo della questione. Che cosa fecero
la « giunta de' 24 » e la « deputazione de' 6 » ? Quanto dice al
riguardo il Sickel (i), e per conseguenza ripete il Bertolini (2),
non ci sembra troppo esatto. Noi qui ci troviamo di fronte a una
serie di documenti importantissimi, parte editi e parte non, della
cui autenticità non è lecito dubitare. L'istrumento dell'i i marzo
poi, che li dovrebbe riassumere e spiegare, lascia apparentemente
qualche lacuna, ne cita qualche altro che non fu possibile- rinve-
nire, e non fa parola di alcuna opposizione sorta dentro o fuori
del Generale Consiglio. Non sarebbe adunque vero il fatto di Am-
brogio Triulzi a porta Nuova? E allora come si spiega che egli fu
relegato « in perpetuum » dallo Sforza in una sua villa? (3). A
tutte queste domande e possibili contraddizioni vediamo di rispon-
dere con ordine.
Anzitutto è certo che i 24 della « giunta » sopracitata, e in
modo particolare i 6 « deputati », ebbero dal Consiglio Generale,
che li nominò il 25 febbraio, ordini precisi, se non addirittura pe-
rentorii. Lo dice il nostro istrumento: « .... eligerunt (i 24 cittadini)
« et deputauerunt cum potestate et mandato et commissione sub-
« stituendi.... sex ex ipsis uiginti quatuor ciuibus, et omnem su-
u biectionem et recognitionem et fidelitatem faciendi, et cum pieno
u arbitrio concludendi cum malori uel minori capitulorum parte,
a uel etiani sine capitulis, remittentes omnia ad arbitrium et de-
« liberationem prefati d. Ducis » (4). Ed essi si misero subito
al lavoro. Furono concordati in massima i capitoli della resa (in
numero di 29); ed avuto ampio mandato di procura con atto
steso dal notaio di Milano Ambrogio de' Gera addì 26 febbraio
(i) Sickel, op. cit., pp. 215-16.
(2) Bertolini, op. cit, pp. 46-47.
(3; Simonetta, op. cit., p. 604; Couio, op. cit., voi. Ili, p. 181.
(4) Il Sickel e il Bertolini vorrebbero, che tale facoltà fosse stata loro con-
cessa la seconda volta che si recarono a Vimercate ; ma a noi pare che non sia
cosi, almeno dall'attenta lettura fatta dell' istrumento 1 1 marzo, e in modo par-
ticolare del primo quesito già citato e proposto dal Castiglione, dove appunto si
trovano tali parole.
L INGRESSO DI FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 335
1450 (i), i sei deputati si recarono, in questo stesso giorno e di buon
mattino, al campo dello Sforza a Vimercate, per esporgli e fargli ac-
cettare le condizioni, dietro le quali la città era disposta ad arr^r).
dersi. Notiamo per incidenza che, fra i 24 della giunta, era il nipote
di Ambrogio Triulzi, Antonio, e che l'altro suo parente, il Marliano,
faceva parte de' sei. Ci viene pertanto il dubbio, che quel fiero re-
pubblicano abbia potuto aver da loro copia o per lo meno notizia
de' capitoli che si preparavano, e che, dubitando dell'accettazione
de' medesimi da parte del Conte, si sia riservato di far egli, per
così dire, un colpo di mano. In modo diverso non si può spiegare
il racconto del Simonetta; il quale, del resto, tace affatto della
conferenza avvenuta, la mattina del 26, tra il proprio signore e i
sei delegati milanesi. Giunti adunque costoro a Vimercate e ammessi
alla presenza del conte, gli lessero i famosi capitoli; ed egli, in-
deciso sul da fare, né volendo d'altra parte opporre un formale
rifiuto, scelse una via di mezzo: dichiarò, cioè, di accettarli in mas-
sima, ma volle ad ognuno di essi, particolarmente, dare la propria
risposta. Non ne risultò pertanto un atto definitivo, ed è a ritenersi
che le risposte stesse siano state scritte sul foglio medesimo portato
da' delegati di Milano (2); tuttavia questi se ne mostrarono sod-
disfatti, e valendosi forse de' pieni poteri loro accordati da' proprii
concittadini, nel partirsene, assicurarono lo Sforza che i capitoli,
così com'erano stati « promessi, jurati, conclusi » (ma non ancora
« firmati »), sarebbero riusciti di pieno aggradimento ai milanesi,
e lo invitarono senz'altro a prender possesso del nuovo dominio (3).
Licenziati i delegati, lo Sforza adunò subito il consiglio dei
generali; e, come già sappiamo, dopo aver esposto in breve la si-
tuazione e udito, secondo era il suo costume, il loro parere, noti-
ficò che nella giornata stessa sarebbe partito alla volta di Milano,
(i) Non ci fu possibile rinvenire tale documento, cosi solennemente ricor-
dato dal Castiglione. Un altro identico, sotto la data però del 28 febbraio e
dello stesso notaio, lo vedremo più avanti (cfr. doc. II).
(2) Questo dovea essere stato steso e autenticato dal notaio milanese Ja-
copo de' Perego, come appare del resto chiaramente dal doc. XXII del Sickel ;
e che non fosse definitivo, lo prova la mancanza in fine delle firme de' rispet-
tivi contraenti e testimoni.
(3) Arguiamo che così abbiano fatto, perchè tale fu pure l' istruzione con-
tenuta nella procura già citata del 28 febbraio, e che vedremo più avanti.
33^ ALESSANDRO COLOMBO
per inaugurarvi il nuovo governo. Ed invitò ad accompagnarlo lo
stesso Gonzaga.
Intanto i nostri delegati erano di ritorno alla città, attesi na-
turalmente con ansia; non possiamo dire con sicurezza come sia
stato accolto l'esito della loro ambasceria: certo alla frazione re-
pubblicana dispiacque il fatto, che i capitoli non fossero stati accolti
e firmati nella loro integrità (i); ecco la ragione del colpo di testa
di Ambrogio Triulzio. Ad ogni modo nell'adunanza plenaria, che
si tenne tosto nella solita chiesa di Santa Maria alla Scala, i de-
legati stessi, dopo aver riferito della loro missione, ordinarono
u portas ciuitatis aperirì, et prefato Ill."^o Domino Francisco Sfortie
« patentes fieri ». La proposta fu naturalmente approvata all'una-
nimità, dentro e fuori del consiglio; anzi il nostro istrumento del-
l'i i marzo fa capire, che la cittadinanza tutta, per questo lieto fatto^
si abbandonò ad immense dimostrazioni di gioia: lo spauracchio
terribile della carestia era ormai scongiurato. Così lo Sforza fu
proclamato e riconosciuto « duca di Milano » ; e perchè il prossimo
ricevimento di lui avesse a riuscire più solenne, « bona habita inter
« nobiles et ciues ac uniuersum populum ac matura deliberatione »,
si stabilì di andargli incontro in massa e di far sonare al suo ar-
rivo tutte le campane della città. Il noto documento continua nar-
rando che, dopo le accoglienze entusiastiche della folla, che accom-
pagnò il novello duca, « cum maxima illaritate et incredibili letitia »,
da porta Nuova sino alla chiesa Maggiore (Duomo), egli fu investito
della sovrana dignità « cum reseruatione et sine preiuditio cuius-
« libet juris » (2), Queste 'parole hanno per noi una grande im-
portanza; tanto più che subito dopo si aggiunge, essersi il Consi-
glio Generale nuovamente adunato per decidere sulla definitiva
traslazione della podestà ducale, e aver lo Sforza, « statim », ab-
bandonata la città, « ut liberalioribus animis hec magna res per-
u ficeretur, et omnium ciuium pienissimo consensu concludere-
u tur », lasciando in pari tempo ordine di fargli sapere a Vimer-
cate, u quid ciues mediolanenses et populares iterum statuerent, et
(i) I contrari al Conte dovevano essere tuttavia pochi, se è vero quanto si
legge nelle istruzioni sue all'Arcimboldo, del 24 ottobre 145 1: « Et che questo
« fia uero, che le uoluntà de tucti (milanesi), excepti alcuni pochissimi, corressino
« in Noy... ».
(2) SiCKEL, op. cit., p. 216.
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 337
« concorditer matura discussione deliberarent ». Che cosa era av-
venuto? E perchè s'insiste tanto sopra questo « completo ac-
li cordo » della cittadinanza? Ecco come presumibilmente si pos-
sono spiegare i fatti.
Che alla frazione repubblicana, rappresentata ormai dal Triul-
zio, dall'Appiano e dall'Ossona (questi due ultimi ex-capitani e di-
fensori della libertà), non fosse piaciuto il modo con cui erano stati
concordati i capitoli della resa, lo abbiamo già detto; che essa poi
abbia cercato di far sorgere in proposito qualche tumulto nella
città, è facile dedurlo dal racconto del Simonetta (i), il quale ap-
punto dice che il Vimercate, intuendo il pericolo che il popolo
« volubile w avesse a cambiar d'opinione, si affrettò ad andare in-
contro allo Sforza, per consigliarlo a non indugiare. Né il timore
del Vimercate era senza fondamento. Giunto infatti a porta Nuova,
che pareva la più sicura, il conte Francesco la trovò, con sua ma-
raviglia, chiusa e ostruita da macerie e col ponte alzato; ma ciò
che fece ben tosto mutare in ira la sua maraviglia, si fu di vedersi
innanzi il Tr.iulzio, il quale, sostenuto da' suoi seguaci, pretendeva
firmasse integralmente i capitoli, non ostante quanto era stato sta-
bilito co' delegati milanesi il mattino stesso. Era questo un buon
motivo per mandar a monte ogni trattativa; e senza dubbio, ubbi-
dendo al primo impulso, lo avrebbe fatto lo Sforza, ove non fossero
subito intervenute l'opera pacificatrice del Vimercate e la piena di-
sapprovazione da parte de' cittadini, affollati dentro e fuori della
porta, all'atto inconsulto del Triulzio. Tuttavia lo spiacevole inci-
dente lasciò nell'animo del superbo condottiere della freddezza,
cui non valse a far scomparire del tutto la calorosa e spontanea
accoglienza che ebbe poi, entrato in città (2); e come non la per-
(i) Simonetta, op. cit., p. 601. Il Corio, op. cit., Ili, p. 179, scrive pre-
cisamente così : et ... non essendovi chi comandasse, v'era pericolo per l'audacia
« di alcuni ai quali era molesta quella mutazione ».
(2) Non sappiamo quanta fede meriti l'asserzione del Simonetta (ripetuta
testualmente dal Corio e dagli altri storici), non aver cioè lo Sforza potuto
smontar da cavallo per la grande ressa che avea intorno, e, portato quasi a braccia
dalla moltitudine, lui e il suo cavallo, per un buon tratto di strada, essere in tal
modo entrato in Duomo. Certo che la dimostrazione ricevuta allora da' milanesi
fu assai grandiosa e commovente ; lo conferma non solo il nostro istrumento, ma
anco le già citate istruzioni del 24 ottobre 145 1 : « ... quando Noi la prima
« uolta intrassimo in milano per porta noua, gli intrassimo senza arme : et non
33^ ALESSANDRO COLOMBO
donò a quelli, che ne erano stati gli autori (i), così volle si rifa-
cessero i capitoli della resa, si lasciasse a lui pieno potere di ac-
cettarli u in totum et prò parte >» e, venendo per trasferirgli il
dominio, i deputati stessi prestassero atto di sottomissione e giu-
« haueuamo oltra ad L.ta persone de nostre cum Noy disarmate, et se miserno
« in mezo de persone circa L."i et in effecto de tucto lo popolo, tra li quali
« infiniti erano armati, quali ne compagnorono fino ala Ecclesia mazore, cridando
« quodammodo : osanna in excelsis, per tale modo che niuno de nostri ne era
« presso ad L braza: et de certo ne toccarono la mano de li homini X.m et più,
« et non solamente li homeni, ma infinite notabile donne... ».
(i) Arch. di Stato di Milano, Re^. due, Framm., 1420-^2 :
Modoetie, die XXo Marti] 14^0.
Scriptum fuit Bolognino prò infrascriptis etc.
D. Gabriel de Brena
Johanne[s] de Suyco
Stefanus Rabbia ) in Castro papié
Ambrosius machassola
Antonitis de cornile
Johannes de assona )
Michael de Jncino > in Castro Modoetie.
Johannes de Appiano )
Da questa semplice nota, diretta a Bolognino de Attendoli, castellano di Pavia,
si apprende che otto de' dodici componenti l'ultimo magistrato della libertà
furono imprigionati il 20 marzo 1450, i primi cinque in Pavia, gli altri tre
in Monza. Quanto a Pier Candido Decembrio, che il Sassi [Historia typ^
lift, tnediol., a. 1488, in Argellati, Biblioteca script, mediol, I, cccv) ci fa sa-
pere essere fuggito a Roma, « paternis omnibus bonis exutus », e là poi beni-
gnamente accolto da papa Niccolò V, il Gabotto {^attività, Qcc.y loc. cit.) ri-
tiene « assolutamente infondato il giudizio » che egli abbia lasciato la città
« per isfuggire alla disgrazia e forse alla vendetta ». Già abbiamo visto come
Ambrogio Triulzi venne relegato in una sua villa; egli non era però dei
difensori e capitani della libertà. Piuttosto pare vi appartenessero quegli altri
quattro, che il Magenta, I Visconti e gli Sforma nel castello di Pavia, voi. I,
p. 446, ricorda tra i 43 confinati dal duca e rinchiusi in quel castello: Agostino
di Cisate, Pietro Regna, Giovanni da Birago e Onofrio RulTaldo. Giovanni da
Sorico (il nostro documento dice a de Suyco ») morì in carcere (Magenta, ibid.),
e Antonio da Vergo (cosi scrive il Magenta) è certamente il nostro Antonio del
Conte. Quanto all'Ossona e all'x\ppiano, che il Giulini, op. cit., voi, VI, p. 470,
dice « chiusi in carcere, dalla quale poi non so quando vennero liberati », il
Ghikzoni, Giov. Ossona e Giov. Appiani nella racchetta di Mon:(a, in quest'or-
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 339
ramento di fedeltà (i). Un'ora dopo circa (2), e cioè alle 21 (3), la-
sciava Milano e si recava nuovamente al campo.
Quello che abbia fatto il nuovo duca, in codesta sua prima e
breve permanenza nella nostra città, non è possibile dire con cer-
tezza (4), Il Simonetta (5) racconta che, dopo essere entrato nel
massimo tempio a ringraziare Dio e la Vergine Madre, si recò
u ad Viridarium » (Verziere), sostando alquanto, ma senza scender
di cavallo, dinanzi alla casa de' Marliani (6); che quivi si rifocillò
in fretta; e, nominato « governatore interinale » di Milano (« ad
« suum usque reditum ») Carlo Gonzaga, e impartiti a lui gli ordini
principali e più pressanti, uscì di porta Orientale per far ritorno
al campo. Ma quali siano questi ordini non dicono i documenti ;
certamente essi furono dati a viva voce e, oltre alla famosa re-
visione de' capitoli della resa, dovevano riguardare la nomina del
podestà, del vicario e de' XII di Provvisione, la riorganizzazione
dell'amministrazione del comune, la sicurezza e l'igiene pubblica,
la punizione de' colpevoli, la libera importazione di vettovaglie e
distribuzione di soccorsi ai più bisognosi (7). Quanto alla famiglia
chivio, V, 1878, pp. 205-27, dimostra, contrariamente a quanto affermò il Peluso,
essere cioè stati liberati dopo pochi giorni, che il primo venne ucciso in prigione
e il secondo non ne fu liberato che alla fine della guerra con Venezia. Per la
storia ricordiamo, che dopo il 20 marzo lo Sforza fece ancora rinchiudere in
Pavia Giacomino da Villano va, Cigolino da Bescapè, e 1' 11 dicembre 1450 la
moglie e tre figlie di Innocenzo Cotta, a principalisssimo suo nemico » (Ma-
genta, loc. cit. e voi. II, pp. 224-25, doc. n. CCLI). Erano pure allora sotto
custodia del Bolognino il marchese Guglielmo di Monferrato e Antonio Centi-
glia, marchese di Cotrone e conte di Veutimiglia, de' quali già abbiamo discorso,
nel cap. I.
(i) Cosi appare anche dall'atto o mandato di procura del 28 febbraio, che
vedremo.
(2) Soldo, loc. cit. : « E questo fu a dì XXVI di febbraio 1450, e stette
« dentro forsi un ora... ».
(3) Lo Sforza entrò in Milano, come abbiam detto, alle ore venti.
(4) In memoria di questo primo ingresso pare siasi fatta, addi i.** marzo,
una solenne processione per le vie della città, parate a festa ne' luoghi più im-
portanti, col trasporto delle sacre rehquie dalla cattedrale. Vedine le spese rela-
tive ne' più volte citati Ann. della Fabh. del Duomo, voi. VIII, p. 72 (docc. sotto
le date 3, 7, 12 del detto mese di marzo).
(5) Simonetta, op. cit., p. 602.
(6) Cfr. CoRio, op. cit., voi. III, p. 193, note.
(7) CoRio, op. cit., voi. Ili, p. 180.
34^ • ALESSANDRO COLOMBO
dell'assassinato Venier, il Sanuto (i) scrive che lo Sforza, appena
entrato in Milano, « liberò tutti que' Veneziani e que' della famiglia
u deirOrator nostro, perchè desiderava d'esser benevolo colla Si-
it gnoria nostra, conoscendo la nostra gran possanza... ».
Noi conosciamo indirettamente, e cioè per mezzo del noto
istrumento dell' ii marzo, che il cavaliere Biagio de Assareto fu
eletto a podestà di Milano, e a suo vicario il dottore Gabriele da-
Vimercate; non sono però ricordati i nomi de' XII di Provvisione,
mentre si menzionano quelli degli Anziani delle porte; rimasero
ancora in carica, come era del resto naturale, i 24 della « giunta »,
Conosciamo pure i nomi di sei « trombetti «t del comune (2). Un
documento poi del 28 febbraio 1450, edito dal Morbio (3), in cui
si ordina « che ciascaduno de li olim capitanei et defensori de la
(i) Sanuto, op. e loc. cit. Un Giovanni Basilasco, venuto a Milano al
seguito del Venier, vi appare però ancora prigioniero nel giugno 1450; cfr. lettera
23 giugno 1450 allo Sforza degli oratori fiorentini a Venezia, come si dirà più
innanzi.
(2) Con lettera da Monza, 19 marzo 1450 (Arch. civico storico di Milano,
Registro lettere ducali^ fol. 5), dietro richiesta del vicario e de' XII di provisione,
lo Sforza conferma in carica i sei tubatori del comune, già esistenti : Giovanni
de Omate, Giorgio de' Rolandi, Beltramo del Borgo, Ambrogio de' Lattarella,
Giacomino da Reggio e Antonio de Omate. Ecco la lettera, nella sua integrità:
« Franciscus Sforti a Vicecomes Dux Mediolani etc. Magnifici dilecti nostri.
« Accepimus litteras vestras, intelligimusque quid per ipsas ad nos scribitis de
« suffìtientia illorum sex tubetarum, quos dictis litteris vestris inclusa cedula de-
« scriptis habuimus, quorum hec sunt nomina ; primo, Johannes de homate,
<( Georgius de rolandis, Beltramus de Burgo, Ambrosius de lactarella, Jacobinus
« de Regio et Autonius de homate. Attendenteque quam stricte prò eorum con-
« firmatione ad nos scribitis, et nobis persuadentes ipsos sex, prout scripsistis
« dicto tubarie communi huius nostri offitij, idoneos esse et suffitientes, con-
« tentamur suprascriptos sex ad dictum tubarie offitium ab hodierna die in antea
« confirmatos esse. Et si opus est de nouo ipsos elligimus et in dicto offitio
<( confirraamus, prout hactenus dicto prefuerunt offitio.
« Dat. in castro terre nostre Modoetie, die XVIIJJ." Marti] MCCCCL.o
« ClCHUS ».
A tergo: « Magnificis Dillectis nostris Vicario et XIJ promixionis Commu-
« nitatis inclite urbis nostre Mediolani ».
(3) C. Mori IO, Codice Visconteo- Sfor^^esco (voi. VI della Storia de' muni-
cipi italiani), Milano, Manini, 1846, pp. 335-37, doc. n. CXL.
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 34I
« libertade » si abbia a presentare, per le ore 20, al Gonzaga nella
sua sede alFArengo, « che questo è per importantissima casone »,
concedendo perciò speciale salvacondotto e dichiarando ribelli co-
loro, che avessero osato rifiutarsi, o altrimenti impedito a' detti Ca-
pitani e difensori di ottemperare al comando, ci prova come il
nuovo governatore di Milano pensò subito a liberare la città degli
elementi di possibile futuro disordine. E in qual modo infine lo
Sforza abbia provveduto a far cessare la carestia, che è in altri
termini il substrato di ogni rivolta, vedremo da sue lettere auten-
tiche, in gran parte ancora inedite.
Intanto sarà bene conoscere l'ultima fase della importante que-
stione de' capitoli della resa e del trasferimento del ducale dominio.
Non è provato che i sei deputati, de' quali conosciamo i nomi, ab-
biano seguito il novello duca a Vimercate, quantunque una frase
del nostro istrumento lo possa far credere (i); è certo però che
essi , accresciuti di numero e muniti di pieni poteri (2), si reca-
rono al campo sforzesco il 28 febbraio, portando seco una copia
de' famosi capitoli del 26. Questi furono, in quello stesso giorno, .
definitivamente concretati e giurati (3); ma l'atto formale e solenne
di traslazione del dominio milanese non fu steso che tre giorni
dopo (3 marzo), nella casa del conte Giovanni Corio (4) a Vimer-
(i) «... omnes ciues et populares Mediolanenses, et uiginti qùatuor de-
ce putati magna sollicitudine institerunt, decreuerunt et iusserunt, quod illi sex
« elccti... prefatum 111 um Dominum Franciscum Sfortiam sequerentur... w. Di
questo parere pare sia il Bertolini (op. e loc. cit.), informandosi naturalmente al
Sickel.
(2) Doc. II. Copia autentica in cod. 1292 {Miscellanea storica, Repubblica
Ambrosiana^ doc. I) della biblioteca Trivulziana. Il nuovo aggiunto è Graziano
de' Trincheri ; ma egli non compare nell'atto del 3 marzo.
(3) Sono editi dal Formentini, op. cit., doc. n. XXV, pp. 178-82, però
con la data erronea del 27 febbraio, sabbato. Li citò il Sickel, ed esattamente
sotto il giorno di sabbato 28 febbraio, alla nota 3 della p. 214. Quest'ultimo
osserva che anche questi capitoli si trovano in originali all'Arch. civico di Mi-
lano ; noi però non ve li abbiamo più trovati. L'edizione del Formentini è in
tutto conforme al doc. XXII del Sickel, naturalmente senza le risposte del duca,
e ccn qualche variante nella lezione. Una copia di tali capitoli esiste tuttavia,
inserta nell' istrumento del 3 marzo ; ma da essa appare che il numero di essi
da 29 venne ridotto a 28.
(4) Uno de' ventiquattio ddla giunta, eletto per porta Vercellina.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXIT, Fase. VI. 22
34^ ALESSANDRO COLOMBO
cate, per mano del notaio Domenico de' Marliani (i). È prezzo
dell'opera considerarne brevemente il contenuto.
Ammessi alla presenza dello Sforza, i delegati di Milano, dopo
le solite formalità, gli presentarono i capitoli modificati del 28 feb-
braio (2), lasciandogli ancora « pieno arbitrio » di riformarli, di-
minuirli o cassarli « in totum vel prò parte w, secondo le istruzioni
espressamente ricevute dalla « giunta » e dal Consiglio Generale (3) ;
giurarono quindi nelle sue mani e sulle sacre scritture eterna fe-
deltà e sudditanza a lui e a' suoi eredi e discendenti; gli promisero
infine che, « in alia solemni congregatione ciuium et populi »,
avrebbero fatto proclamare sul suo nome « translationem domini i
« et ducatus et pertinentiarum in ampliori forma j uri dica ». Ciò
avvenne, come vedremo, sette giorni più tardi (4); intanto, per
conto proprio e de' 24 che rappresentavano, lo proclamarono e ri-
conobbero legittimo M nuovo signore e duca w (5).
(i) Doc. III. Copia cartacea autentica, estratta dagli originali dal dottor
Antonio Verga, notaio collegiato di Milano, il giorno 17 luglio 1759; Archivio
civico storico di Milano, Dicasteri, cartella n. 4. — Ne ha dato notizia, non che
un estratto, il Verri, op. cit., voi. II, p. 36 ; lo ricorda pure il Rosmini, op. cit.,
voi. II, p. 452; e nella solita nota 3 a p. 214 il Sickel. Lo citano pure il Ru-
BiERi, loc. cit, e il Cipolla, Signorie, Milano, 188 r, p. 439; è indirettamente
impugnato dal Bertolini, loc. cit. Altra copia autentica di questo istrumento
ved. nel codice 1292, doc. II della Miscellanea qcc. cit., esistente nella Trivul-
ziana.
(2) Il capitolo ommesso è 1' ultimo (XXIX), riguardante precisamente la
successione al ducato, reso ormai inutile, perchè implicitamente contenuto nel
giuramento fatto da' sei deputati. Le risposte (« tenor responsionum ») del conte
Francesco sono messe tutte dopo il « tenor capitulorum ».
(3) Le precise parole sono anche citate dal Sickel, op. cit., p. 214 ; non
comprendiamo quindi perchè il Bertolini, op. cit., pp. 46-47, dica che i sei
deputati a valicarono i termini della potestà loro assegnata » (ved. nostra
nota 4 a p. 334).
(4) Cfr. doc. IV. Affatto insussistente ci sembra l' affermazione del re-
censore dell'opera del Formentini (in La vita nova, a. II, 1877, voi. II, p. 159,
in nota, alla rubrica Libri milanesi, e firmato A. S.), non aver fatto « questo
ce plebiscito.... che sanzionare la violenza de' fatti compiuti, perchè fu indetto il
« giorno II marzo, mentre lo Sforza, procedendo a la italiana *e no hiuendo
« più conscientia, che l'altri pari soy' (come gli consigliava Cosimo de' Medici),
a avea già occupata la città il 27 febbraio (sic) ».
fS) È nella « Minutta seu Tessera », aggiunta all' istrumento del 3 marzo,
e sotto la data medesima.
l'ingresso di FRANCESCO SFORZA IN MILANO, ECC. 343*
Compiuta per tal modo la delicata missione, i sei fecero ritorno
a Milano e riferirono ogni cosa a' colleghi della Giunta. Ma per-
chè l'opera loro avesse a sortire pieno effetto, mancava ancora la
solenne approvazione del popolo, riunito in generale assemblea;
questa si ebbe appunto, come abbiam detto, Tu marzo (i). Quanto
avvenne in codesta memorabile seduta è già noto, avendolo altri
prima di noi sommariamente esposto (2); converrà pertanto che
noi ci limitiamo a ricordarne i punti principali.
Con « grida » pubblicata il mattino deirii, e fatta proclamare
da' soliti banditori (3) in tutte le piazze e carrobii d'uso, il podestà,
il vicario, i XII di Provvisione e i XXIV della Giunta invitarono,
« per l'ora decimanona » di quello stesso giorno, tutti i capi-famiglia
a riunirsi « honestamente et senza alcuno strepito in la corte grande
il anteriore sita su la Piazza del Arengo », per trattare e discutere
H modestamente » di cose pertinenti alla città, e in modo partico-
lare « circa la translatione del ducato et del dominio de Milano » (4).
L'assemblea fu difatti tenuta all'ora stabilita e riuscì, com'era facile
(i) Doc. IV. Si trova parzialmente e malamente pubblicato dal Formen-
TiNi, op. cit., doc. XXVI, pp. 182-92 ; questi anzi lo confonde con V istru-
mento del successivo 22 marzo, facendone un tutto solo : il che non è punto
vero. Lo ricorda il Sickel, op. e loc. cit, nota 3, e ne dà l'inizio: « Imbre-
c( matura Damiano de Marliano etc. d. d. ir Martij 1450 » ; fu da luì veduto
nell'Arch. notarile, ne' rogiti del notaio camerale Jacopo de' Perego. Una copia
in pergamena, redatta nel 1758 e collazionata con l'originale, si trova nell'Ar-
chivio di Stato di Milano, Potenie estere ; contiene anche l'atto del 22 marzo.
Altra copia autentica esiste nel cod. 1292, doc. Ili della Trivulziana ; e una terza
nell'Arch. civico storico, sede cit. Dicasteri, in seguito all' istrumento del 5 marzo,
estratta e collazionata ecc. nel 1759 dallo stesso notaio Antonio Verga. Un
estratto dell' istrumento 11 marzo si trova pure nella sede Potenie sovrane del ci-
tato Arch. di Stato (copia cartacea non autentica). Noi riproduciamo la copia
autentica del 1758, e naturalmente solo quella parte non pubblicata dal Formen-
tini. Avvertasi ancora, che il Simonetta non accenna punto né a questo né agli
altri documenti del 26 e 28 febbraio e 3 marzo ; ma si limita solo a osservare
(p. 604), che le cose di Milano non si accordarono tosto facilmente, per cui lo
Sforza dovette rimandare l'ingresso solenne « a più tardi ». Il Cipolla, op. cit.,
pp. 430-51, chiama questa dell'i i marzo 1450 « un'altra solenne finzione! ».
(2) FORMENTINI, op. cit., pp. JO-J2: RUBIERI, Op. cit., VOl. II. pp. 2I7-I9.
(3) I fratelli Antonio e Matteo de Arezio; essi non sono citati nella lettera
ducale del 19 marzo 1450.
(4) Detta grida è pure riportata a parte dal Formentini, op. cit., pp. 69-70 ;
trovasi inserta nel documento dell' 11 marzo 1450.
344 ALESSANDRO COLOMBO - L* INGRESSO, ECC.
a prevedersi, numerosissima. Ad unanimità fu chiamato a presie-
derla il Castiglione; ed egli, spiegati brevemente lo scopo e la
importanza del comizio, mise in votazione sette quesiti da lui stesso
composti, che riassumevano in parte le deliberazioni già prese, in
parte ne presentavano delle nuove (i). Chiese pure un credito di
mille e cinquecento ducati, per far fronte alle spese della incoro-
nazione e per l'acquisto, degli oggetti necessari: carro trionfale
con baldacchino, manto, vessillo, chiavi, ecc. Tutto fu approvato.
E, seduta stante, furono eletti i sette cittadini che dovevano, con-
segnare le ducali insegne (2), i dodici (due per porta) che dovevano
presentare le chiavi (3), e gli altri dodici che dovevano prestar
giuramento (4), stabilendone eziandio la formula. Le ultime dispo-
sizioni per il solenne ingresso furono rimandate ad altra adunanza,
dovendosi nel frattempo udire le ulteriori volontà del duca. E in-
tanto di quello, che era stato deciso e solennemente concesso, fu
subito redatto formale istrumento per mano de' notai Jacopo de' Pe-
rego e Damiano de' Marliani, alla presenza de' pronotarii e testi-
monii voluti e richiesti.
(Continua) Alessandro Colombo.
(i) Detti quesiti sono riassunti dal Formentini, op. e loc. cit., e dal Rubieri,
op. cit, voi. II, pp. 220-21 ; però quest'ultimo sbaglia quando afferma, che il po-
polo milanese stabilì (quesito IV) dover la successione al ducato spettare unica-
mente a' figli maschi e legittimi. Giacché basta leggere con attenzione il nostro
documento (parte edita dal Formentini), non che la formula del giuramento, per
persuadersi come in linea di diritto non fossero escluse anco le femmine,
(2) Sono i seguenti; Oldrado de' Lampugnano, conte Filippo Borromeo,
Pietro Visconti, .Gaspare da Vimercate, Antonio de' Triulzio, Melchiorre de' Mar-
liano, Pietro Pusterla. Le ducali insegne erano : la clamide, il bavero, il berretto,
lo scettro, lo stendardo o vessillo, il sigillo e la spada.
(3) Sono: Francescano di Castel S. Pietro e Cristoforo Pagnano (per porta
Nuova), Guglielmo de' Marliano e Ambrogio Cotta (Orientale), Antonio Porro e
Francesco Surigono (Romana), Biasolo de' Cusano e Leone Beacqua (Vercellina),
Ambrogio Gagnola e Varisino da Landriano (Cumana), Giovanni Stampa e Ar-
rigolo da Arconate (Ticinese).
(4) Eccone i nomi: il dott. Scipione de' Casate e il causidico Antonio de'
Grassi (Nuova), Tommaso Amicono e Giovanni de' Raude (Orientale), Luigi Mo-
neta e Luigi de' Pietrasanta (Romana), Gaspare del Conte e Ambrogio de' Grassi
(Ticinese), Niccolò de' Meravigli e il milite Francesco de' Fossato (Vercellina),
Bartolomeo da Vimercate e Giovanni Stefano de' Casate (Cumana^.
VARIETÀ
Due documenti inediti
riguardanti beni allodiali di laici milanesi
Ei secoli scorsi, quando ancora le preziose pergamene
erano conservate negli archivi dei monasteri, là dove le
tradizioni locali facilmente potevano commentarle, gli eru-
diti prendevano volontieri la strada dei chiostri. Vi tro-
vavano maggior ordine ed abbondanza nelle carte, un'accoglienza
abitualmente più benigna e, non di rado, la collaborazione dei mo-
naci stessi, conoscitori esperti dei ricchi depositi loro affidati. A
partire dalla fine del sec. XVIII, ai frati furono tolti i loro archivi,
quasi senza eccezione, e, poiché parliamo di Milano, si vennero accu-
mulando, come ognun sa, nel nostro Archivio di Stato, costituen-
dovi r imponente doviziosissima raccolta del fondo di religione.
Mancato ormai il prezioso e simpatico nesso fra la sede ed i docu-
menti, permane il vantaggio inestimabile di una certa selezione, in
base a criteri topografici ed anche cronologici. Si è aggiunta la
agevolezza che viene allo studioso dal soccorso illuminato e cor-
tese degli egregi cittadini preposti alla direzione dell'Archivio,
primo fra questi il dotto e lacrimato conte Ippolito Malaguzzi- Valeri,
teste scomparso così crudelmente.
Nasce da tutto ciò la conseguenza che quasi ogni ricercatore
delle nostre più antiche memorie, dal conte Giulini al consigliere
Discaro, abbia ristretto la sua documentazione nel campo un poco
chiuso, sebbene vastissimo, delle carte riguardanti corpi ecclesiastici,
anzi più precisamente, corpi regolari. Sta bene che ai monasteri siano
346 VARIETÀ
pervenuti non pochi documenti di origine laica ; gli effetti dell'ac-
cennato carattere, delle fonti d'archivio più spesso e volentieri com-
pulsate, non è per questo meno visibile. Per citare un solo auto-
revole esempio, ricorderò che il Lattes, studiando il nostro diritto
con metodo così rigoroso e fecondo (i), ebbe spesso ad accorgersi
dei limiti impostigli dalla natura ecclesiastica dei documenti, quando
voleva raffrontare alle raccolte di leggi e consuetudini, saggi della
loro applicazione quotidiana.
Gli archivi delle famiglie più antiche e cospicue, se si possono
con certezza ritenere molto meno ricchi di quelli degli ordini reli-
giosi, sono tuttora lasciati in un canto. Ed è sorprendente come
questa regola, dal Giulini in poi, sia stata scrupolosamente osser-
vata. È sola bella eccezione il compianto don Felice Calvi, che però
ebbe scopi specialmente genealogici e preferì rievocare le epoche
seguenti alla rinascenza.
Ho creduto opportuno di scostarmi in questo punto dall'esem-
pio di maestri venerati, traendo impulso dalla liberalità intelligente
di non pochi proprietari di carte antiche interessanti per la storia
lombarda. La dispersione dolorosa di molti archivi, le loro imprevedi-
bili e strane fortune e peregrinazioni, il continuo sospetto di falsi-
ficazioni del seicento, alle quali la vanità offriva troppo facile esca,
infine il carattere prevalentemente patrimoniale delle classificazioni,
là dove esse esistano, ostacolano ad ogni passo il cammino in simile
impresa. Quale saggio del contributo che si può sperare per la sto-
ria, sovrattutto degli istituti e dei rapporti economici, da uno spo-
glio paziente degli archivi privati, ardisco ora offrire ai lettori di
quest'Archivio il testo di due carte inedite, l'una del sec. XII, l'altra
del XIII, appartenenti entrambe alla famiglia Arese.
Il Giulini nel lib. LIX delle Memorie^ riferendosi all'anno 1301,
lumeggia coll'aiuto di una carta proveniente dall'archivio di Santa
Margherita, la figura di Ricardo da Aresio, giudice della nuova cre-
denza di Sant'Ambrogio, assunto col capitano del popolo e pochi
altri ad una sorta di dittatura per volere e nell'interesse di Matteo
Visconti. Non ostante il carattere popolare della carica di cui ve-
diamo investito questo suo illustre rappresentante, la famiglia Arese
va annoverata fra le feudali. Più volte nelle antiche carte vediamo
anzi scritto de' Capitani da Arese, secondo lo stile delle maggiori
schiatte del contado.
(i) Ved. A. Lattes, Il diritto consuetudinario delle città lombarde, Milano,
?, cap. IX, § 41.
VARIETÀ 347
5arebbe ozioso il voler qui ricordare le glorie e le ricchezze
do?la famiglia che ebbe il massimo lustro dal celebre Presidente del
Senato. È pure noto come gran parte dei beni cospicui degli Arese
sia passata col nome in casa Borromeo, e per il tramite di un ramo
ora estinto dei Visconti, in casa Litta. È verosimile che una sezione
dell' archivio abbia accompagnato così vistosi gruzzoli nelle loro
migrazioni. Ciò si potrà probabilmente un giorno controllare; per
altro non mi è stato fin qui possibile farlo.
Il ramo superstite di casa Arese, che assunse nel sec. XVIII in
seguito ad eredità anche il nome della famiglia Lucini, conservò in
ogni modo ricchi depositi di documenti. Questi furono, credo poco
dopo la rivoluzione francese, ripartiti in numerose divisioni e suddivi-
si oni fra le quali non è difficile orientarsi, grazie alle rubriche di
un indice minuzioso. Tutto l'Archivio è diviso in quattro regioni
ed in più di un centinaio di caselli che sono effettivamente riparti
chiusi da corrispondenti porticine di grandi armadi. La numerazione
dei caselli è proseguita, senza interruzione dall'una e dall'altra re-
gione; quella per cartelle invece è interna ad ogni singolo casello.
Le posizioni contenute nelle cartelle furono pure controdistinte ed
elencate, ma non credo opportuno descrivere i criteri di quest'ul-
tima classificazione, tanto più che riscontrai continue trasposizioni
nella serie dei gruppi di documenti contenuti in ciascuna car-
tella.
Il Sitoni di Scozia esaminò a suo tempo l'Archivio Arese, e
varie annotazioni della sua caratteristica scrittura, che arieggia lo
stampatello, si ritrovano in margine alle carte. Gli fu, fra l'altro,
sottoposto un elenco di documenti fra i più insigni dell'Archivio,
sui quali credo si volesse basare qualche domanda d'ascrizione al
Collegio dei nobili giureconsulti. L'esperto denunciatore delle fal-
sificazioni, insinuatesi perfino fra le carte delle più antiche famiglie
patrizie, additò come sospetti due documenti, l'uno del 1323, l'altro
del 1335. L'aver superato la prova dell'accurata inquisizione sito-
niana è già per sé una garanzia dell' autenticità degli altri docu-
menti fra i quali sono quelli che mi accingo a pubblicare. Un mi-
nuto esame mi convinse in ogni modo che le due carte potevano
essere senza timore considerate genuine; ed a tale conclusione mi
arrestai soprattutto dopo che il compianto conte Malaguzzi Valeri
le ebbe osservate dichiarandole immuni da ogni sospetto di falso.
Sgombrato il terreno da questi timori, resi naturali da dolorose
constatazioni fatte in altri casi e dal trovar traccia di riserve del
Sitoni per carte del medesimo Archivio, possiamo ormai passare
allo studio dei singoli documenti.
348 VARIETÀ
L'otto dicembre 1185 indizione quarta, Monferrado ed Ugo de Aliate^
agenti anche per conto di Pietro de Aliate, tutti quanti cittadini milanesi
e residenti in Milano, danno in afiStto per massaritium a Pietro de Bel-
luno la loro tenuta nel territorio di Casorate.
L'atto fu steso in Milano dal notaio Anselmo Samaruga.
Questa piccola pergamena, piuttosto ben conservata, si trova
neirArchivio Arese, regione III, casello 88, cartella B. La regione
terza abbraccia carte sin qui conservate in Milano nel palazzo degli
Arese in Porta Orientale, ma che saranno presto riunite al resto
dell'Archivio in Osnago di Brianza.
(S. T.) Anno dominice incarnationis millesimo centesimo octuagesimo
quinto, octavo die decembris indictione quarta. Investiverunt per massa-
ritium ad benefatiendum, monferradus et ugo qui dicuntur de aliate, ad
eorum partes, et ad partem petri de aliate, omnes civis mediolani, pe-
trum qui dicitur de bellano, nominative de tota terra eorum de loco seu
de territorio de Casorate, ad fictum omni anno reddendum ad domum
habitationis eorum de mediolano tractum, et consignatum ad mensuram
mediolani, stera viginti biave mediem sicalis et mediem milj, sicalem de-
beant trahere, et consignare in omni sanato petro et milium in omni
sanato michaello, et debeat esse bona biava et bella in estimo honorum
hominum, si discordia inde esset, et prò iamscripto fleto dando ut supra
legitur, iamscriptis petrus guadiam dedit, et omnia bona sua pignori obli-
gavit, iamscriptis monferrado et ugoni, ad eorum partes, et ad partem
iamscripti petri, et restituendi omnes expensas quas fecerint, prò iam-
scripto fleto exigendo uno quoque termine transacto; quia sic intereos
conventum aetum in iamscripta civitate.
(S. M.) Signum manum iamscriptorum monferradi, ugonis atque petri
qui hanc cartam fieri rogaverunt; ut supra.
(S. M.) Signum manum gairardi de arexio, atque amizonis prebel-
lonj testium.
(S. T.) Ego anselmus qui dicor Samaruga notarius tradidi et scripsi.
Mi pare non vi possa esser dubbio nella identificazione della
terra di Casorate noto capo-pieve sui confini del milanese e del pa-
vese. Per i tempi più antichi è costante l'aggiudicazione al territorio
milanese. Il Giulini nella « dichiarazione della carta corografica »
pone Casorate e la sua pieve nel contado della Burgaria, riferen-
dosi, secondo è noto, al sec. XII, al quale appartiene il nostro do-
VARIETÀ 349
cumento. Invece il Riboldi, nel suo recente studio intorno ai contadi
rurali del milanese (i), ritiene non provato il fatto che Casorate abbia
fatto parte della Burgaria.
Più tardi e definitivamente prevalse l'attribuzione al territorio
di Pavia, sì che il Benalio nel suo elenco dei feudi scrive senza
esitazione di Casorate: « in principatu papiae » (2). Il medesimo
Benalio registra T infeudazione « Casorati in campanea suprana »
al vescovo di Pavia per antichissima concessione dell'imperatore
Ottone rimontante al 977. L'esistenza di questi diritti feudali del-
l'episcopato pavese conferma il carattere allodiale dei possessi dai
de Aliate dati in affitto coU'atto a cui si s-riferisce la nostra carta.
I beni dei de Aliate in quel territorio dovevano essere numerosi
ed in loro proprietà da lunga data. I manoscritti Puricelliani del-
l'Ambrosiana hanno conservato il testo d'una specie di donazione
onerosa (cioè connessa con launeghild) il cui originale perì nel-
l'incendio del monastero di Morimondo, secondo narra il Giulini
nel lib. XXXV delle Memorie. Tale contratto riguarda beni posti
in Coronago, luogo della medesima pieve di Casorate, che fu-
rono donati da Bernardo de Aliate, con atto compiuto in Milano
al principio del 1136, a Prevede da Ozeno. Quest'ultimo ridonò
senz' altro le terre ai monaci cistercensi, che lo ricompensarono
questa volta con così vistoso launeghild in moneta sonante da far
subodorare in quella serie di atti nient' altro che una vendita lar-
vata. Ho voluto richiamare questo precedente anche perchè dalla
esistenza di antiche tenute dei de Aliate nei pressi di Casorate in
il campanea suprana », ora Casorate Primo, viene definitivamente
escluso ogni pericolo, già evitato dalla notorietà assolutamente pre-
valente della terra capo-pieve, che il documento del 1185 si rife-
risca a quell'altro Casorate, immemorabile possesso feudale dei Vi-
sconti con tutta la pieve di Somma.
Nella ripartizione delle maggiori famiglie milanesi, secondo i
celebri quattro gruppi che coesistettero quasi altrettante città nella
nostra Milano del XII e XIII secolo, il Fiamma [Cronicon majus)
segnala per i primi i de Aliate, quando viene ad enumerare le fa-
miglie della Motta. L'appartenenza a questa classe cospicua, vero
germe del patriziato cittadino, bene si armonizza colla dimora sta-
bile in Milano che risulta dal nostro documento ed anche da quello
(i) Cfr. quest'Archivio, XXXI, 1904, i, p. 277..
(2) Elmchus familiarum in Mediolani dominio feudis, jurisdìctionihus titulisque
insignium, Colligente I. C. don Josepho Benalio, Mediolani, MDCCXIV, typis
M. A. P. Malatestae.
350 VARIETÀ
di cinquant' anni più antico tramandatoci dal Puricelli. Si osservi
che, come in altri documenti lombardi, il locatore è obbligato a ter-
mine del contratto del 1185 a recare l'importo dell'affitto annuale
del loro fondo ai de Aliate « ad domum habitationis eorum de Me-
u diolano ». Questo potrebbe riferirsi sia alla mancanza di una casa
padronale nella tenuta di Casorate sia anche a negozi in cereali
ai quali sappiamo non esser stati punto estranei altri cittadini della
Motta. Quanto alla collocazione di queste case dei de Aliate, una
semplice induzione si può trarre dal fatto che nel 1266 dodici mem-
bri di questa famiglia prestarono il giuramento di obbedienza alla
Santa Sede come membi» della parrocchia di Santa Maria Beltrade
in Porta Romana. Essi furono: « Domnus Albertus », « Ser Burba »,
Guido, Venturino, Benzius, Antonio, Gallino, Manfredo, Juanus,
Roberto, Pietro e Nicoloso, tutti de Aliate (i). Gli ottantanni che
passarono dal 1185 al 1266 non sono sufficienti per togliere valore
a tale avvicinamento, ove si osservi che, cento e più anni dopo, e
precisamente nel 1388, Stefano de Aliate era eletto nel consiglio
dei novecento come uno dei rappresentanti della medesima parroc-
chia di Santa Maria Beltrade ed un altro de Aliate per quella vi-
cina di San Nazaro in Brolio (2), il che prova la persistenza della
dimora della famiglia in Porta Romana. Nell'anno 1224 Monferrado
de Aliate era uno dei consoli di Milano, molto verosimilmente lo
stesso che interviene nell'atto da noi illustrato; ma nessun cittadino
di tal cognome fu da me mai visto ricordato che recasse il pre-
nome di Ugo. Pietro de Aliate, nel cui nome agiscono gli altri
due suoi parenti, fu verosimilmente quel medesimo ricordato dal
Fiamma come console dei mercanti di Milano nel 11 72. E, poiché le
consuetudini del nostro comune espressamente dichiaravano che i
consoli dei mercanti « nec impediantur, quin possint consulatum
« comunis, vel iustitiae, vel aliud officium civitatis Mediolani ha-
« bere », nulla esclude che al nostro Pietro si riferisca il passo dei
Corio là dove parla del 1196 e scrive: « Consuli de iusticia furono
u Baldizone Stampa: Codeghino Mainerio: Laurentio Corbo: Petro
« de Aliate et Ugo de Casteniago » (3). Ma non saprei se sia pru-
(i) Ved. l'elenco pubblicato dal dott. A. Ratti, A Milano nel 1266, in Memorie
del R, Istituto Lombardo di Scien:^e e lettere, voi. XXI, XII della serie III, 1902, p. 221.
(2) Secondo risulta dal registro delle Provvisioni del nostro Archivio civico,
ora trasportato in Castello.
(3) Bernardini Corii viri dar issimi mediolanensis patria historia, Mediolani,
apud A. Minutianum MDIII.
VARIETÀ 351
dente l'identificazione con Pietro, uno dei quattro fratelli de Aliate
gran fautori di Ottone IV, da lui creati conti palatini ed insigniti
di molti privilegi. E già ragione a dubitarne il vedere accanto al
nome di Pietro differenti nomi di agnati nelle due diverse congiun-
ture, della locazione del 1185 e delle concessioni imperiali del 1209,
che pure presentano entrambe membri della stessa famiglia .rag-
gruppati da comunanza d'interessi. Il Pietro de Aliate poi, che ebbe
una sorta di podesteria nel 1225, è citato dal Corio e dal Giulini
col nome di Pietro Cano e deve quindi ritenersi senz' altro una
persona diversa da quel cittadino nel cui nome stipulavano nel 1185
i di lui agnati Monferrado ed Ugo.
Se la famiglia de Aliate ci appare chiara per possessi ed uffici
affidati a' suoi membri, una vera incognita è, per lo meno per chi
scrive, u il Petrus qui dicitur de Sellano » a cui si dà in affitto da
quei cittadini milanesi, « tota terra eorum de loco seu de territorio
« de Casorate ».
Uno dei due testimoni che compaiono nell'atto è Gairardo de
Arexio. La famiglia milanese che conservò questa carta può valer-
sene a dare notizie sicure de* suoi maggiori per un tempo assai
più antico di quello nel quale si poneva sin qui dagli storici l'ap-
parire di quei capitani nella storia della nostra città. Non sarà inu-
tile il ricordare qui che il primo da Arese citato in quelle Memorie
del Giulini, che sono la consueta miniera onde si estraggono le no-
tizie sulle antiche famiglie milanesi, è Riccardo, già da me ricor-
dato come giudice della Credenza di Sant'Ambrogio all'aprirsi del
quattordicesimo secolo. Il nome dell'altro testimonio si leggerebbe,
nel testo dell'Archivio Arese, Amizone Prebellone. Ma, data la no-
vità di un tale cognome, mi si permetta la congettura che debba
correggersi in quello dei Prealloni, noti dal secolo dodicesimo e
pure membri della Motta,
Anselmo Samaruga fu infine il notaio che stese l'atto di loca-
zione da noi commentato. Non ho mai visto citato il nome di que-
sta famiglia in atti del sec. XII, bensì nel secolo seguente. Da un
istromento,* veduto dal Giulini nell'Archivio della basilica di San
Giovanni in Monza (i), è ricordato un « dominus Tomasus Sama-
« ruga », console di giustizia del comune di Milano nell'anno 1283.
Nell'elenco dei milanesi che giurarono parecchi anni prima (1266)
M stare mandatis summi pontificis et romanae ecclesiae » (2), trovo
(i) Ved. Giulini, Memorie^ aggiunte al lib. LVII.
(2) Ved. la pubblicazione già citata del dott. A. Ratti, p. 213.
i
352 VARIETÀ
due Samaruga abitanti, come i loro clienti de Aliate, in Porta Ro-
mana. Jacopo è anzi egli pure parrocchiano di Santa Maria Bel-
trade, mentre Cristofano lo è di San Calimero.
Se per un lato è interessante ed utile il prender le mosse dal
nostro documento per tentare di ricostruire, nell'oscurità ancor
molto inesplorata del sec. XII, qualche abbozzo biografico, mag-
gior importanza ha poi lo studio degli istituti giuridici e sociali
sui quali s' impernia l'atto rogato da Anselmo Samaruga. Per ob-
bligo di brevità mi contenterò di alcune osservazioni successive.
« Massaritium » secondo il du Gange (i) sarebbe il fondo del Mas-
saro. Anche il Seregni (2) conclude che « massaritium " è identico a
u mansus ». Per altro la frase: « Investiverunt per massaritium » sem-
bra piuttosto alludere al contratto massaritico. Si noti pure l'espres-
sione dell'investitura « ad benefatiendum », che, secondo una norma
costante nelle consuetudini milanesi, ribadisce l'obbhgo per il colono
di curare e migliorare il fondo.
A differenza di molti altri casi i tre consorti de Aliate non
danno in affitto un podere di area determinata, ma bensì « tutta la
u loro terra nel luogo e nel territorio di Casorate ». Infatti man-
cano le consuete indicazioni delle coerenze.
L'affitto in natura deve essere calcolato secondo la misura mi-
lanese. Anche qui il cittadino impone le sue misure ai rustici, ed
invero non è una disposizione superflua. Piccole terre avevano ap-
punto in quello scorcio di secolo loro misure particolari, come Aro-
sio, il cui staio equivaleva ad otto undicesimi di quello di Milano (3).
Casorate era poi sui confini del pavese e del milanese, feudo del
vescovo di Pavia e parte invece dell'archidiocesi di Milano, sì che
taluno la giudicava una terra immune dalla giurisdizione dei due
capoluoghi al pari di Morimondo (4).
Il locatario deve dunque consegnare venti stala all'anno in ce-
reali, giacché la « biava » è qualsiasi specie di grano, e dovevano es-
sere nel caso indicato una metà (« mediem » sta forse per « medieta-
« tem »») in segale ed un'altra metà in miglio. Sarebbe inùtile che m'in-
(i) Caroli du Fresne domini du Gange, Glossarium ad scripiores mediac
et infimae latinitatis, Francoforte a. M., Zunner, 1710, s. y.
(2) G. Seregni, La popola^iom agricola della Lombardia nell'età barbarica^
Milano, Rivara, 1895.
(3) G. Seregni, Del luogo di Arosio e de* suoi statuti nei secoli XII e XIII,
Torino, Paravia, 1902, § 4, p. 17.
(4) Grande illustrazione del Lombardo- Veneto. Milano, 1857, voi. I, Pavia e
sua provincia per L. Gualtieri conte di Brenna.
VARIETÀ • 355
dugiassi a rammentare la grande diffusione di queste culture, surro-
gatrici del vero e proprio grano, nel medio evo (i). Piuttosto devono
osservarsi le date prescritte per la consegna che anticipano alquanto
sulle consuete ; la segale dev'essere consegnata al domicilio del loca-
tore in Milano per San Pietro (29 giugno) invece che per San Lo-
renzo (io agosto) ed il miglio per San Michele (29 settembre) e non
nel solito San Martino (11 novembre) (2).
Il patto • di locazione stabilisce che, in caso di disparere, riguar-
dante la qualità dei grani consegnati, si ricorra ai « boni homines w.
Non credo però che con tal nome si vogliano indicare quelle spe-
ciali magistrature chiamate dei « boni homines »» o dei probiviri, nelle
quali il Rosa (3) addita uno degli istituti primitivi del comune. Piut-
tosto penso ad un ricorso a giudizio di arbitri, affine a queir« ar-
« bitrium boni viri », di cui parlano le consuetudini bergamasche.
Il conduttore delle terre di Casorate « guadiam dedit », secondo
la formola consacrata, ai de Aliate locatori. È tanto più certo che
nel caso pratico, come del resto ormai quasi sempre in Lombardia
nel sec. XII, la guadia era ridotta ad una pura e semplice presta-
zione simbohca, in quanto che, secondo vedremo, si tratta più. in-
nanzi di una obbligazione pignoratizia. Alla guadia, come è noto,
non erano tenuti i nobili. Il vedere che Pietro de Bellano la pre-
sta e che non presenta invece fideiussori conferma l'ipotesi che il
conduttore dei fondi dei de Aliate fosse un semplice rustico, indi-
cante col cognome la provenienza e non una proprietà né tanto
meno un diritto feudale. Il de Bellano doveva però essere agiato
e solvibile, se poteva porre in pegno tutti i suoi beni vincolandosi
al risarcimento delle spese che potessero incombere ai de Aliate
per esigere l'affitto. Il testo parla solo del risarcimento in caso di
mora e non di decadenza del conduttore moroso dalla locazione,
mentre di solito, giusta la consuetudine milanese, questo tratta-
mento spettava ai livellari meglio che ai locatari (4). Però basta a
(i) Il Darmstadter, Das Reichsgut in der Lomhardei und Piemonte Strassburg,
Trùbner, 1896, p. 309, giunge dallo studio di 52 corti a stabilire per un tempo poco
discosto da quello di cui parliamo la seguente propozione nelle colture : la segale
rappresentava il 40 per cento ; il frumento il 22 per cento ; il miglio il 14 ^'/g.
(2) Si confronti con G. Seregni, La popola:(tone agricola della Lombardia
nell'età barbarica già citata. S. Michele era già nel 1103 per i Casoratesi data
del pagamento del canone al vescovo di Pavia (cfr. Robolini, Notizie apparte-
nenti alla storia della sua patria^ voi. Ili, § 14).
(3) G. Rosa, Feudi e Comuni, Brescia, 1876, p. 215. , ( v
(4) A. Lattes, op. cit., cap. IX, § 41.
354 VARIETÀ
termine del contratto del 1185 il lasciar passare un solo termine
per trovarsi in mora, laddove tale conseguenza non si avvera gene-
ralmente a danno del locatario se non dopo un tempo più lungo.
L*atto si chiude colle sottoscrizioni dei tre de Aliate, anche del
Pietro non comparso nella conclusione del patto, ciò che prova an-
cor una volta come non si richiedesse che il « signum manus » fosse
autografo. Del resto tali « signa » sono costituiti, nella carta dell'Ar-
chivio Arese come in tante altre, da quelle croci aggraticciate che
tradiscono senz'altro la mano del redattore. L'assenza della sotto-
scrizione di Pietro de Bellano, dal quale non partì la rogazione,
è perfettamente conforme alla norma posta in sodo dal Paoli (i)
per questo tempo e per le carte lombarde.
IL
Il 3 settembre 1261 nell'indizione quinta, in giorno di sabato, Rog-
gero Streparave, " Servitor comunitatis Mediolani „, per mandato conso-
lare, investì del possesso di beni in Castano Alberto Cane.
L'atto fu rogato in Castano da un notaio locale.
Fonte: Pergam. dell' Arch. Arese, regione III, casello LXXXVIII,
cartella B. La carta è in più punti deteriorata e di difficile lettura,
(S. T.) anno dominice Incarnationis millesimo ducentesimo sexa-
gesimo primo, indictione quinta, die sabati tertio, die septembris Ruge-
rius streparave servitor comunitatis mediollani ^stcj ex mandato domini
gaidardi de airexio (?), consulis mediolani, ut prescriptum ostendebat
dedit corporallem {sic) possessionem et tenutam alberto cani de loco
noxate omnium honorum martini falcis filli quondam anselmi, falcis de
loco castano. Et spetialiter de sedimine uno iacente in loco castani cum
omnibus eius hedifitiis, cui est a mane guiilelmi ferarii, a meridie he-
redum quondam Jacobi gate a meridie (?) infrascriptorum heredum et
in parte heredum, quondam anselmi zare a sero heredum illius quon-
dam anselmi a monte via, secundum quod continetur in carta..., posses-
sionis sibi cesse per ipsum consulem, et firmatam per petrum mala-
strenam et albertum mironum sindicos et consules, et traditam per
mapheum pichetum notarium, et scriptam per oliverium de figania,
notarium. Ita quod ulterius dictus albertus possessor sit et omnium
honorum infrascripti martini, et spetialiter infrascripti sedimìni de ... .
actum in ipso sedimine.
(i) C. Paoli, Programma scolastico di paleografia latina e di diplomatica^
Firenze, 1898, voi. III, disp. I, p. 130.
VARIETÀ 355
Interfuerunt testes zanebellus filius quondam ottobonis parate, et
mutius filius quondam obizonis de anrixio et martinus filius quondam
alberti pici, omnes de loco castano. Ego guidotus filius quondam otto-
belli de Jan .... (?) notarius de loco castano, tradidi et scripsi.
I beni che da Martino Falcio del fu Anselmo passarono ad
Alberto Cane e dei quali il console concesse il possesso al detto
Alberto, a tenore della carta ora presa in esame, erano situati nel
paese di Castano. Il Giulini (i) ed il Bombognini (2) ci additano
Castano infeudato nel XII secolo al conte di Biandrate ed al prin-
cipio del XIV air arcivescovo di Milano. Ma non trovo ricordato
chi fosse il signore feudale della terra nel 1261, anno in cui fu
redatto il nostro documento. In ogni modo non vi è traccia in
quest' ultimo di riferimento a diritti di tale natura.
Poiché i fatti dei quali la nostra carta è l'eco si svolgono so-
pratutto a Castano e di quella terra sono molte delle persone citate,
non mi è stato purtroppo possibile di rintracciare veruna notizia
riguardante parecchi di quei castanesi. Non pochi cittadini di Mi-
lano compajono però nel documento, a cominciare da quel console
Gaidardo il cui cognome mi pare si possa leggere de Airexio, te-
nuto anche conto della sede della pergamena, senza permettere
nondimeno un'assoluta certezza nella lettura. Alberto Cane, l'inve-
stito del possesso dal decreto consolare, è detto di Nosate, Jterra
della Pieve di Dairago, non lungi da Castano.
Ma la famiglia dei Cani era, a quei tempi, fra le più chiare
di Milano. Il Giulini, sulle traccie delle carte Sormani, parla di un
Adamo Cane diacono della nostra Metropolitana morto nel 1080(3).
Dei Cani era prima del 1133 il feudo di Arosio venduto in tale
anno da Pietro Cane al Monastero Maggiore di Milano (4). La casa
dei Cane in Milano stava in Porta Comasina ed ebbe una melan-
conica celebrità quando nel 1160 vi si appiccò un terribile incendio
che devastò gran parte della città (5).
Nel 1266 Guifredotus Canis abitava in Parrocchia di San Ste-
fano ad nuxiam in Porta Nuova (6). Un documento del 1280 è
(i) Memorie spettanti^ ecc., libri XLIV e LX.
(2) A Francesco Maria Bombognini rimonta, secondo Dozio, Noti:(ie di Vi-
mercate e sua pieve, p.' 130^ la paternità del libro Antiquario della diocesi di Mi-
lano (Veladini, 1790).
(3) Giulini, op. cit., lìb. XXVI.
(4) G. Seregni, Del luogo di Arosio^ tcc.^ §1.
(5) GiuLTNi, op. cit., lib. XLI.
(6) A. Ratti, op. cit, p. 220.
35^ VARIETÀ
rogato per cura di due notai, membri entrambi della cospicua fa-
miglia, alla quale apparteneva l'Alberto che aveva dei beni in Ca-
stano ed in Nosate. L' uno di questi notai è detto regio ed è
Guidotus, r altro, sottoscritto come secondo nel documento, Reso-
natus (i). 11 nome dei Cani figura infine nella celebre matricola degli
ordinari.
Quanto a quel Ruggero Streparava che è detto nella nostra
carta funzionario comunale, « servitor comunitatis », il suo cognome
è probabilmente lo stesso di quello del « Marchixius Screparave
« filius quondam Alberti Portae Ticinensis »,che è testimonio alla
conclusione di una lega fra il comune di Milano e quello di Vige-
vano nel 1277, secondo narra il Colombo (2). Questi servitori del
comune, giusta V antica consuetudine, erano sovente membri d' il-
lustri famiglie, come ben rileva il Giulini nel lib. XXXVI delle
Memorie.
Uno dei vicini di Alberto Cane nel suo nuovo possesso di
Castano era Guglielmo Ferrano. Questi potrebbe essere benissimo,
come il Cane, proprietario in Castano e milanese. Senza parlare
dei parecchi chiari cittadini di tal nome che in quei tempi sono
ricordati in atti monzesi e che sembrano aver piuttosto appartenuto
a quella cittadinanza che alla nostra (3), troviamo un Petrus Fe-
rarius che nel 1262 il primo di maggio, neppur un anno dalla data
-del nostro documento, aderiva allo statuto della Braida di Monte
Volpe neir antico nostro suburbio (4). E nell'elenco più volte ci-
tato, pubblicato dal Ratti, vedo sottoscritti otto cittadini di tal
cognome abitanti tutti in Porta Romana, Boninus, Mutius e Pe-
trazollus Ferrarius della Parrocchia di S. Maria Beltrade, Johannes
e Guiscardus di San Calimero, Fatius di San Giovanni in Conca,
Gasparinus e Petrus di San Vittore in Porta Romana.
11 titolo del possesso al quale accenna il documento rogato in
Castano sembra essere stato costituito da un atto di consoli mila-
nesi. Si fanno i nomi, accanto al sopra citato Gaidardo, di Pietro
Malastrena e di Alberto Mirone, « sindici et consules ". Or sono
(i) L. Osio, Documenti diplomatici, voi. I, n. XXIV, Milano, Bernardoni,
1864.
(2) A. Colombo, Di una alleanza tra Milano e Vigevano nel 12^]^, in questo
Archivio, XXVIII, 1901, 11, p. 380.
(3) V. A. F. Frisi, Memorie storiche di Mon^a e sua corte, to. II, numeri
LXXXI-CLVI-CLXXVIII del cod. diplomatico monzese.
(4) V. G. Discaro, La compagnia della Braida, ecc., in quest' Archivio,
XXIX, 1902, T, p. 26 sgg.
VA^^ET^ 357
queste due note famiglie milanesi. Faxollus Mironus fu ambascia-
tore di Milano a Como nel 1259 (i). I Malastrena poi furono una
vetusta famiglia di valvassori, secondo V esplicita affermazione di
un documento deU' archivio della Cattedrale di Bergamo che ri-
guarda il 1130. Un Malastrena era in tale anno console di Milano,
ma già nel 11 17 lo era stato Ariprando Malastrena (2). Ed il nome
di quei valvassori ricorre molto spesso nelle antiche carte, sovra-
tutto in quelle della prima metà del sec. XII, si che questo docu-
mento del XIII secolo è un'interessante testimonianza del fiorire
della nobile famiglia in un'epoca alquanto più tarda.
L'atto rogato in Castano da Guidotto notaio riguarda la giuri-
sdizione dei consoli della repubblica. Non è ben noto quali fossero
nella seconda metà del sec. XIII i limiti della competenza rispet-
tiva del podestà, dei consoli della repubblica e di quelli di giu-
stizia. Dal documento preso in esame risulterebbe che procedimenti
esecutivi, quali sembrano l'immissione in possesso per ministero
<ii una sorta di usciere (il servitore del comune) in base a pre-
scriptum consolare ed il titolo del possesso, « carta cessa per ipsum
« consulem w, spettavano tuttora per le cause civili al console
della repubblica. Invero una serie di provvedimenti successivi presi
tutti dall' autorità consolare, a richiesta dell'Alberto Cane, appare
l'antecedente giuridico dell'eifettivo passaggio dei beni del Martino
Falcio, verosimilmente convenuto in una causa civile, nelle mani
dell'attore. E sono nel nostro caso: la « carta possessionis •>•) data da
consoli con intervento di notai; il « prescriptum » del console ed in-
fine r immissione nel possesso materiale operata dal « servitor co-
u munitatis mediolani n per mandato del console. Si vede bene che
anche nel territorio di Castano il potere giudiziario dei consol
milanesi si svolgeva liberamente sino alle ultime sue conseguenze
Nel nostro atto, sebbene datato da Castano e non ostante il domi
cilio laggiù radicato del convenuto, i magistrati locali non com
paiono. Forse ricorre il caso di quei consoli rurali che potevano
giudicare fino alla somma di venti soldi (3); giacché con ogni ve-
rosimiglianza il valore dei beni trasmessi ad Alberto Cane doveva
essere rilevante. L' atto accenna in modo speciale ad una parte
della tenuta, a quell'area « sedimen » di cui sono indicate le coerenze
€ ricordati gli hedifitii. Forse era il nucleo principale dei beni già
(i) I. Ghiron, La creden^^a dì S. Ambrogio, in quesVArchivio, IV, p. ili.
(2) GiuLiNi, op. cit., lìb. XXXI.
(3) Ibid., op. cit., lib. XLIX.
Arch. Stor. Lomb., Anno XXXII, Fase VI, 23
358 VARIETÀ
di Martino Falcio; forse era l'oggetto di una contestazione parti-
colare.
È questo un punto che rimane non definito con certezza, come
pure parecchi uomini di Castano intervenuti nella definizione della
contesa sono, almeno per me, degli ignoti. Nondimeno il docu-
mento rogato dal notaio Guidotto, appunto uno di codesti scono-
sciuti, getta luce sulle forme e sui limiti della giurisdizione con-
solare.
Giuseppe Gallavresi.
VARIETÀ 359
Le ville del Petrarca nel Milanese.
•
'occasione di queste note mi fu data dal lavoro del si-
gnor Ambrogio Annoni // Petrarca in villa, comparso
nella raccolta F. Petrarca e la Lombardia, edita per cura
della benemerita nostra Società Storica. In quel prege-
vole studio l'Annoni, confortando con indizi nuovi i vecchi argo-
menti del Bellani, rivendica pienamente a Garegnano Milanese
(presso la celebre Certosa) l'onore che ingiustamente gli vorrebbe
rapire la cascina Interno (fuori di porta Magenta) d'avere ospitato
nei mesi estivi il Petrarca, quand'era a Milano. Tuttavia mi sembra
che alcune conclusioni dell'egregio autore debbano essere rettificate
e alcune altre osservazioni aggiunte, se vogliamo formarci un più
adequato e giusto concetto della villeggiatura petrarchesca nel Mi-
lanese: rettificazioni e osservazioni che spero incontreranno il fa-
vore degli studiosi di tale interessante argomento.
I.
Un pregiudizio assai diffuso e che molto facilmente, quasi
senza che lo si avverta, finisce per annidarsi nella mente di chi
studia il Petrarca in villa nel Milanese, è che il Petrarca vi pos-
sedesse una fissa e sua propria villeggiatura; quindi è che finora
vediamo gli studiosi limitarsi nelle ricerche loro ad una sola e
determinata località: per gli uni il Petrarca in villa è alla cascina
Interno, per gli altri il Petrarca in villa è a Garegnano. Ma niente
di più pernicioso d'un t^le pregiudizio; onde sarebbe stato oppor-
tuno assai che l'Annoni avesse premesso al suo studio l'avvertenza
che il Petrarca non possedette mai né una casa in Milano né una
villa nel Milanese, bensì soltanto come temporaneo ospite abitò.
Se infatti sua deve dirsi la casa di Valchiusa e di Parma, suoi i
beni di Padova e di Arquà, delle quali proprietà appunto fa men-
zione il Poeta e liberamente dispone nel suo testamento del 1370 (i);
nulla di tutto ciò abbiamo durante il quasi decennale suo soggiorno
a Milano. Qui non investiture di benefici canonicali o prebende;
(i) Testamentum, in Epist. d$ reb. familiar., ediz. Fracassetti, to. Ili, p. 5 37 sg^.
360 VARIETÀ
qui non donazioni di signori; non compere personali di case o
poderi. A Milano il Petrarca non fu che l'ospite dei Visconti e,
non che pensare a procacciarvisi stabile dimora, egli sempre vi si
considerò come di passaggio e giudicò provvisorio il suo abitare
fra noi (i); quindi è che nel 1353 Giovanni Visconti, al suo rifiuto
di alloggiare in corte, gli procura ospitalità presso i monaci di
Sant'Ambrogio in una casetta adiacente al convento (2); e nel 1359,
divenutagli incomoda quell'abitazione, il Petrarca prende ospita-
lità nel convento dei benedettini di San Simpliciano fuor dalle
mura, donde per breve tempo sul finire del 1360 ritorna a San-
t'Ambrogio, per quindi ridursi, negli ultimi mesi di suo soggiorno
in Milano, in un' ignota casetta più vicina al centro della città. Né
più che ospite altrui soggiornò in quel tempo il Petrarca nella
campagna milanese. Nel 1353 egli passò parte dell'ottobre nel ca-
stello visconteo di San Colombano: nel novembre di quello stesso
anno lo troviamo in quello di Monza (3). In seguito però, per al-
quanti autunni, le sempre crescenti brighe che provenivangli dalla
corte, lo tennero occupato (così almeno ci è dato di rilevare dalle
sue lettere) (4) o in città, o fuori aJGfatto del Milanese in viaggi
d'ambasceria; finche nell'agosto del 1357, infiacchitagli da ostinate
febbri la cagionevole salute (5), desideroso di ridarsi alla quiete
dei suoi studi nella campestre solitudine, si ritirò presso i monaci
della certosa di Garegnano, dove, non credendo conveniente di
soggiornare nel convento stesso, abitò un casino adiacente a quella
celebre badia. E qui passò dilettevolmente anche il settembre di
quell'anno 1357 (6).
Questa villa di Garegnano, certo non sua, non può neppure
dirsi la villa petrarchesca « per eccellenza »i. Non v'ha dubbio che
a crearle tanta rinomanza valse assai la particolareggiata e poetica
descrizione che il Petrarca ci ha lasciato, a preferenza di altri
luoghi da lui visitati ed abitati, dei quali neppure il nome ci volle
(i) Ciò risulta da numerosi passi dell'epistolario, p. es., Famil, XVI, 11;
XIX, 16; Varie, 25, 35 ; Senili, 1, 2, ecc.
(2) La prossimità della casetta alla basilica ; l' intervenir in coro per la re-
cita delle ore canoniche ; l'abitare talvolta camere dello stesso convento (cfr. Fa-
mil, XVI, 12 ; XIX, 6) ce ne persuadono.
(3) Famil, XVII, 5 e XVII, i.
(4) Cfr. Famil, XVII, 10 ; XIX, i ; 12 e 14 j Varie, 6 ; Senili, III, i e
XVII, 2.
(5) Varie, 22.
(6) Famil, XVI, 12 e XIX, 6.
VARIETÀ 361
ricordare nelle sue lettere; come anche non piccola parte vi ebbe
la tradizione umanistica del « Linterno » petrarchesco, tradizione
che oggi incontra fieri e valenti oppositori, tra cui lo stesso An-
noni. Ma, se noi consultiamo V abbondante suo epistolario (quasi
unica fonte per questo periodo di vita milanese del Petrarca), do-
vremo convenire che anche questa località di Garegnano non fu
per lui che di ben temporanea e provvisoria dimora, non avendosi
più altra testimonianza, che ci provi d'avervi egli soggiornato più
o meno a lungo oltre l'agosto e il settembre del 1357, se pur non
voghamo identificare con Garegnano quell' « in mediolanensi rure »,
dove dieci anni appresso, nel 1367, riceveva reduce di Francia
l'amico Stefano Colonna, prevosto di Saint-Omer (i). Invece le let-
tere del Petrarca accennano ad altri luoghi dove egli usò villeg-
giare dopo il 1357: così che, più che non la ricerca della imma-
ginaria « villa del Petrarca », interessa conoscere le villereccie
località, in cui egli recossi nelle estive ed autunnali stagioni da lui
trascorse sul Milanese.
Ed ecco appunto una di queste località non lungi dalle sponde
dell'Adda. Verso la fine del suo lavoro l'Annoni, avvertendo di
toccare una questione sfuggita alle indagini dei più, esamina il
passo d' una lettera a Neri Morando, che dice ; « ruri habito haud
« procul Abduae amnis ripa » (2); e comincia dal notare che questa
lettera petrarchesca « per ragioni di analogie e di raffronti si rife-
« risce all'autunno del 1358, stagione dal Petrarca passata, come è
« noto, nella sua villa presso Milano ». Ora osservo che è tutt'al-
tro che noto aver passato l' autunno del 1358 il Petrarca nella
campagna presso Milano. Da che lo desume l'Annoni? Non certa-
mente dalle lettere del Petrarca, delle quali poche sono quelle che
con sicurezza si possono assegnare all'anno 1358 e tutte poi recano
l'indicazione « Mediolani », e nessun indizio d'essere state scritte
in villa: né, ch'io mi sappia, altro documento sta a suff"ragare sif-
fatta ipotesi. Inesatto è anche il dire u nella sua villa », quasi che
una villa possedesse il Petrarca, vi fosse una villa che per ec-
cellenza si potesse chiamare petrarchesca. Ma più grave inesattezza
è l'avere attribuito al 1358 (come erroneamente asserisce anche il
Fracassetti nella sua Cronologia comparata) la lettera al Morando.
Ragioni appunto di analogie e di raffronti ci obbligano invece ad
assegnare a questa lettera l'anno 1359.
(i) Senili, IX, 2.
(2) Famil, XXI, io.
362 VARIETÀ
Già la stessa sua collocazione nei codici tra un gruppo di
numerose lettere che evidentemente appartengono al 1359 doveva
rendere sospetta assai la data 1358. Così la lettera che imme-
diatamente la precede, affermando che « iam mihi septimus sin e
« te in hac regia urbe annus agitur », essendo il Petrarca ve-
nuto da Avignone a Milano nel 1353 , mostra di essere stata
scritta nel 1359 : tra quelle che seguono, la XIV reca il mede-
simo riferimento cronologico, « ubi mihi iam, septimus annus
« agebatur ». Ma più diretto argomento possiamo ricavare in pro-
posito dal contenuto stesso della lettera in questione. Infatti in
essa il Petrarca informa 1' amico Morando che un grosso volume
d' opere ciceroniane cadendogli ripetutamente addosso avevagli
gravemente offesa la gamba sinistra (i): ora questa medesima av-
ventura è da lui ricordata in altra lettera scritta al Boccaccio
nel 1360 (2), ed egli gliene parla come di cosa successagli l'anno
antecedente: « parum deerat anni circulo, » etc. Bisogna quindi
conchiudere che la lettera al Morando sia stata scritta nel 1359
e che perciò ai 15 di ottobre di quell'anno « idibus octobris nocte
« media », egli si trovava a villeggiare « haud procul Abduae
u amnis ripa ».
Ma qui TAnnoni, troppo preoccupato della località di Gare-
gnano, s'allontana ancora più dal vero. Confrontando egli infatti
questo passo, come ci è dato comunemente dalle stampe e quale
invece trovasi trascrìtto nei codici più autorevoli , ne deduce
essere affatto arbitraria ed infondata quella vulgata lezione di
« Abduae », sostituita a quella di « ardue » dei codici: ma siccome
letto così il passo diventa inintelligibile, così egli finisce per 'ri-
pudiare anche la lezione dei codici per tener buona la lezione che
unica ci porge l'edizione lionese del 1601, nella quale « ardue »,
diventato aggettivo, concorda non con « amnis » ma con « ripa » ;
e legge: « ruri habito haud procul ab ardua amnis ripa ». Quindi
alterando il naturale significato di « amnis » fino ad applicarlo^
non che all' Olona, ad uno qualunque dei numerosi canali o fos-
sati che nella campagna di Garegnano solcano in mille guisa e tra
(i) Da questa lettera appunto apprendiamo essere la gamba sinistra quella
che già altra volta (certamente nel 1344) gli era stata offesa.
(2) Varie, 25. Che questa lettera sia del 1360 è provato: i.° dall'accenno
alla visita del Boccaccio a Milano a anno altero », cioè del 1359; 2° dal dirsi
passati trent'anni dalla gita a Lombez con Giacomo Colonna, che fu del 1330
(cfr. Fami!., l, 5) ; 5.° dal riferimento alla morte del Colonna come avvenuta
19 anni prima, e fu nel 1341 (cfr. FatniL, IV, 12).
VARIETÀ 363
alte rive il terreno, spiega il « ruri » (dove il Petrarca scriveva
al Morando di abitare) per la villa di Garegnano. Certamente
se l'Annoni avesse avuto in tempo notizia della constatazione del
dott. Sabbadini (comparsa invece assai più tardi nel Giornale
storico della leti, ital.,.wo\. XLV, p. 168) dell'uso di Ardua invece di
Abdua in una delle postille autografe del celebre Virgilius Pe-
trarcae dell'Ambrosiana, egli avrebbe risparmiato tante fatiche nel-
r interpretazione di quel passo della lettera al Morando, e si sa-
rebbe persuaso essere più che legittima la vulgata lezione ripudiata
e perciò trattarsi veramente d'una località presso l'Adda; tanto più
che questa medesima locuzione « haud procul Abduae amnis ripa »
con leggiera variazione ricorre in altra lettera scritta di quei giorni
medesimi al Boccaccio e per la quale, con opportuni raffronti,
resta affatto esclusa la località di Garegnano. Scriveva infatti al Boc-
caccio (i): « Novissime.... circa kalendas octobris.... Abduae amnis
« ad ripam veni. His enim locis hoc tempore solitudo mea est ».
Ma determiniamo anzi tutto 1' anno di questa lettera. Il Boc-
caccio aveva visitato il Petrarca a Milano sul principio del 1359
e il Petrarca ricorda nella lettera la partenza di lui come affatto
recente: « statim te digresso (incomincia appunto la lettera) etsi
« abitu tuo angerer, » etc; e poiché egli narra che impedito dai
casi di guerra che affliggevano i dintorni di Milano, dovette sospen-
dere la sua villeggiatura dal luglio alla fine di settembre, e che
ora da otto giorni trovasi in villa ed è « Abduae amnis ad ripam » ;
così diremo scritta la lettera nel 1359 e perciò scritta di quei giorni
stessi in cui scriveva al Morando la lettera più sopra esaminata.
Ora si osservi come il Petrarca faccia notare all' amico Boccaccio
la « novità » del suo villereccio soggiorno: « his enim locis hoc
« tempore solitudo mea est » ; indicazione che non avrebbe alcuna
ragione di essere se ancora si trattasse della località di Garegnano,
sua pretesa ordinaria villeggiatura e della quale più che informato
già sarebbe stato il Boccaccio nei lunghi ed affettuosi colloqui avuti
col Petrarca durante la sua permanenza nella casa di lui a Milano.
Dalle rive dell'Adda dunque, dove da otto giorni trovavasi (« hic
« vero iam mihi dies octavus agitur »), scriveva ai primi di ottobre
di quel 1359 al Boccaccio; e ai 15 di quello stesso mese (« idibus
« octobris nocte media >») al Morando, al quale inviava ben tosto
una seconda lettera « scripta rurali calamo idibus octobris ante
« lucem » (ossia poche ore dopo quella prima lettera), sulla quale
(i) Famil, XXII, 2.
364 V-ÀlliÈfÀ
mi piace di fermare Tattenziotie del lettore. Quésta seconda lettera
al Morando non è che una continuazióne della precedente: « lam
« satis (incomincia infatti) rerum mearum minutias legisti: satis
u Ciceroniani vulneris processit historia » (i): ora in essa ap-
punto possiamo trovare i più iiidiscutibili argomenti della loca-
lità abitata dal Petrarca sulle rive dell'Adda nell'autunno del 1359.
Scrive il Petrarca che dalla sua villa ha continuamente sott'occhio
là veduta di Bergamo (« est hic semper in oculis Pergamum Italiae
a alpina urbs »), e narra uria gita fattavi agli 11 di ottobre per
accontentare uri suo entusiàstico ammiratore, Enrico Capra: e ri-
corda appunto la prossimità della sua villa, il breve e facile per-
corso (e sì eh' era recente dalla ferita alla gamba) sì da non ac-
corgersi quasi del cammino: « hoc éius desiderium non absque
« difficultate aliquot iam per annos tràxeram. Nunc tandem et vici-
u nitate loci. .. veni ergo Pergamum. .. planutn iter et breve non
« sentientes egimus.... Die proximo.... abii et sub noctem ipse rus
« redii ». Qualunque brutta sorpresa ancor ci possano apparec-
chiare le quasi sempre scorrette lezioni dei codici, questa di certo
oramai non ci potranno fare d' inchiudere nel panorama di Gare-
gnano Milanese (per quanto « àmoenissimum diversorium » e « in
M planitie elevatum » lo dica il Petrarca) anche la veduta della città
di Bergamo, né di tarito raccorciarne la strada che vi conduce.
Dalla fine dunque del settembre alla metà di ottobre del 1359
il Petrarca era in villeggiatura sulle rive dell'Adda.
Io non so se in qualche più riposto documento d'archivio,
sinora sfuggito alle nostre ricerche, conservi ancora Bergamo me-
moria della preziosa visita fattale dal Poeta e delle solenni acco-
glienze che il Petrarca non dimenticò di ricordare in quella sua
lettera. Questo soltanto io so che ogni ricerca da me fatta per
stabilire la precisa località abitata da lui in quell' autunno riuscì
vana: tutto sta a vedere di chi allora fu ospite il Petrarca. Se
dell'arcivescovo di Milano, vanterebbero allora diritto i luoghi del-
l' una e 1' altra riva dell'Adda da Brivió a Cavenago e la villa d i
Groppello, che èrano sotto l'immediata di lui giurisdizione. Se
ospite dei Visconti, potrebbe essere alcuno dei loro castelli, come
Trezzo, Cassano o Vaprio: se del moriaàtero di Sant'Ambrogio
del quale il Petrarca era ospite in città, sappiamo che Inzago ad
esso apparteneva: a Tré viglio aveva bérti e case quel ìrionastero
benedettino di San Siriipliciano fuor delle mura, riel quale appunto
un mese appresso trasferiva il Petrarca da Sant'Ambrogio il suo
(i) Pamil, XXI, II.
VARIETÀ 365
domicilio. Dimorare presso case di religiosi fu sempre preferenza
del Petrarca: presso i cisterciensi di Sant'Ambrogio, presso i be-
nedettini di San Simpliciano, presso i certosini di Garegnano, presso
i vallombrosiani di Arquà. Ma, come si vede, si è nel campo delle
congetture, dove, almeno per ora, è impossibile formulare con cer-
tezza un'opinione: il che però non toglie che oramai più non si
possa dubitare avere il Petrarca villeggiato in qualche località
presso le rive dell'Adda, durante il tempo di suo soggiorno nel
Milanese.
II.
Un altro passo interessante assai per la questione della vil-
leggiatura del Petrarca nel Milanese è quello che ci è dato da una
lettera di lui al Moggio, scritta da Pavia (i). Su di questo passo
ha insistito anche l'Annoni, ma solo per farsene argomento contro
la volgare tradizione del « Linterno » petrarchesco e senza tentare
alcuna locale identificazione, a meno che non si voglia credere
che egli identificasse ancora il luogo villereccio indicato dal Pe-
trarca col rivendicato Garegnano. Ecco le parole della lettera, quali
l'Annoni fece riscontrare direttamente sull'autografo della Lauren-
ziana : « Aliquot dies si dabitur tranquillos rure acturus cuius ety-
« mologiam tibi committo. ,Ego quidem.... fernum dicere solco,
u paratus tamen in hoc te ut in multis sequi. Utinam vero tibi
« possem ostendere Helicona alterum quem tibi et Musis Euganeo
" in colle congessi ». E questo il passo famoso, dove il Fracassetti
lesse la parola « Linternum », ma dove, secondo l'Annoni, altro
non può leggersi che un frammentario « fernum », che molto pro-
babilmente, compiendo le lettere corrose da una sciagurata piega-
tura del foglio, è a leggersi « Infernum », « denominazione più
u modesta ma vera e non meno suggestiva, poiché a noi sfugge
«la particolare ragione che indusse il Poeta a chiamarla così».
Qual'era la località a cui il Petrarca alludeva con quel « rure
« acturus » e dove invitava l'amico Moggio?
Vediamo però prima di stabilire l'anno, in cui fu scritta la lettera
al Moggio con la data « Papiae 20 junii ad vesperam -raptim : » e mi
sembra, col Fracassetti, di poter ritenere come tale l'anno 1360. In-
fatti quel u 20 giugno » non può essere del 1362 o di anno posteriore
(i) Varie, 46. Devo al signor Annoni se qui posso correggere una errata
interpretazione del a Linterno » da me fatta nel mio recente opuscolo: // sog-
giorno di F. P. in Milano, Monza, Artigianelli, 1904.
366 VARIETÀ
perchè tra il giugno e l'ottobre di quell'anno 1362 morì quell'Azze
signore di Correggio che nella lettera è nominato come vivo. Nep-
pure si può pensare al giugno del 1361, quando la peste altamente
infieriva nel Milanese e perciò era resa impossibile affatto ogni
speranza di lieta e tranquilla villeggiatura con l'amico: inoltre di
quei giorni il Petrarca aveva forse già abbandonata per sempre la
sua dimora di Milano. D'altra parte Azzo di Correggio inimicatosi
coi Visconti nel 1354 non si riconciliò con loro (per mezzo special-
mente del Petrarca) che dopo il 1358, e nella lettera si annuncia
una prossima di lui visita alla corte viscontea. Pavia poi, donde è
scritta la lettera, ribellatasi ai Visconti nel 1356, non ritornò in loro
soggezione che nel novembre del 1359. Non resta pertanto che da
assegnare a quel « 20 junii » l'anno 1360. Ora nell'autunno di questo
anno 1360 noi non possiamo sapere dove avesse villeggiato il
Poeta, se pure con tale anno non cominciarono le sue visite al
castello di Pavia, dove poi periodicamente fino al 1369 venne a
passare gran parte delle estive stagioni presso Galeazzo, anche
dopo che nel i-^ói lasciò per sempre Milano. Né le lettere che di
lui abbiamo, le quali con certezza si possono assegnare al 1360 (i),
gettano luce in proposito: da Milano scriveva il 25 giugno al car-
dinale Talleyrand (« Mediolani, VII kal. julii ») e il 9 agosto al
vescovo di Cavaillon (« Mediolani V idus augusti w); il 17 di agosto
pur da Milano (« Mediolani XVI kalendas septembris »), quantun-
que la lettera rechi nel corpo l' indicazione « in extremo civitatis
u olim nunc iuxta civitatem habito «, ossia al monastero di S. Sim-
pliciano « extra muros » ; il 18 di agosto al Boccaccio (« Medio-
« lani XV kal. septembris w). Più incerta è il' indicazione della
lettera ad -Omero del 9 ottobre « apud superos: medio amnium
« clarissimorum Padi, Ticini, Abduae aliorumque unde quidam Me-
« diolanum dici volunt VII idus octobris anno aetatis ultimae mil-
« lesimo trecentesimo sexagesimo ». Da Milano (« Mediolani VII
« kalendas novembris »») scriveva pure il 26 ottobre al medico
Albertino da Canobio, al quale esprimeva il dolore per il furto
fattogli dai servi che a mala pena rispettarongli la persona, e le
tristi condizioni del Milanese minacciato da ogni parte dalla peste.
Per tutto ciò, * siccome anche la progettata visita dell'amico Moggio
non ebbe poi luogo, non sarei lontano dal credere che il Petrarca
non si fosse in quell'anno allontanato da Milano se non per recarsi
sulla fine del dice mbre a Parigi, legazione dalla quale fu di ritorno
(1; Famil., XXII, 5, 6 e 12; :XXIV, 12; Varie, 25, 26.
VARIETÀ 367
nel febbraio del 1361. Checché però ne sia di ciò, resta pur sempre
a ricercare a quale campestre ritiro avesse nel giugno invitato il
Moggio e perchè lo si chiamasse « Infernum ».
Questo nome di « Infernum » può tanto significare in senso
materiale luogo più basso in confronto di altro superiore, quanto
in senso metaforico luogo per eccellenza di dolori e di tormenti.
Nel primo senso numerose sono le località dell'agro milanese che
hanno siffatta denominazione, tra cui quella stessa « cascina Interno »
fuor di porta Magenta, che nelle antiche mappe, riscontrate dal-
l'Annoni, è chiamata « Inferno »: ma in tale significato è affatto
da escludersi Garegnano « in planitie elevatum ». Ora si osservi
che il Petrarca non dice che « Infernum » si chiamasse la ville-
reccia località da lui accennata, ma che con tal nome egli soleva
denominarla, « ego quidem.... dicere solco »: cosa che fa sorgere
il dubbio se sarà buona via, per sciogliere la questione, il ricer-
care nella toponomastica antica o moderna dell'agro milanese una
località il cui nome sia più o meno assomigliante a « Inferno » ;
perchè assai facilmente, o tratterebbesi di fortuita coincidenza, o
di posteriore adattamento in omaggio alla tradizione petrarchesca.
Ma intanto sorge altresì il dubbio che la voce « Infernum » usata
dal Petrarca non sia a prendersi in quel primo significato materiale
di « luogo basso » : dubbio che diventa più forte, quando si rifletta
che in caso diverso si sarebbe burlato dell'amico sottoponendo al
suo acume di dotto grammatico un significato tanto ovvio e na-
turale: « cuius etymologiam tibi committo », quasi dicesse d'indo-
vinare perchè mai così egli solesse chiamare quella villeggiatura.
Dubbio che finisce per radicarsi totalmente, allora che leggiamo
essere egli pronto a mutare quel soprannome, quando così paresse
all'amico, « paratus tamen in hoc te ut in multis sequi » ; essendo
che ciò che naturalmente è in basso, piaccia o non piaccia, non
potrà mai dirsi diversamente collocato. Si avverta poi alla vicina
contrapposizione ad « Infernum » di Helicona (« utinam vero tibi
u possem ostendere Helicona alterum, » etc.) : e scrive « Helicona
« alterum », con la quale espressione lascia chiaramente intendere
che il luogo, da lui pur soprannominato (per sue particolari ra-
gioni che lascia all'amico da indovinare, « ego quidem.... dicere
« soleo.... cuius etymologiam tibi committo ») Inferno, è non meno
in realtà Elicona, di quello sui colli Euganei: espressione che pie-
namente si rischiara con l'altra da lui usata scrivendo pochi mesi
prima, nel 1359, all' amico Francesco Nelli d' aver nel Milanese a
sua disposizione non uno ma parecchi « eliconii ritiri », nella cui
rusticana libertà poteva rifarsi dai disagi della vita cortigiana e
368 VARIETÀ
cittadina, « dum procul ab hominum turbis sum in alterutro Heli-
« cone nostro » (i). Per tutte queste ragioni mi sembra doversi
ritenere che la denominazione « Infernum » si debba prendere in
senso metaforico e non topografico, e che ritragga la sua origine
da casi particolari ivi occorsi al Poeta, i quali gliene avessero
funestata la memoria: la venuta dell'ospite amico, da lui tanto
desiderata, avrebbe finito per riabilitare, dirò così, a' suoi occhi
quel luogo, imparadisandolo, siccome egli stesso scriveva di non
dubitarne. Se è così, il nostro pensiero non può a meno di ricor-
rere a queir ignota località sulle amene sponde dell'Adda, dove il
Petrarca aveva villeggiato nell' estremo autunno dell' antecedente
anno 1359. Ben si poteva da lui chiamare, più che « Elicona w^
« Inferno » quel luogo di cui ignoriamo il vero nome. Dapprima
i continui rivolgimenti guerreschi, che, come gli avevano fatto
differire la villeggiatura dal luglio alla fine del settembre, non
avranno mancato di sturbarne la tranquillità: poi le dirotte e con-
tinue pioggie che, annunciando un inverno anticipato, gli vennero
a guastare quel breve soggiorno: infine la ripetuta caduta del vo-
lume ciceroniano che avevagli prodotta quella incresciosa ferita
alla gamba, della quale ancora in quell'anno che scriveva al Moggio,
sentiva le dolorose e gravi conseguenze. Pareva proprio che il
fato (oggi forse diremmo la iettatura) avesse preso il barbaro
gusto di venirlo a perseguitare in quel luogo da lui scelto per sua
quiete e felicità; quel fato, nel quale confessa di essere quasi
costretto a credere (2).
Così mi parrebbe potersi spiegare quella misteriosa e sugge-
stiva denominazione di « Infernum » usata dal Petrarca per una
delle sue villeggiature nel Milanese e di avere, in base ai dati del
suo epistolario, indagato la particolare ragione che indusse il Poeta
a chiamarlo così. O forse meglio dirò d'aver così tentato una pro-
babile spiegazione d' un passo petrarchesco, in attesa che altri su
più espliciti documenti ne proponga una migliore.
Con tutto ciò son ben lontano dal voler presumere di limitare
ai luoghi qui citati (San Colombano, Monza, Garegnano e le rive
dell'Adda) le località abitate dal Poeta nei suoi estivi soggiorni
sul Milanese: questi sono i luoghi ai quali egli espressamente
accenna nel suo epistolario; persuaso che e più numerosi e più
svariati siano -stati gli ameni villerecci ritiri, ai quali il Poeta chiese,
it) Family XXI, 12.
,(2) I^id., XII, 2 e J^
2 e XXI,, 10.
VARIETÀ 369
ospite desiderato, più o meno a lungo, tranquillità e ristoro nel
suo soggiorno fra noi; se vere dobbiamo dire le parole da lui
scritte di quel tempo all'amato discepolo Agapito Colonna: « ego
u tamen adhuc Ambrosii hospes sum et in extremo civitatis angulo,
« saepe etiam rure abditus quid àgat urbs nescio » (i). Una cosa
particolarmente ci importava di far rilevare che cioè il « Petrarca
« in villa » non è soltanto a ricercarsi a Garegnano, bensì in altre
località che con non minor fondamento sono a dirsi « le ville del
^^ Petrarca nel Milanese ».
Emilio Galli.
(i) Fatnil, XX, 8.
370 VARIETÀ
Elisabetta Cristina di Wolfenbùttel a Brescia
(1708).
I.
OLGENDO ormai le sorti della guerra favorevoli alle armi
della lega, Carlo III re di Spagna, col qual titolo era
chiamato l'arciduca d'Austria che fu poi imperatore, fissò
le sue nozze con la principessa Elisabetta Cristina di
Wolfenbùttel, la quale partì quindi da Vienna per raggiungere a
Barcellona il regale consorte. E dovendo essa passare nel suo
viaggio pel territorio della repubblica veneta, il Senato, pur non
consentendo a considerarla come regina, diede ordine al Provve-
ditore generale Daniele Dolfino, perchè fosse ricevuta e trattata
con lo sfarzo conveniente all' alto suo grado ed al decoro della
Serenissima.
E le accoglienze furono davvero fastose, specialmente a Bre-
scia dove la regal donna si fermò due giorni. Delle feste che quivi
si fecero ci lasciarono un breve ricordo i due diaristi Bianchi e
Cazzago (i) e un racconto assai particolareggiato se ne trova in
un manoscritto inedito della Queriniana (2). L' autore è anonimo,
ma appartenne evidentemente alla nobiltà bresciana e fu testimonio
oculare delle feste che descrisse con lo stile enfatico e tronfio del
suo tempo, senza tuttavia alterare la sostanza dei fatti, come ap-
parisce confrontando con esso il racconto dei due diaristi.
Il passaggio di una sovrana non era per verità una cosa nuova
per Brescia, la quale poteva vantarsi di avere accolto entro le mura
(i) BfANCHi, Diario, in cod. Querin.-Ducos, 45 t., p. lOj e Cazzago, Cro-
naca .di Brescia, in cod. Querin., C. I, i, p. 61.
(2) Cod. Ducos, 94. Il titolo è il seguente : ijo8 \ Elisabetta Cristina \ Prin-
cipessa di Wolfenbùttel \ Destinata sposa a | Carlo ter^o \ Re delle Spagne \ Nel
suo viaggio da \ Vienna a Barcellona \ passa ed alloggia sopra lo stato veneto \ nel
Maggio l'joS. Il ms. cartaceo è una copia. Un altro esemplare con qualche va-
riante doveva trovarsi, come dichiara egli stesso, nelle Miscellanee dell'autore.
Inoltre una copia era stata preparata per il signor Antonio Nani, capitano in quel
tempo a Brescia, ma non gli fu consegnata.
I
VARIETÀ 371
parecchie volte donne di sangue regio, dalla regina Caterina Cor-
naro (i) air imperatrice Maria Teresa (2); ma la principessa Cri-
stina veniva in Brescia quando la città cominciava appena a riaversi
dai gravi danni della guerra di successione subiti più per opera
dei francesi che degli spagnuoli (3), quando, come si è già avver-
tito, pareva ormai assicurato il trono spagnuolo a Carlo III, onde
si comprende come popolo e nobiltà corressero tanto più volentieri
incontro alla giovane sposa, gareggiando col senato nello sfarzo e
nella pompa del ricevimento. E appunto nella descrizione della
fastosa accoglienza consiste l'importanza dello scritto del nostro
anonimo. La nobiltà delle piccole città trascinava difatti allora la
sua vita unicamente nello sfoggio delle avite ricchezze e nelle me-
schine gare di precedenza ; e poiché per la misera condizione del
popolo la vita della città stessa sembrava confondersi con quella
della nobiltà e compendiarsi in essa, così crediamo che la descri-
zione di queste parate giovi non solo alla storia del costume, ma
anche a quella della vita cittadina. Perciò non ci sembra inoppor-
tuno riassumere in larga parte e trascrivere nei suoi passi più
notevoli il racconto del nostro anonimo.
II.
La regina partì da Vienna il 24 aprile, affidata dall'impera-
tore al duca di Lorena, arcivescovo d'Osnabrugg e vescovo d'Ol-
miitz, figlio del duca Carlo V di Lorena, cognato dell' imperatore,
che « con titolo e dignità ed autorità di assistente ed aio doveva
« seguirla fino all'imbarco e poi fino a Barcellona ». La accompagna-
(i) La regina venne a Brescia nel 1497, ed ebbe accoglienze solenni che
furono descritte da Marin Sanudo, nei suoi Diarii. Cfr. anche (\\iQsl^ Archivio,
XV, 1888, p. 52.
(2) Altre principesse vennero a Brescia nel secolo XVII : Maria Anna,
quando nel 1649 andò sposa di Filippo IV, re di Spagna (ved. C. Cantù, la
pompa della solenne entrata fatta in Milano, in (\\itsx'' Archivio^ XIV, 1887, p. 346)
e fu in questa circostanza, che avendo i Bresciani offerto alla regina delle calze
di seta, l' industria della quale era allora fiorentissima, si sentirono rispondere
bruscamente dal duca di Maqueda, maggiordomo di Maria Anna, che le regine
di Spagna non hanno gambe. Nel 1666 prese alloggio in città la figlia di lei
Maria Teresa, quando da Madrid andò a Vienna sposa dell'imperatore Leopoldo I.
(3) Il Cazzago nella Cronaca citata scrive difitti che « gli Spagnuoli furono
« sempre onoratissimi nei loro accampamenti, pagavano tutti e nel verno si ri-
« tiravano nel Milanese ». Vedi anche Odo.^ici, Storie bresciane, voi. IX, p. 314.
372 VARIETÀ
vano pure il conte di Mollard, cavallerizzo maggiore di S. M., il
conte di Voltzia (i) cavaliere delle Camere e commissario alle prov-
visioni, il conte di Galles, cavaliere spagnuolo, la principessa di
Liechtenstein, la contessa di Otting, maggiordoma maggiore, la
contessa di Infeld, dama d'onore con un suo figliuolo, la principessa
Carlina, figlia di Liechtenstein, e la seguiva un numeroso corteo di
dame, di cavalieri, di servi, nel quale si notavano il confessore, il
medico, il chirurgo, lo speziale, il cuoco, il calzolaio, la lavandaia
e la nana di conversazione, addetti specialmente alla persona della
regina insieme con quelli per la corte, con uno sciame di camerieri,
di lacchè, di cocchieri, tanto da superare il centinaio. 11 24 di
maggio il corteo giungeva al confine veneto, dove trovavasi pronto
a ricevere l'augusta signora il Provveditore generale di terraferma
Daniele Dolfino, il quale aveva già preso tutte le disposizioni per-
chè il ricevimento fosse degno di lei e della Repubblica. Volendo
che nel suo corteo si trovassero notabili veneti e bresciani, aveva
mandato al suo confidente Antonio Preti tante lettere di invito
senza indirizzo con ordine di recapitarle a chi credesse meglio.
Ma il Preti nel mandare tali lettere soggiungeva a voce che « si
« ricercavano almeno due mute d' abiti, uno da campagna, 1' altro
« sontuoso da città; quattro servidori, cioè un cameriere, due lac-
« che ed uno stalliere; tre cavalli, uno per il cameriere, l'altro per
u il padrone (e questo riccamente guarnito), con uno a mano dello
n stalliere e questo pure a cavallo; tre livree da città, tre da cam-
ii pagna. Niuno accettò l'invito; chi si scusò per aff'ari, chi per
« esser figliuolo di famiglia...., alcuni dissero assolutamente di no e
« due soli risposero: se gli altri tutti invitati verranno, verranno an-
« ch'essi. Laonde vedendo il Preti la resistenza pregò quelU ai quali
« avea a consegnare le lettere a non rispondere al Dolfino, mentre
« egli avrebbe imposto per tutti.... » (2).
Riuscirono meglio al Dolfino i provvedimenti presi per ordinare
il suo equipaggio in modo che « risplendesse in esso e la grande2;za
(i) Così scrive l'A., ma forse volle scrivere Wollstein?
(2) L'A. adduce come spiegazione dell'assenza dei nobili bresciani dal corteo
il fatto seguente : « Divulgava il Preti come non ci sarebbe stata distinzione né
« superiorità né inferiorità tra nobili veneti e nobili dello stato, ma tutti trat-
<( tati con uniforme parità, e interpellato poi se si esibiva mallevadore, rispose di
« no. Laonde tutti ricusarono, addolorati da quanto era accaduto in Verona nel
« passaggio dell'imperatore regnante. Allora pure si diede tale intenzione, ma
« non fu adempiuta, sicché alcuni cavalieri di terraferma bel bello si ritirarono
« nell'atto del corteggio ».
VARIETÀ 373
« del principe ed il proprio decoro.... Scelti però otto cavalieri gio-
« vani di indole generosa e di costumi senza neo, d'aspetto dotati,
« con titolo di paggi ebbero i vestiti oltremodo ricchi e gai e di
« buon gusto, perchè se riguardiamo il soprabito, appena poteva
« scorgersi il veluto cremesino, tanto era coperto di belle liste d'oro e
« il sottabito rintuzzare la vista coi tanti raggi tramandati dal drappo
« all'ultima moda di ganzo [broccato] d'oro e tutto corrispondeva il
n rimanente. Poco dissimile era lo sfoggio da campagna, perchè
« sopra fino scarlatto strisciavano in copia merli d'oro e la sotto-
« velada di stoffa non invidiava la mostra di un vago giardino.
u Copriva i staffieri un panno pure cremisino a dupplicate larghe
« trine d'oro e li dodici alabardieri (marca questa speciosa e di-
u stintiva della generalizia dignità), indossavano sopratutto, dirolla,
« lucerna, colobio o volgarmente casacca senza maniche, lunga a
« mezza gamba e di larghe falde, in cui parte a destra, parte a
« sinistra, effigiato con ago e ricamo d'oro risaltava il blason Dol-
« fino. Portavano questi sopra la spalla dodici ben travagliate ala-
« barde da intagli ed oro lucenti. Qui non pongo a numero otto
« snelli lacchè, molti palafrenieri conducenti a mano addobbati ca-
« valli, né altra gente bisognosa al pronto ed immediato servizio »».
III.
Intanto giungeva a Brescia il Quartier Mastro per esaminare i
preparativi fatti nel palazzo che doveva ospitare la regina. Udiamo
il nostro anonimo:
Precorse Tarrivo della Corte... a stabilire le posate, a disegnare le
stanze, a prefiggere il numero d'uomini e d'animali acciò ogni condi-
zione ritrovasse pronto il conveniente trattamento. Nulla ebbe a mu-
tare in città nel quarto assegnato alla sua Sovrana, anzi ammironne la
struttura, gli addobbi, la ricchezza. Chi è pratico di Broletto (i) sa quanto
(i) Il VM.^'armi, Il palalo di Broletto in Brescia, in questMrcH-y/o, XXIII,
1896, II, p. 181, non ci dà nessuna descrizione dell'interno del palazzo in
questo tempo. Dice solo che per « avere un' idea della ricchezza in argenterie,
« in stoviglie ed in addobbi degli appartamenti del Podestà e del Capitano
« Grande.... basta leggere alcune descrizioni che il cronista Bianchi ci ha copiato
« nel suo Diario pel ricevimento di principi o di ambasciatori che venivano da
« Venezia »; e riporta in nota qualche passo del Diario, nel quale però non si
fa alcun cenno dell'ordinamento interno del palazzo; tanto più quindi parmi
utile trascrivere integralmente questa parte del racconto del nostro anonimo.
Arch. Star. Lomb., Anno XXXII, Fase. VI. 24
374 VARIETÀ
sia maestoso tale recìnto, soggiorno continuo dei rappresentanti la ve-
neta autorità. Ampio scalone dà V ingresso alle parti superiori, a sini-
stra abita con la Curia l'Ecc. Podestà (di presente il signor Gabriel Emo);
sale capaci, doppie fughe di stanze sempre da ricchi arredi vestite con
altre camare per il nobile e basso serviggio compongono questo fianco;
a destra l'appartamento. Egli è più sontuoso nella fabbrica, più allegro di
sito, più copioso di stanze ben ripartite e del soggiorno dell' Ecc. sig. An-
tonio Nani con la carica cospicua di Capitanio rendesi ora più illustre....
S'entra in questo, dopo asceso lo scalone, per due ampie sale dipinte
tutte a fresco, incontrasi a linea diritta tre stanze, indi una più piccola
e sovrasta all'altra due gradini, da cui si sbocca nel pensile giardino,
ove vaga fontana con sottoposta peschiera ed altre distribuite in quel-
l'ameno quadrato gettano l'acque fresche e cristalline e queste ben da
lungi vengono inchiuse per tubi sotterranei dal continuo artificioso moto
di macchina versatile. Dal giardino si scopre gran parte della città,
terminando a monte la vista nel prospetto del forte castello. A fianco
quattro altre stanze con mezzadri gabinetti servono ordinariamente per
il gineceo, senza numerarne parecchie tutte civili ripartite a ben intesa
proporzione. Dalla seconda volgendo a sinistra s'apre un' alta e vasta
loggia o galeria a balaustri di marmo e corrisponde nel pubblico cor-
tile; in questo zampilla una deliziosa fonte e a capo altre camere as-
segnate per lo più a forestieri di rango. Quasi a mezzo della loggia
s'entra nell'anticamera, da questa in quella d'audienza; indi una rin-
ghiera di ferro circonda il cortile interiore e dà l'ingresso nella capella
e in altri luoghi coperti e scoperti. Il bassopiano viene tramezzato e
distinto da quei tanti siti di cucine, dispense, cantine, stalle, rimesse di
cocchi o di altri bisognevoli ed opportuni....
S. E. il sig.' Capitanio nulla ebbe da aggiungere ad abbellimento
al suo quarto, in cui doveva alloggiare e pernottare la Principessa,
perchè nel suo primo ingresso alla carica.... spiccavano gli addobbi negli
argenti e dì quanto altro vanno adorne le stanze. A questo passo di
bona voglia tralascio l'intera minuta descrizione dellì veluti e fiori, delli
damaschi cremesi, degli arazzi, delli tappeti persiani, da cui vestite le
mura e coperte parimenti attraeano l'occhio ammiratore. Mi dispenso
dalla specificazione di lampade di cristallo pendenti da vòlti e soffitti,
dì lampadari d'argento attaccati alle muraglie, parte sostenenti una,
parte tre candele di cera per ognuno, di gran vasi d'argento, di specchi
superbi, di sedie e tavole alla cinese con nobile lavoro travagliate e
nei quali l'arte supera la materia. Né meno numero stipi intagliati ed
indorati, e.... porcellane fine, chiccare del Giappone e Cina, legate in oro,
vasi d'agata e mille altre galanterie di filagrana, e per terminare, nulla
mancava di grande e sontuoso.
La seconda delle camere, dopo passate le due sale, fu intradistinta
perchè destinata al ricevimento degli Ambasciatori e dei Principi nel
ricevere dalla Principessa le audienze ed ove Ella udì la messa, ove
mangiò. S' alzava in essa il baldacchino di velluto a un solo gradino e
VARIETÀ 375
sotto una ricchissima sedia di ganzo; né in questa né in altre stanze
di quella fuga si contavano sedie; obligato ognuno a starsene in piedi.
E la piccola contigua al giardino, nella cui volta spiccano insigni pitture
del nostro famoso Lattanzio Gambara, fu l'amena cella in cui al dolce
mormorio delle acque cadenti prese riposo la donzella reale....
Ebbe finalmente il Capitano l' incarico di provvedere al più ma-
gnifico trattamento, il che egli fece sia coU'assegnare diverse cu-
cine secondo il grado delle persone, sia con la ricerca dei viveri,
alquanto difficile, perchè la stagione non offriva che fragole e poche
cerase non ben mature, mentre v'era penuria di neve e di ghiaccio
per la grande mitezza dell'inverno precedente.
A rendere più importante il ricevimento che si preparava alla
regina, giungevano poi in Brescia anche il duca di Parma, Fran-
cesco I, ed il granduca di Toscana, Gian Gastone, i quali furono
pure onorevolmente accolti ed ospitati in case di patrizi bresciani,
sebbene il granduca dichiarasse di voler serbare l'assoluto incognito.
IV.
Intanto la regina, ricevuta solennemente dal Dolfino a Busso-
lengo, si dirigeva verso Brescia, sostando alquanto a Ponte S. Marco
in casa del conte Annibale Pro vaglio per sottrarsi al gran caldo
del meriggio (i). La breve sosta ritardava però l'arrivo del corteo
in città, la quale dimostrava già l'impazienza di vedere il grande
spettacolo. E appunto perchè l'effetto non venisse scemato dalle
tenebre, furono attaccate ai muri e piantate in terra delle spesse
lumiere e per cura dei cittadini vennero illuminate con torcie e
candele le porte e le finestre delle case, le quali erano pure state
convenientemente addobbate. Finalmente, dopo tanto lunga attesa
arrivò il corteo, ed ecco come ne descrive l' ingresso in città il
nostro anonimo :
Tutte le finestre e pergoli addobbati da fini tappeti e sete erano
per così dire carri di trionfo del Dio d'amore, in cui sedeva la beltà.
(i) A Fonte S. Marco la regina « ebbe un piacere innocente quando il « no-
« stro popolo al suono di due violini toccati da Giuseppe e Gio. Battista Padua,
« padre e figliuolo, nativi della terra di Calcinato, tessè belle danze alla sua foggia
« campestre », tanto che la regina ne ordinò la continuazione e donò dieci on-
gari ai suonatori (Racconto dell'A.).
376 VARIETÀ
la venustà, il brio di tante dame e forestiere e patrizie, impegnate in
quel giorno e nei seguenti alla più ricca e bizzarra comparsa. Cava-
lieri delle circonvicine città, particolarmente del Ducato di Milano e
nostro a tutta gala e sontuosamente abbigliati non capivano sopra le
porte....
Udissi finalmente il primo saluto a palla dal castello, quando dopo
dato il concertato segno con una fogata dalla torre della chiesa di
S. Francesco da Paola (i) fuori delle mura scoprì la regia carrozza
lontana mezzo miglio. Seguitò la fortezza con trenta tiri d^artiglieria e
da' terrapieni della città ove pure erano all'ordine i bronzi fu corrisposto
a vicenda e tanto si pratticò all'entrar nelle porte e nello smontare a
palazzo. Due interi reggimenti oltre al solito presidio furono giorni
avanti introdotti in città e questi a destra ed a sinistra dalla porta di
Torrelunga schierati, oltre nova milizia sopra la gran piazza del Domo
fecero echo coi loro moschetti alla gioia ed all'arrivo. In vicinanza della
città stavano disposti tre squadroni di cavalleria, il primo del colonnello
di dragoni conte Giov. fermo a sinistra della strada, il secondo di co-
razze del col. conte Girolamo Tadino, il terzo dei croati del col. conte
Alvise Butrovich. Tutti questi venerarono l'arrivo della principessa col
suono di tutti i loro militari istromenti, a quelli corrispondendo i con-
certi d'obice dei Reggimenti d' infanteria rendevano strepitosa ed as-
sieme grata armonia....
Dopo quattro cocchi apparve quello in cui risplendeva l'oggetto di
tutti gli sguardi. Sedea la bella Dea di Gnido in quel volto in cui la
maestà e la modestia avevano il suo trono.... La fronte della reale don-
zella era un cielo, ma non irato, dai cui occhi si vibravano lampi di pace
e questi soh (senza il serviggio di ventiquattro grossi doppieri portati
a canto del cocchio da soldati schiavoni vestiti a livrea con aironi d'ar-
gento sopra le berette, usciti un miglio fuor della città) avrebbero reso
la notte uno splendidissimo giorno. Ella tutto riso, tutta rose, or da una
parte or dall'altra affacciavasi dal cocchio, quasi corrispondendo a pro-
fondi inchini del popolo affollato. Sei staffieri a capo scoperto tenevano
sempre la mano pronta a trattenere anche una piccola scossa del carro.
La contessa d'Otting maggiordoma sedeale in faccia. Venticinque arcieri
a cavallo a sabla nuda seguivano di guardia, indi altre sei carrozze chiu-
sero il suo treno senza numerare paggi, parafrenieri. Con tal ordine
entrò dalle porte di Torrelunga in città, rivolto a mano sinistra su la
piazza di Sant'Eufemia, diritto verso S. Barnaba fino alla contrada del
Pie del Dosso e salito quel dolce promontorio s'avviò dal Vescovado
dietro al coro del novo Domo sopra la piazza del Domo.... Inchinata
dal conte Cahno ascese lo scalone maestoso appoggiata al braccio del
conte di Molart,... camminando avanti il Principe di Lorena e ritirossi
nel suo appartamento....
(i) Piccola frazione, distante circa un miglio da Brescia.
VARIETÀ 377
Intanto a Torrelunga seguiva la mostra del Provveditore ge-
nerale.
Al festivo suono di quattro trombe fu calato il sipario. Numerosa
l'antiguardia a cavallo di due compagnie, una di croati del colonnello
Butrovich; l'altra di corazze dal conte Girolamo Porto da Parma rosso
coperta, spada alla mano, coi suoi timballi battuti da un moro; molti
staffieri con otto paggi pure a cavallo ricchi negli abiti fecero il pro-
logo. Egli in cocchio dì tiro a sei, vestito a tutto cremisi, scarpe e cap-
pello, consuetudine e distinzione questa di generalitia veneta autorità,
servito da dodici altri schiavoni con torcie, otto lacchè e buon numero
di staffieri, compì il primo atto. Il secondo fu rappresentato da sette
carrozze a sei di sua livrea e da sette altre pure a sei, tutte colme di
cavalieri di suo corteggio. Terminò il terzo ed ultimo nella retroguardia
di due compagnie di cappelletti e due di corazze a cavallo con ferro
lucente in pugno. Tale folta e svelta comitiva non entrò in Broletto,
ma giunta su la piazza del Domo seguitò il capo al suo destinato al-
loggio, in cui dopo aver cenato a laute mense, la gente nobile e civile
si ridusse a riposi in varie vicine case preparate....
E per quel giorno finì così.
V.
La mattina successiva il popolo, riavutosi dallo sbigottimento
di una scossa di terremoto (i), affollossi in piazza per vedere la
regina che doveva andare alla messa, mentre la più scelta nobiltà
recavasi a palazzo per far ala al passaggio della regina e le dame,
alzatesi pure di buon mattino, prendevano frettolose posto nella
cattedrale. E fu qui che in mezzo a tanto sfarzo di abiti si distin-
sero molti patrizi milanesi, tra cui quattro grandi di Spagna, don
Annibale, visconte generale delle armi di S. M. Cesarea, e suo fra-
tello, gran cancelliere, venuti quali sudditi a rendere il dovuto vas-
sallaggio alla loro sovrana. Questa « uscì dalle stanze, alta nella
« statura, maestosa in fronte, ridente in bocca; vestiva alla moda
u un drappo color di rosa con poca tessitura a fiori d'oro appro-
« priato per la stagione cocente, grosse bianche perle cingevano il
« collo di neve e nei capelli sopra la fronte da industre mano biz-
(i) L'A. attribuisce la scossa di terremoto nientemeno che alla paura della
terra per la corsa vertiginosa del sole il quale era smanioso di ricomparire sul
nostro emisfero a contemplare la bellezza della nostra regina e la pompa solenne
di quelle feste!
378 VARIETÀ
« zarramente increspati serpeggiavano diamanti e rubini con vago
u innesto armonizzati.... Al primo spuntar nella gran sala tutta la
« nobiltà profondamente inchinossi e la milanese schierossi in su-
« perba gala e andóle avanti facendole corte. Questo fu uno de' rari
u spettacoli ; osservar duecento e più parrucche di cipria polve
« asperse con quanto di gaio seppe modellar il fasto, con quanto
« di puro sangue seppero tramandar gli antenati, con quanto di
« fine educazione procurarono instillare i genitori unito in suddita
<• leale colleganza pronto agli ossequii della sua regnante signora ».
La regina andò in Duomo, assistette alla messa stando sempre in
ginocchio durante la cerimonia, che l'A. descrive pur minutamente
quindi tutti andarono a pranzo.
Nel quartiere pretorio le stanze e le tavole erano state distri-
buite quali con più posate, quali con meno, secondo il grado dei
banchettanti.
Là una per i cavalieri delle chiavi d'oro, là una pei gentiluomini
di camera, qua quella dei cappellani, confessori, paggi, colà quella degli
aiutanti a quartier mastro, di là l'altra dei medici, chirurghi, speziali....
Imbandite erano le tavole con tutto il decoro e lautezza, e quanto o la
stagione contribuiva o le dispense più riservate votavano o il nostro o
l'altrui clima produceva, tutto qui era adunato nell' impegno pubblico
della dovuta magnificenza. Vini del paese e dei contorni e di quante
altre sorti con navi giungono a Venezia qui si versavano con tutto il
diletto ai signori tedeschi. Abbondarono a dovizia le dolci manipola-
zioni e li canditi e le confetture in quantità condotte dalle venete la-
gune.... Anche il copioso serviggio d'argento.... augmentava la splen-
didezza del Senato. Qui non esprimo numerose casse ripiene di zuccari,
di varia e candida cera, altre di fini cristalli per uso della mensa, altre
di più squisiti aromati. Chi bramava rosolini, chioccolatte, caffè, thè,
acque ghiacciate, sorbetti.... era pienamente soddisfatto. A contentare poi
il basso serviggio, arcieri, cocchieri, staffieri, soldati, ogni altro servente,
lunghe file di tavole erano disposte e nel cortile interiore prefettizio
ove fumavano i cibi e sotto logge.... colà si saziava la turba assistita
da più persone a questo solo effetto trascelte.
Nel pomeriggio dello stesso giorno la regina ricevette le prin-
cipali autorità e le rappresentanze che erano state mandate dalle
varie città. Ed il ricevimento diede occasione a nuovo sfarzo di
equipaggi, di livree e di sontuosi vestiarii :
La prima [udienza] com'era dovere, fu conceduta al Rappresentante
della Serenissima Veneta Repubblica. Sonate le ore ventuna mandò la
Principessa due sue carrozze e nella prima un cavaliere dal titolo di ca-
meriere dalle chiavi d'oro a levar dal suo palazzo il sig. Provveditor gè-
VARIETÀ 3
nerale, l'altra era vota... [Discesero entrambi dal palazzo, il sontuoso treno
generalizie sfilò direttamente da Via del Fiume per S. Antonio e Piazza
del Duomo fino al Broletto, cosi composto]: Due trombe a cavallo avvi-
savano la venuta. Ventiquattro corazze ben montate a cavallo di van-
guardia, trenta staffieri Dolfini a destra, trenta soldati a piedi di uni-
forme panno rosso vestiti con moschetti in ispalla a sinistra. La prima
carrozza era quella della regina in cui sedeva il Delfino solo, nella parte
superiore, con abito, cappello e scarpe rosse, con bottoniera e grossi dia-
manti alla velada e con cintiglio parimente folgoreggiante a gioie attorno
al cappello. In sua compagnia il cavaliere di corte pur solo nel sedile
inferiore. Era circondato il cocchio da otto cavalieri, paggi a piedi, da
otto lacchè e poi da quattro staffieri di corte tedeschi. La seconda car-
rozza era quella del Generale, tutta intagliata e messa a oro con cielo
dentro e fuori di veluto cremisino e nell'esterno con alto ricamo d'oro
spiccava lo stemma Delfino; questa era vota e la guardavano quattro
corazze a cavallo. Seguivano sette cocchi con livrea generalizia ed
altri sei con divise varie e questi tutti a tiro sei ; si aggiunsero quattro
cocchi bresciani a due e in qualsivoglia erano generali della Serenissima,
cavalieri sì nobili veneti sì dello Stato. Chiudeva la ricca, maestosa e
degna comparsa la seconda regia carrozza a sei, in cui ninno sedeva.
La quantità promiscua dei staffieri e lacchè.... ognuno se le idei.
Ricevuto ai piedi dello scalone ed accompagnato coi dovuti
onori entrò nella camera degli specchi dove, ritta in piedi sotto un
baldacchino, stava la regina, alla quale espose i voti del Senato. La
breve dimora di lui a palazzo diede agio al duca di Parma ed al
granduca di Toscana, Gastone, eli recarsi con speciale ricco corteo
a rendere omaggio alla regina, la quale trattenne però più a lungo
presso di sé il granduca. Essendo già tardi, fu rimandato al giorno
successivo il ricevimento della nobiltà. Ma prima che questa fosse
ammessa alla visita reale, il Provveditore faceva presentare alla
regina da 60 sue livree il regalo inviato dal Senato consistente in
cristalli, lavoro e merce peculiare di Venezia, u Su sessanta bacili
« o vimini capivano i cristalli dei quali formavasi un copioso ser-
« vizio di tavola ... Ogni pezzo .... era lavorato a filagrana e però
« della più singola e celebre estimazione. Tutto con ordine vago era
« distribuito a proporzione sopra bacili seminati di frutti e fiori pur
« di cristallo al naturale, non solo, ma di quantità di frutti e fiori
« intessuti con tutta imitazione della natura dalle delicate mani delle
« sacre vestali a Vicenza a Venezia furono mandate anche confet-
« ture o cere da essere riposte in ventiquattro ceste, dodici per parte,
u da servire per il regalo pubblico alla sposa, ma non le furono
u fatte vedere, onde parendole che il regalo fosse inferiore a quello
« presentato all' imperatrice regnante, sdegnosetta non volle ricevere
380 VARIETÀ
« nemmeno i cristalli, che rimasero così abbandonati. » Debolezze
femminili !
Intanto dalle varie parti della città dirigevansi al Broletto i
nobili milanesi coi rappresentanti delle città lombarde e del ducato.
Milano aveva mandato dodici dei suoi pila cospicui personaggi;
r insigne collegio dei giudici e cavalieri e conti di Milano pure se ne
scelse per la particolare sua copiosa adunanza. Da Pavia, quattro, da
Cremona, cinque, da Lodi, da Mortara, Alessandria, Como, Valenza,
Tortona, Vigevano, quattro pure per ognuna di queste città si spicca-
rono. Ogni ambasciatore s' aveva scelto un camerata almeno di pari
rango ed altri volontari si aggiunsero finché si accrebbe al doppio e
più la strepitosa comparsa. Chi nella sua patria aveva posto di sena-
tore, di questore, di giudice o ascritto a qualche magistrato vestiva la
toga, il rimanente con la spada. Secondo l'ordine stabilito per la pre-
cedenza ascesero lo scalone, si divisero per gruppi nella gran sala,
donde a parte a parte entrarono nella camera degli specchi a rendere
l'omaggio di loro sudditanza e lealtà alla propria Sovrana, sedente sotto
il baldacchino con breve umilissima esposizione corrisposta con aggra-
dimento compendiato con poche parole....
A più gradito divertimento s'apprestavano frattanto le dame e
cavalieri. Nel cortile del Broletto s'era improvvisato un giardino
adorno di vasi di acacie fiorenti, di statue di deità, con tutto at-
torno un' infinità di cera che dava risalto alla magnificenza. E qui
fu eseguita una serenata immaginata e diretta dal cavaliere Fau-
stino Avogadro ed eseguita da un coro di trenta musici e settanta
suonatori di vari strumenti parte di Brescia e parte fatti venire
dalle vicine contrade. I versi erano del poeta bresciano, Gio. Bat-
tista Bottalicio, e la musica di Luigi Manzo, da poco tempo ritornato
dall' Inghilterra e dalla Germania. La regina, a cui la serenata era
dedicata, annuì a rendere quasi vanaglorioso, dice l'anonimo, il di-
vertimento con la sua presenza. Servita dal principe di Lorena e da
sue damigelle e cavalieri comparve nel mezzo dell'alta loggia, se-
dendole accanto su una sedia più bassa e di paglia il Provve-
ditore.
Sfavillavano intanto i doppieri a dovizia distribuiti nelle stanze,
nelle sale, nella galleria, nel finto giardino del cortile e in ogni angolo
e al rimbombo sonoro e strepitoso di quattro trombe, di quattro obici
fu salutato Tarrivo della reggia donzella; indi il coro di trenta musici
e settanta suonatori di vari strumenti principiò alla prima di notte e
applauso festoso e per cinque intieri quarti d'ora o risuonò a ripieno (?)
l'armonia o le voci di eletti cantori a vicenda riscossero un'estatica am-
mirazione.
VARIETÀ 381
VI.
Il 29 maggio la regina lasciò Brescia con la stessa pompa con
cui v'era entrata, salutata dai tiri d'artiglieria dal castello « e dalle
« milizie spallierate sopra le mura della città coi moschetti a palle
« e alcuni falconetti ». S'era stabilito di fare una sola tappa da Bre-
scia a Palazzolo, ed il Quartier Mastro erasi già recato giorni avanti
colà a destinar gli alloggi e misurar le strade, ma la regina non volle
saperne di fare 18 miglia di strada fra tanta polvere, onde fu deciso
di preparare il pranzo ad Ospedaletto, facendosi però comprendere
alla augusta signora che colà non vi era cosa alcuna all'ordine. Tut-
tavia il conte Orazio Calini, avvertito di spedire tutto quanto si do-
veva consumare, eseguì l'ordine tra la notte e la mattina. Dal canto
suo il nobile Lelio Cavallo, che aveva la direzione del ricevimento
ad Ospitaletto, supplì con avvedutezza alla mancanza di grosse prov-
visioni, che dovevano essere mandate da Brescia, tantoché la regina
si mostrò molto soddisfatta e fece regalare il Cavallo di due can-
delabri d'argento lavorato a vite d'oncie sessanta. A Palazzolo pure
nulla mancò per opera del conte Orazio Calini, il quale « provvide
« del più prezioso pesce dei nostri laghi e fiumi, che con sommo
« diletto e sazietà gustarono gli esteri ». Da Palazzolo proseguì il
corteo fino ad Urgnano, castello del Bergamasco, dove la regina
sostò presso il conte Giovanni Albano e si divertì e quasi direi do-
mesticamente con alcune dame colà accorse e massimamente ebbe
piacere di parlar francese con la contessa N. Vertua, versata in
tal linguaggio. Giunti al Serio, e scandagliato il fondo, fu permesso
alle carrozze e cavalli il passaggio del fiume ; essendosi schierati
poi più di 50 carri coperti di tavole nelle acque a facilitare il tran-
sito ai fanti.
A Ceserano, ultima terra del veneto, e precisamente nel luogo
chiamato Fosso Bergamasco, al margine veneto, il Provveditore
generale, che aveva sempre seguito il corteo regale, si congedò so-
lennemente dalla regina. Presentato dal conte Mollart, egli si accostò
alla carrozza di Cristina, la quale nel vederlo « s'alzò quanto con-
« cedeva l'altezza del cocchio ed in maniera però anche più obbli-
« gante di quello usato nel primo incontro ». Fatti i complimenti,
essa uscì dal confine accolta da salve di moschetterie. Tragittò
l'Adda e il sovrapposto canale navigabile, poi, riposatasi a Vaprio, si
diresse a Milano, dove arrivò incognita, sotto un diluvio di pioggia,
serbando l'ingresso solenne ad altro giorno.
382 VARIETÀ
Come poi fosse ricevuta in Milano fu già ampiamente narrato
dal Calvi (i) e dal De Castro (2).
Agostino Zanelli.
(1) Calvi, // patriiiato milanese, Milano, Mosconi, 1875, p. 249 sgg.
(2) De Castro, Milano nel settecento, Milano, Dumolard, 1887, p, 57. Note-
vole pure è il racconto del soggiorno di Elisabetta nel convento dei Cistercensi in
Parabiago pubblicato dal Giulini in quest^ Archivio, XXVIII, 1901, i, pp. 353-362.
BIBLIOGRAFIA
Alberto Pisani-Dossi, Verdesiacum, Pavia, tip. succ. Fusi, 1905, in-8,
pp. 26, con 2 tav. (Estr. dal Bollettino della Società Pavese di storia
patria).
Appassionatissimo ricercatore di antichità, il dotto autore dei pre-
sente libretto, ha avuto una ventura assai preziosa e ben meritata,
quella di rintracciare le vestigia di una terricciuola dell' agro milanese,
scomparsa da secoli e completamente dimenticata. Verdezago (rom.
Verdesiacum) era un pago romano, esistente nel territorio d'Albai-
rate e precisamente nel punto intermedio fra questo villaggio e quello
di Cisliano. Dell'età più antica non esistono ricordi ; ma nell'alto medio
evo il casale era tuttavia popolato; e ne parlano più documenti notariH
dei secoli XI e XII, dove è fatta anzi memoria della cappella di S. Fau-
stino ivi edificata. Però sul finire del mille e cento il luogo era già de-
serto d'abitatori. Una pergamena del 1170, accennando ad una lite insorta
tra il prete della chiesa di Cisliano e l'abbate di S. Vittore di Milano
circa la chiesetta di S. Faustino, dice che questa sorgeva " ubi quondam
" dicebatur Verdezagum „.
Gli scavi tentati dal Pisani-Dossi gli hanno dato modo di richiamare
all'aperto molti notevoli avanzi dello scomparso casale. Egli ha rinve-
nuta nel 1903 la necropoli di Verdezago e vi ha raccolto vasi di terra,
di vetro, oggetti di ferro, monete, ecc. Inoltre ha potuto ritrovare le
tracce d* una chiesetta absidale, perfettamente orientata, che è certo la
cappella di S. Faustmo, di cui parlano i documenti. Ma se il villaggio
de' morti si è così rivelato, non ancora è stato ritrovato quello de' vivi.
All'intelligente sagacia del Pisani-Dossi però anche questo non rimarrà,
speriamo, troppo a lungo irreperibile.
Ringraziamo intanto il colto gentiluomo d'avere arricchito di dati
nuovi con questo pregevole contributo, la storia della campagna milanese.
Dott. Giuseppe Boni, Saw Bernardino da Siena a Pavia, Pavia, tip. succes-
sori Fusi, 1904, in-i6, pp. 24.
Questa breve narrazione della vita del Santo, composta con intento
religioso, non reca documenti nuovi. L'autore considera l'attività dimo-
384 BIBLIOGRAFIA
strata da S. Bernardino in Pavia nel diffondere la devozione al nome
di Gesù, diffusione di cui resterebbero tracce nel simbolo imposto ad
alcune case della città. Rammenta il particolare culto che questo santo
ebbe in Pavia, sicché in suo onore fu fatto eseguire nel 1462 dal pit-
tore Vincenzo Poppa, nella chiesa del Carmine, un dipinto, che poi scom-
parve sotto gì' intonachi posteriori.
Il B. ricorda anche le relique del santo conservate nella cappella
del castello di Pavia e trasportate il 2 settembre 1499 alla cattedrale.
V'erano la papahna e gli occhiali. Possiamo aggiungere che ai 30 maggio
ed al i.° giugno 1469 " la barecta et li ochiali de sancto Bernardino,
" el brazo de sancta Maria Magdalena et de san Jacomo „ venivano
portati dal cappellano ducale maestro Alberto Guidoboni ad Abbiate-
grasso per il parto di Bona di Savoja (i;. A migliaia, a migliaia accor-
revano gli spettatori a Brescia il 14 febbraio 1451 per vedere la berretta
di S. Bernardino, che Giovanni da Capistrano, iì taumaturgo, l'amico
e il successore del senese, usava nelle sue miracolose prediche (2).
Il dott. Boni a p. II del suo lavoro accenna alle relazioni di S. Ber-
nardino con il duca di Milano, F. M. Visconti, sul principio non troppo
cordiali, E qui notiamo, non per Pavia però, che già il Giulini [Memorie,
voi. VI, p. 403, 2.a ediz.) ha ricordato i processi nella causa di S. Ber-
nardino con Amedeo da Lodi, maestro d'abbaco in Milano, infetto di
eresia. Nell'Archivio trivulziano, è bene lo si sappia per la storia ap-
punto dell'eresia in Italia, giacciono i documenti interessanti al propo-
sito, con le difese giuridiche in memoria del Santo (1428-1446) (3).
Altri storici (ad es. il Rosmini) ricordarono il poco favore dimo-
strato dal Filelfo e già dal Biglia, il cronista milanese, pel modo di pre-
dicare del senese. A S, Bernardino in Milano accenna anche il Bandello
nelle sue Novelle, voi. Ili, novella 53.*^ (4). Non è qui il posto di elen-
(i) Cfr. lettere di quelle date di Giovanni Attendoli al duca dì Milano,
Arch. di Stato di Milano (Carteggio sforzesco). Ai 25 luglio, come da lettera del
castellano di Pavia, Gandolfo da Bologna, venivano ricollocate in cappella. Cfr.
anche c^o.sl'' Archivio, III, 1876, p. 558, e per le reliquie in Pavia, oltre il Gualla
e gli altri autori citati dal Boni nel suo opuscolo, cfr. Magenta, Castello di
Pavia, voi. I, p. 569; D'Adda, Ricerche, tee, pp. 109-10 e suppl. p. 25 ; Boll, sto-
rico della Svili. Ital, 1887, p. 215; Moiraghi, Torquato Tasso a Pavia, 'Pavia,
1895-96, p. 156 sgg.
(2) Za NELLI, Predicatori a Brescia nel quattrocento, in quest'Archivio, XV,
1901, I, p. 105.
(3) Ai 16 dicembre 1426 Amadeo da Landò aveva ottenuto la cittadinanza
milanese (Arch. di Stato di Milano, Reg. Panigarola, e. 82 t.).
(4) È la novella dal titolo : « Tomasone Grasso usurajo grandissimo fa pre-
ce dicare contro gli usurai per restar egli solo a prestar usura in Milano ». Il Grassi
si sarebbe convertito, restituendo il mal tolto e lasciando « tante elemosine e
« tante cose pie, che tutto il di in Milano si fanno ». Trattasi del fondatore
BIBLIOGRAFIA 385
care i recenti biografi del Santo : basti aggiungere che la fonte princi-
pale della sua vita, la biografia di Leonardo Benvoglienti, quella che
somministrò tutti i materiali per ricostruirne la storia nei suoi primi
anni, e che era finora rimasta inedita, venne pubblicata dal p. F. van
Ortroy negli Analecta BoUandiana.
E. M.
Carlo Battisti, La traduzione dialettale della ' Catinia ' di Sicco Po-
lenton. In Archivio Trentino, a. XIX, fase. II, 1904-1905.
Il Segarizzi pubblicò a Bergamo nel 1899 la sua opera premiata
La ' Catinia% le Orazioni e le Epistole di Sicco Polenton. Nell'introduzione
il Segarizzi trattò diffusamente non solo della Catinia latina, ma anche
della traduzione trentina, che è la prima opera letteraria che vanti la
stampa trentina (1482). Scopo della pubblicazione del Battisti non è ora
soltanto di presentare agli studiosi una ristampa dell'interessante " lu-
" sus „ del Polenton, ma anche di stabilire il dialetto della traduzione
e, possibilmente, di localizzarlo.
A titolo di curiosità notiamo che protagonista nella commedia " no-
" minada Catinia dali Catini „ figura " Catinio homo da Como, quale
" se domanda Catinio da li catini, li quali lui portava e vendeva; questo
" medemo se appella etiam da lui Comano et benché meglio, secondo
" la rectitudine de la latinitade e de la auctoritade talliana de li altri,
" dovea fir dito Comenseno, perchè eli era de la cita de Como „.
C. Foligno, Un poemetto in lode di Lodovico il Moro, Milano, tip. Ca-
priolo e Massimino, 1905, in-8, pp. 23. (Edizione di 50 esemplari
numerati per le nozze d'argento Pirelli-Sormani).
In quest'elegante libretto, stampato con cura su carta tinta, inqua-
drata in rosso, il nostro consocio dott. Cesare Foligno ha voluto mettere
alla luce un saggio delle ricerche che, come risulta da quanto viene
comunicato ai colleghi in questo medesimo fascicolo àtìV Archivio, ha
con tanta attività e non senza fortuna intraprese nel Museo Britannico.
Tra i codici Addizionali di quel ricco deposito, egli si è imbattuto in
un ms., indubbiamente appartenuto un tempo alla libreria Visconteo-
delle scuole Grassi, pure Tommaso di nome?... Forse piuttosto di un altro suo
omònimo, morto nell'estate del 145 1, e uomo danaroso, a detta dal duca Fran-
cesco Sforza, che con sua lettera del 2 agosto di quell'anno raccomandava al suo
fido conte Gaspare da Vimercate di trovar modo di aiutarsi co' denari lasciati
indietro dal defunto milanese (Arch. di Stato di Milano, Missive, n. 6, fol. 89).
386 BIBLIOGRAFIA
sforzesca di Pavia, che racchiude un'operetta poetica di Bernardino
de' Capitanei da Landriano nobile milanese. È dessa intitolata De la
felicitade de Ludovico Maria Sforcia, ed in sedici capitoli in terza rima,
preceduti e seguiti da alcuni componimenti lirici, esalta alle stelle il
potente principe milanese. Ignoto era sin qui il poeta ed ignota l'opera
sua, sicché gli studiosi di cose lombarde saranno grati al ricercatore
di avere riunito qualche notizia sull* uno e messi a stampa il proemio
e il primo capitolo dell* altra. Certo dal saggio niuno prenderà argo-
mento a ritenere che il Da Landriano fosse un vero poeta; ma tra i
moltissimi che negli ultimi anni del sec. XV intesserono adulazioni ri-
mate al Moro, egli pure può trovare posto, senza troppo arrossire.
Dott. Achille Bertarelli, Spiegazione e stato numerico delle [sue'] rac-
colte al i.o gennaio 190J, Milano, tip. U. Allegretti, 1905, in-8.
pp. 19.
— La via Monte Napoleone nella Milano vecchia, Inaugurandosi la nuova
sede del Touring Club Italiano, Milano, tip. U. Allegretti, 1905, in-8,
pp. 42.
Ecco due opuscoli che niuno vorrà certo accusarci di definire in
maniera esagerata, se li chiameremo veri gioielli tipografici. In entrambi
la valentia ben conosciuta del tipografo, diretta sagacemente e regolata
dal gusto e dalla dottrina dell'Autore, ha fatto di sé bellissima prova.
Il primo tra i due racchiude, come il titolo spiega, un catalogo sommario
di tutte le stampe che il Bertarelli é venuto mettendo insieme in mol-
t* anni d' assidua ed amorosa ricerca. Le cifre appaiono oramai quasi
fantastiche; le stampe storiche toccano il numero di 17408 e tra esse
ben 4748 illustrano la città nostra, specialmente in rapporto alla topo-
grafia ed alla storia del costume. Le stampe riguardanti altre città ita-
liane son 2721. Quelle relative a Napoleone I 1649. ^^ caricature, che
riflettono le vicende politiche dalla fine del sec. XVIII al 1870, assom-
mano a 400. A 200 salgono le stampe che concernono il risorgimento
nazionale; i fogli volanti di poesie, relazioni, ecc., raggiungono le 685.
Una seconda categoria comprende gli " usi e costumi „ e sono in tutto
7726 pezzi; una terza il " teatro „ ed i numeri ammontano a 5748. La
quarta categoria, destinata alla " letteratura ed iconografia popolare „
vanta 3267 numeri; la quinta (" mezzi di trasporto „) sale a 1366 nu-
meri. " Le arti ed i mestieri „ formano la VI classe, ricca di numeri 3580;
la VII è costituita da piccole stampe " di soggetto personale „; e
sono 7898. La VIII classe comprende " la ornamentazione del libro e
" le carte colorate „; (n. 7703); la IX i " documenti per la storia della
" litografia „ tra noi (n. 687). La X una collezione Bodoniana. Son in
tutto numeri 53801 ! E nella sua massima parte questo prezioso materiale
passerà in un avvenire, che ci auguriamo ancora molto ma molto lon-
I
BIBLIOGRAFIA 387
tano, alla biblioteca di Brera. Così ha deliberato il liberale raccoglitore,
che del suo fermo proposito dà nuova e pubblica attestazione nella de-
dica del suo Hbretto. Ma agli studiosi anche ora l'inesauribile cortesia
del Bertarelli riesce sempre larga d'aiuto.
Quali e quante siano le curiosità, ed insieme anche i veri cimeli
storico-artistici, accumulate dal nostro ottimo amico e collega, si può
facilmente rilevare dalle belle pubblicazioni che egli è venuto facendo
in questi ultimi anni; ma se ulteriori prove fossero opportune, sarebbe
facil cosa additarle nel secondo dei due opuscoli da noi registrati in
fronte a quest'articolo. Lo scritto dedicato ad illustrare le vicende della
via che, correndo Tanno 1804, assunse il nome di " Contrada del Monte
" Napoleone „ , nome toltole dall' intolleranza austriaca e restituitole
nel i86o, dimostra ad esuberanza quale magnifico corredo di documenti
grafici intorno al vecchio Milano possegga il dott. Bertarelli. Egli ha
saputo in poche pagine tratteggiar con sicura e vivace dottrina le varie
trasformazioni della parte della città, ove la via corre oggidì; forse la
via in tempi remotissimi precedette la costruzione della cinta romana ;
certo fu, nel medio evo, strada esterna, nella quale si entrava dalla
contrada di S. Vittore e Quaranta Martiri (ora P. Verri), per una Pu-
sterla detta di Porta Nuova, che aveva di fronte la chiesa di S. Andrea.
Dallo studio di questi ed altri dati topografici l'A. è portato a concludere
che già nel sec. XIII il Monte Napoleone era tracciato com'appare oggidì.
Noi non possiamo seguire a lungo il Bertarelli nella sua attraente
narrazione delle vicende della strada nei secoli successivi. Solo diremo
come in una Pianta di Milano, pubblicata a Venezia nel 1569 e fin qui
sconosciuta a tutti gli studiosi di cartografia milanese, l'A. abbia rin-
venuto indicato un particolare curioso : vale a dire che la via vi risulta
percorsa per tutta la sua lunghezza da un canale. È questo il Seveso,
il quale, per quanto sembra, rimase scoperto, certo con poco vantaggio
dell'igiene, fin alla metà del cinquecento; la pianta dunque deve esser
stata compilata sopra un' altra più antica sfuggita finora alle ricerche,
ma che si riuscirà una volta o l'altra a scovare (i).
(i) L'interessante scoperta del Bertarelli toglie irremissibilmente il vanto
di essere le più antiche carte topografiche di Milano alle due che prima d'ora
se lo disputavano, vale a dire a quella pubblicata a Colonia nel 1572 dal Ho-
[genberg e all'altra impressa a Roma nel 1575 da Antonio Lafreri. Siccome le due
itavole sono l'una riproduzione dell'altra, cosi era sorta la questione quale delle
^due dovesse ritenersi l'originale. Il Bertarelli per suo conto è d'avviso che non
sia il caso di parlare d'originalità né per V una né per l'altra ; ma che entrambe
jiano copie di un tipo preesistente, eseguito a Milano.
Non veggo perchè, allegando le rozze piante iconografiche di Milano del
[sec. XV, edite dal dott. Ratti, il B. passi sotto silenzio quella rozzissima ma
f^iù antica introdotta da Galvano Fiamma nel cod. ambrosiano delle sue Cro-
niche. È questa senza verun dubbio il più antico documento cartografico milanese
Ich'oggi esista.
388 BIBLIOGRAFIA
Il libro del Bertarelli, oltre ad essere adorno d'una nitida riprodu-
zione della Pianta di Milano or citata, reca altre belle illustrazioni tratte
da vecchie incisioni e ritratti. Esso è insomma un saggio veramente
riuscito di illustrazione topografica milanese, promettitore di un libro
che, quando fosse compiuto, riuscirebbe di utilità grandissima per gli
studiosi. Vorrà il dott. Bertarelli continuare nella bella impresa per la
quale possiede tutti i requisiti necessari? Noi ce T auguriamo di gran
cuore, e nell'augurio ci saranno certo compagni quanti amano nel pre-
sente rivolgimento di cose, di usanze, di vita, fermare i tratti fuggenti
del passato che perisce.
F. N.
La collezione Giorgio Mylius di battenti in ferro e bronzo; 20 tavole in
eliotipia con prefazione di Andrea Balletti, Milano, 1905, in folio.
(Ediz. di loo esemplari).
Attraversiamo veramente un tempo in cui è giunta a sommo grado
la passione di formare collezioni ; ma tra le altre questa spicca per un
carattere suo proprio. Nelle venti magnifiche tavole eliotipiche di cui
consta il volume ci si apre innanzi un campo a cui pochi forse avevano
prestato prima d'ora attenzione: i nostri maggiori con squisito senso
d'armonia sapevano trasformare in mirabili opere d'arte gli oggetti più
umili, pili semplici ; ed il genio spontaneo d'un oscuro artefice abbelliva
di forme nuove tutto ciò a cui ponesse mano. E mentre il falegname
istoriava di squisiti intagli le porte d'un palazzo, il fabbro s' affrettava
ad arricchirle di battenti in ferro o in bronzo.
L'evolversi del sentimento d'arte, le differenze profonde del gusto
nei tempi o nelle razze diverse, si possono appunto piacevolmente se-
guire, sfogliando le riproduzioni della ricca raccolta di battenti formata
da Federico Mylius e continuata dal suo egregio figliuolo.
I secoli più antichi preferirono quasi esclusivamente il ferro, fino al
tramonto del sec. XV; e dai più semplici si arriva con l'andar degli anni
ad esemplari in cui volontieri si riconoscerebbe la mano d'un Giambo-
logna, o d'un aUievo del Sansovino : più tardi il metallo sembra torcersi
o gonfiarsi, conservando a volte anche nelle strane curvature una certa
nobiltà di linee; il sec. XVIII dà anche ai battenti il suo carattere di fra-
gilità e di ricercatezza fredda.
Lo scopo del battente impose sempre una certa limitazione alla fan-
tasia degli artefici: il battente è grande a volte e a volte minuscolo;
ma vi predomina la foggia a martello, cui contendono il campo i draghi,
le iniziali, gli anelli, e più raramente gli stemmi. Tra i molti esemplari
della collezione in cui si riconosce la mano di artefici sottili, è assai
infrequente trovare una firma, si che pocki nomi ci si fanno innanzi;
un Salio, un Larducci, un Bertanelli, un Clementi di Reggio, uno Spani.
In complesso l'opera è davvero interessante e illumina un piccolo ma
curioso lato della vita artistica dei nostri padri.
BOLLETTINO DI BIBLIOGRAFIA STORICA LOMBARDA
(dicembre 1904 - giugno ipoj)
I libri segnati con asterisco pervennero alla Biblioteca Sociale.
ACCÀSCINA (C). II libro d'oro della duchessa Bona (Con ili.). — Secolo XX,
dicembre 1904.
ALLAIN (E.). Brevi notizie su 'Plinio il giovane (trad. dal francese di
E. Mannucci). Città di Castello, S. Lapi, 1904, in-8, pp. x-ii8.
— Pline le jeune et ses héritiers. Addenda, décembre 1904. Paris, Fon-
te moing éditeur.
*AMBROSOLI (S.). La zecca di Cantù e un codice della Trivulziana (fig.).
— Rivista italiana di numismatica, a. XVII, 1904, fase. IV.
* — Seconda aggiunta alle medaglie del Volta. — Rivista italiana di nu-
mismatica, fase. IV, 1904, pp. 602-603.
ANDRICH (G.). Intorno alle origini del comune in Italia. — Rivista ita-
liana di sociologia, dicembre 1904.
ANNONI (A.). Una villa della fine del seicento (La villa Litta Modignani
ad Affori presso Milano). — Il Buon Cuore, n. 52 (Numero di Na-
tale, 1904).
"" Annuario della R. Accademia scientifico-letteraria per l'anno scolastico 1904-
1905, in-8, Milano, 1905.
NovATi (F.). Parole dette il giorno dell' inaugurazione dell'anno scola-
stico (5 novembre 1904). — Oberziner (G.). Le origini del Cristianesimo
nella critica e nella ipercritica. Discorso inaugurale. — Pubblicazioni dei
professori durante il 1904. — Programmi e orari per Tanno scolastico.
"Archivio storico per la città e comuni del circondario di Lodi. Anno XXIII,
1904, fase. IV. Lodi, tip. Quirico & Camagni.
GoRLA (L.). Ospedali Lodigiani : Ospitale Fissiraga. — Agnelli (G.).
Il generale marchese Annibale Sommariva [dalla GaT^^etta di Lodi del 19 set-
Arch. Stor. Lomb.^ Anno XXXII, Fase. VI. 25
390 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
tembre 1829]. — Lo stesso. Scavi a Graffignana ; Cose d'arte e d'altro
[Affresco attribuito al Mantegna donato al Museo di Lodi. — Esemplare
delle Notti romane di A. Verri, con dedica del Gonfalonieri dal castello di
Gradisca al compagno di prigione Felice Foresti, nella Biblioteca di Lodi].
— La viabilità nel Lodigiano nel secolo XV [cont. ved. num. prec. Dal-
V Itinerario Vignatense alla Braidense]. — Indice decennale i89$-i^04.
ARIAS (G.). Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nel-
l'età dei comuni. Torino-Roma, casa editrice nazionale, 1905, in-8,
pp. 560 (" Biblioteca di scienze sociali e politiche „, n. 48).
*Atti e Memorie della R. Accademia Virgiliana di Mantova. Biennio accademico
1903-904. Mantova, stab. Mondovi, 1904, in-8, pp. xxxviiij-281.
Lucchini (L.). Il Panteon dei principi Gonzaga in S. Martino dell'Ar-
gine. — Carreri (F.). Pietole, Formicada e il fossato di Virgilio. — Piz-
ziNi (A.). Niccolò Tommaseo. — Dall'Acqua (A. C.). L'arte del quattro-
cento a Venezia. — Intra (G. B.). Del codice Capilupiano contenente i Trionfi
di Francesco Petrarca. — Patuzzi (L ). Sul canto di Ugolino. — Richter (V.).
Vittorio Alfieri. — Rambaldi (P. L ). Il canto XX àéiVInferno.
AUVRAY (L.). Inventaire de la coUection Custodi (Autographes, pièces
imprimées et autres documents biographiques) conservée à la Bi-
bliothèque Nationale, s" article [Macchi-Reina]. — Bulletin Italien
(Annales de la Faculté des lettres de Bordeaux) to. V, n. i, 1905,
pp. 73-89.
AVANCINI (A.). Da Magenta a Solferino (Polvere ed ombra). Romanzo
storico. Appendici alla Gazzetta del Popolo di Torino, n. 92, 2 aprile
1905, prec. e sgg.
AVIGLIANO (E.). Il paesaggio in quattro poeti (Virgilio, Petrarca, Tasso,
Leopardi). Napoli, tip. Festa, 1904, in-8, pp. 60.
* BABUT (E.). La date du Concile de Turin et le développement de l'auto-
rité pontificale au V* siècle. Réponse à mons. Duchesne et à M. Pfister.
— Revue Historique, maggio-giugno, 1905.
11 vescovo di Milano presidente e convocatore del concilio (417).
* BALLETTI (A.). La collezione Giorgio Mylius di battenti in ferro ed in
bronzo : note illustrative. Milano, tip. U. Allegretti, 1905, fol., pp. 15,
con 20 tav.
Cfr. i cenni bibliografici in qvLtst' Archivio.
BARATTA (M.). Curiosità vinciane. Torino, fratelli Bocca edit. (tip. Vin-
cenzo Bona), 1905, in-8 fig., pp. 206.
I. Perchè Leonardo da Vinci scriveva a rovescio. — II. Leonardo da
Vinci enigmofilo. — III. Leonardo da Vinci nella invenzione dei palombari
e degli apparecchi di salvataggio marittimi. — Piccola biblioteca di scienze
moderne, n. 103.
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 39I
BARBAVARA (G. C). Il convento di S. M. delle Grazie in Varallo. — //
Piemonte, a. II, n. 32, 1904.
BARBIERA (R.). Verso l' ideale : profili di letteratura e d'arte, con pagine
inedite di: Adelaide Ristori, Domenico Morelli^ Tranquillo Cremona^
Giuseppe Revere, Mosè Bianchi, Giovanni Prati, Emilio Praga^ Ar-
rigo Botto, Giovanni Verga, Ada Negri, Emilio Zola. Milano, libreria
editr. nazionale, 1905, in-i6, pp. 436.
'^BARBIERI (sac. C). L'Immacolata a Vigevano, — Rivista di scienze sto-
riche, marzo 1905.
BASERGA (sac. dott. G.). Note di storia Vallintelvese, — La Valle Intelvi
di Como, a. IMII, 1904-1905, nn. 59, 63, 65, 67, 69, 73, 75, 77, 80, 85,
87, 90.
XXIX. Feudi e contee in Valle : I Camuzii. — XXX. I Rusca. —
XXXI. Gli ultimi conri e feudatarj. I Marliani e i Riva Andreotti. —
XXXII. La Valle sotto i duchi Visconti. — XXXIII. Gli Sforza. —
XXXIV. Le condizioni della Valle sotto i duchi di Milano. — XXXV. Me-
morie sulla peste in Valle. — XXXVI. Ancora sulla peste; memorie e
leggende. — XXXVII. Guelfi e Ghibellini in Valle. — XXXVIII-XL. Ori-
gine delle parrocchie.
"^BAUDI DI VESIVIE(B.). L'origine romana del comitato langobardo e franco.
Comunicazione. — Atti Congresso storico internazionale, voi. IX,
pp. 231-327.
Una prima edizione della presente memoria trovasi in Boll. stor. subal-
pino^ VII, n. 5, 1903, ma con documentazione molto meno sviluppata.
BAZETTA (dott. N.). Storia della città di Domodossola dall'era romana
all'apertura del traforo del Sempione. Appendice della Libertà di
Domodossola, nn. 6, 7, febbraio 1905 e sgg.
BEKK (A.). Baiern, Gothen und Langobarden. Beitrag zur Lòsung der
Bajuvarenfrage. Salzburg, E. HoUrigl, 1904, in-8, pp. 35.
BELLODI (R.). La casa di Giovanni Boniforti a Mantova. — Arte italiana
decorativa, a. XIII, 1904, pp. 32 sg.
*BELTRAIVII (A.). Quale delle due lezioni Mella (Mela) o Melo (Mello) sia
da preferire in Catullo (e. LXVII, v. 33). — Atti Congresso storico
internazionale, voi. II (Roma, 1905).
Con